sabato 29 ottobre 2011

LBS

Leggo dallo Statuto della Bce che i membri del Comitato esecutivo “sono nominati tra persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario, di comune accordo dai governi degli Stati membri, a livello di capi di Stato o di governo, su raccomandazione del Consiglio previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo”. Così è stato per Lorenzo Bini Smaghi e, a scorrerne il curriculum, direi che le condizioni ci fossero.
Leggo, inoltre, che un membro del Comitato esecutivo non risponde ad alcuna autorità nazionale, ma solo al Consiglio direttivo della Bce, e che può essere rimosso dalla sua carica solo dalla Corte di giustizia dell’Ue e solo nel caso in cui “abbia commesso una colpa grave” o “non risponda più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni”. Non è il caso di Lorenzo Bini Smaghi, e infatti anche chi gli chiede di dimettersi non ne mette in discussione i meriti, né l’operato.
Stando a quanto leggo, insomma, Lorenzo Bini Smaghi ha il pieno diritto di non rimettere il suo mandato, che scade nel 2013. Potrebbe farlo, volendo, ma ha il diritto di non farlo. Non glielo chiede il Consiglio direttivo della Bce, ma le autorità nazionali di Italia e Francia, che peraltro non ne fanno istanza alla Corte di giustizia, ma richiesta privata, per ragioni di opportunità non contemplate dallo Statuto della Bce. Un membro del suo Comitato esecutivo non è più considerato italiano o francese, e Italia e Francia chiedono a Lorenzo Bini Smaghi di dimettersi perché è un italiano di troppo che deve lasciar posto a un francese: mera logica spartitoria per appartenenza nazionale in seno a un organismo che per definizione dovrebbe essere sovranazionale.
Se queste sono le premesse, siamo di fronte a una richiesta illegittima. Cosa impedisce, dunque, a Lorenzo Bini Smaghi di porre condizioni alla eventuale rinuncia di un suo diritto? E allora come si può pretendere che egli si dimetta, senza contrattare una contropartita, e in nome di una superiore ragion di Stato? Resista, metta un prezzo altissimo alle sue dimissioni e soprattutto non ceda al ricatto morale che lo addita a pietra dello scandalo. Lo scandalo sta nell’aver fatto mercato delle vacche in sede europea. Lorenzo Bini Smaghi ha pieno diritto di rifiutarsi di essere trattato come merce. Oppure di darsi il prezzo che ritiene giusto.    

