Giovedì 20 ottobre, a Roma, si è tenuto un dibattito pubblico su “Vangelo e laicità”, organizzato dagli “Eventi di Elea”, al quale hanno partecipato monsignor Rino Fisichella e l’onorevole Pierluigi Bersani.
Forse è opportuno delineare meglio il contesto. Dal sito web della Elea S.p.A apprendiamo che si tratta dello «storico istituto di formazione fondato da Adriano Olivetti e acquisito dalla Chiesa tramite i Padri Concezionisti», per farne la «risposta cattolica» a Cernobbio, con «una speciale attenzione ai temi della geopolitica e dell’economia internazionale», su ispirazione del Segretario di Stato Vaticano, il cardinal Tarcisio Bertone. In pratica, Adriano Olivetti muore, l’istituto Elea si trova in difficoltà economica, la Chiesa lo rileva perché l’ottopermille non va tutto in ciotole di minestra per i poveri, ne dà la direzione a un genuflesso e ne fa un «foro di confronto sul magistero di Benedetto XVI, con l’intervento di personalità della Chiesa e delle Istituzioni, ai più alti livelli rappresentativi»: un altro “Cortile dei Gentili”, diciamo, ma rammentando che il cortile, come sempre, è quello del Tempio, solo che qui i laici non sono chiamati a confrontarsi sulla fede in Dio, ma sulla dottrina sociale della Chiesa.
Stavolta, dicevamo, è stata la volta di Pierluigi Bersani; l’ultima volta – sempre con monsignor Rino Fisichella – c’era Massimo D’Alema: «Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi». Il segretario del Pd non è stato altrettanto sfacciato, anzi, ha perfino fatto un tentativo di negoziare sui valori non negoziabili. Possiamo archiviare il suo intervento fra quelli da dimenticare, ma quello di Fisichella merita qualche attenzione.
L’Osservatore Romano di sabato 22 ottobre ne riportava ampi stralci, ma è su un passaggio saggiamente espunto, recuperabile on line, che vale la pena soffermarsi. Lo reinserisco dov’era originariamente, tra le parentesi: «Lo Stato afferma che in quanto laico non pone la religione a fondamento legislativo dei propri atti, perché riconosce la dovuta separazione tra i due ambiti. Nello stesso tempo, tuttavia, in forza del richiamo alla propria identità laica, non può negare né archiviare la religione; al contrario, è obbligato a riconoscerne la presenza e la funzione perché essa è preesistente al suo stesso affermarsi e organizzarsi come Stato. [Se la religione, quindi, viene riconosciuta dallo Stato laico come un fenomeno presente nella società, è ovvio che essa, nelle forme in cui dispone, si organizzi in modo tale da esercitare e incrementare il proprio influsso nella configurazione e nell’ordinamento della convivenza civile e di farlo contestualmente ai singoli processi di formazione del consenso politico, nonché in ragione della costitutiva capacità di fornire ai suoi fedeli determinati orientamenti nel rapporto tra i cittadini e lo Stato stesso.] Prescindere da questa considerazione equivarrebbe a non poter spiegare di fatto, ad esempio, la formazione dei partiti all’interno dello Stato democratico che si sono richiamati direttamente ai principi del cristianesimo».
Nella versione cartacea, dunque, un partito che si ispiri ai principi cristiani trae la sua legittimità dal fatto che la religione è preesistente allo Stato: in quanto credenti, i cittadini di fede cristiana hanno diritto di farsi partito per far valere i loro principi. Nella versione originale, però, è fatto chiaro che essi sono tenuti a trarre questi principi da un magistero che è quello della Chiesa di Roma, che dunque fa proprio questo diritto insieme a quello di orientare la linea politica di quello che così, a tutti gli effetti, diventa il suo partito.
Nel primo caso, abbiamo una versione opportunamente edulcorata: la religione è intesa come credo. Nel secondo, che correttamente esprime la pretesa dell’ingerenza clericale nella vita pubblica, la religione è intesa come confessione. I principi sono diventati orientamenti e in realtà non c’è grande differenza, trattandosi di una religione come quella cattolica: l’obbedienza al magistero della Chiesa di Roma è premessa indispensabile perché un cristiano possa dirsi cattolico.
Quanto di fatto è nella pretesa delle gerarchie ecclesiastiche viene significativamente attenuato da L’Osservatore Romano col taglio del passaggio nel quale Fisichella riafferma che per “cristiano” debba necessariamente intendersi “cattolico” (alla faccia di tutti i cristiani italiani che non sono cattolici) e per “cattolico” debba necessariamente intendersi “obbediente alle gerarchie ecclesiastiche” (alla faccia del dirsi cattolico per mera affiliazione ad una tradizione culturale), chiarendo in modo inequivocabile che il diritto dei cristiani di essere presenti in quanto tali nella vita pubblica debba necessariamente intendersi come diritto di ingerenza della Chiesa di Roma.
Dove Fisichella lasciava intravvedere le ragioni che fondano questa pretesa, L’Osservatore Romano le attenua e “religione” diventa un concetto sterilizzato. Chi si sognerebbe mai di negare a qualcuno di credere? Su quanto sarebbe normale ne segua, il giornale del Papa preferisce glissare.
Quanto segue nell’intervento di Fisichella sembra, così, riferirsi a un diritto del singolo cittadino di fede cristiana, ma in realtà si tratta di un diritto che le gerarchie ecclesiastiche rivendicano attraverso di lui: «Questo stato di cose – dice – mostra con evidenza quanto la concezione della laicità dello Stato presupponga che all’interno della società vi sia una presenza religiosa che svolga un legittimo impegno politico quando vuole perseguire delle finalità che sono espressione della propria fede, senza per questo dover essere accusata di ingerenza negli affari dello Stato o, al contrario, vedere emarginata e discriminata la sua azione. Uno Stato che dovesse perseguire una simile politica nei confronti della religione si porrebbe immediatamente fuori dal sistema di laicità a cui intende richiamarsi e negherebbe la sua stessa storia democratica».
Per potersi dire veramente laico, lo Stato dovrebbe considerare legittima l’ingerenza. Per potersi dire veramente democratico, lo Stato dovrebbe consentire che gli strumenti di una monarchia assoluta agiscano nei propri apparati per consentirle di perseguire fini che essa garantisce essere comuni. Se questa garanzia non è ritenuta valida, lo Stato non è più laico, non è più democratico. Pierluigi Bersani non ha ritenuto necessario obiettare.