venerdì 28 ottobre 2011

Patria


Tra governance e government

Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, un titolo che potrebbe essere uscito dalla penna di un epigono di Kant o di un precursore di Marx, forse massone, e invece sta in capo a 12 paginette del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Avrebbe dovuto fare un gran rumore, dunque, e invece è scivolato nel più irriverente disinteresse: il web lo ha snobbato e la stampa gli ha dedicato pochissimi commenti, quasi tutti scettici, perfino perplessi. Documento tanto ambizioso da sembrare velleitario, forse. Senza dubbio, innovativo. E qui sorge il problema. Perché un documento ufficiale della Chiesa di Roma può essere innovativo solo senza tradire il passato, soprattutto quello prossimo, e in questo caso, in più d’un punto e nell’assunto generale, il tradimento c’è. In poche parole, l’utopia di “un’autorità pubblica a competenza universale” non scivola liscia sulla dottrina sociale, e fa qualche attrito perfino sulla superficie della Caritas in veritate, che pure è sommamente ambigua. C’è un motivo, e questo spiega perché questo documento avrà vita breve e tormentata. Vediamo perché.
La gestazione della prima enciclica sociale di Benedetto XVI fu lunga quasi quanto quella di un elefante: nell’autunno del 2007 circolò voce che avesse preso a lavorarvi da alcuni mesi, ne fu annunciata la pubblicazione nel febbraio e poi nel settembre del 2008, per veder luce solo nel giugno del 2009. Sua Santità sembrava non essere mai contento del testo, che pare abbia avuto non meno di sei profonde revisioni e innumerevoli limature. Nell’attesa che fosse infine data alle stampe mi sono trattenuto molte volte sul perché di quel lungo indugio e ho scritto che proporre macrosoluzioni a macroproblemi è sempre un azzardo, anche per chi è ispirato dallo Spirito Santo, più che mai quando si tratta di affidarle alla prova dei fatti, da subito, e al giudizio del mondo, per sempre. Anche la Caritas in veritate doveva prendere la forma adeguatamente ambigua di tutte le encicliche sociali dalla Rerum novarum in poi per sembrare una ricetta insuperabile, ma per essere poi superabile, quando superata, senza dover essere manifestamente ritirata. Per non dover fare i conti con la fluidità dell’immanenza che inesorabilmente rimaneggia le dimensioni della conoscenza e della sensibilità umane, al magistero morale non resta che farsi nitido e intransigente, nel costante richiamo alla natura creaturale dell’uomo, nella quale sarebbe impressa una norma eterna, primigenia e immutabile. Al magistero sociale non conviene, perché l’arroccamento si tradurrebbe in autoemarginazione. Con la perdita del suo potere temporale, la Chiesa di Roma è costretta a fuggire la modernità sul piano morale, mentre su quello sociale è costretta a rincorrerla.
Cominciò con Leone XIII. Il socialismo ateo minacciava il primato della Chiesa nella cura dei disgraziati, e le encicliche sociali rilanciarono quel primato aprendo al mercato e alla libera impresa, però temperati dal solidarismo, inteso come emanazione attiva e permanente dei corpi sociali intermedi: una terza posizione tra socialismo e capitalismo che la Chiesa dichiarava antecedente ad essi, e che sembrò a tutti, ai cattolici innanzitutto, più aperta al capitalismo che disponibile verso il socialismo. Fino all’involuzione e alla crisi del socialismo, la Chiesa fu attivamente schierata in favore dell’economia di mercato, ma ribadiva che la “mano invisibile” non bastava, e che il capitalismo doveva farsi compassionevole, cioè informare i suoi meccanismi interni di una esterna e superiore logica dalla cifra morale. Era con ciò ribadito che Dio è carità, e che le forme della carità efficace non possono essere altro che momenti della sua incarnazione: la sovranità sociale di Cristo, politicamente sempre meno evidente, ribadiva la sua pretesa nel dichiarare che la dottrina sociale della Chiesa è necessità morale del gregge cristiano. È questo il solo assunto costante in tutte le encicliche sociali.
Ogni posizione intermedia tra la pura economia di Stato (l’abolizione della proprietà privata) e la pura economia di mercato (l’avido egoismo del cosiddetto liberismo selvaggio) diventava posizione in qualche modo accettabile dalla Chiesa, se prevedeva che ad essa fosse consentito di dettare le regole della solidarietà, con il suo ruolo diretto (associazionismo) o indiretto (ispirare le politiche sociali dei governi). Bisognava aspettare che il socialismo fallisse e che il capitalismo entrasse in una delle cicliche crisi di crescita perché la dottrina sociale della Chiesa riprendesse i connotati della pretesa della sovranità sociale di Cristo, cioè nella riaffermazione di una legge antecedente e superiore all’uomo, di cui i chierici sono custodi per mandato divino. Il fatto è che presto si sarebbe fatta viva la tentazione al socialismo, e ancora una volta la Chiesa sarebbe stata costretta a rincorrerlo. Siamo a questo punto e il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace prende un pericolo abbrivio, e lo scavalca.
Com’è potuto accadere? Scandalizzerà gli ingenui, ma nulla è più simile al socialismo quanto il cattolicesimo, anzi, prendendo a prestito le parole di Giovanni Spadolini, «si potrebbe dire che la Chiesa ha elaborato una sua dottrina “socialista” per sfuggire al pericolo del liberalismo. Il socialismo è, in sé, una tecnica di equilibrio e di sicurezza sociale, che non può contrastare coi fini della Chiesa. L’antitesi insanabile del pensiero cattolico è, al contrario, con l’economia liberale, che abolì l’obbligo di sostenersi a vicenda, svuotando l’idea stessa della solidarietà. [...] Per il cristianesimo, tale posizione è inaccettabile: l’iniziativa del singolo ha dei limiti, a cui ripara in ogni caso la carità» (Il papato socialista, Longanesi, 1969). Si avesse qualche dubbio, basti la illuminante lettura de Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato (Rizzoli, 2009 - soprattutto le pagine finali [287-299]) di monsignor Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco. E tuttavia il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace va oltre: «Nel cammino della costituzione di un’Autorità politica mondiale non si possono disgiungere le questioni della governance (ossia di un sistema di semplice coordinamento orizzontale senza un’Autorità super partes) da quelle di un shared government (ossia di un sistema che, oltre al coordinamento orizzontale, stabilisca un’Autorità super partes) funzionale e proporzionato al graduale sviluppo di una società politica mondiale. La costituzione di un’Autorità politica mondiale non può essere raggiunta senza la previa pratica del multilateralismo, non solo a livello diplomatico, ma anche e soprattutto nell’ambito dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace. A un Governo mondiale non si può pervenire se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni [3] Un sano realismo richiederebbe il tempo necessario per costruire consensi ampi, ma l’orizzonte del bene comune universale è sempre presente con le sue esigenze ineludibili. È pertanto auspicabile che tutti coloro che, nelle Università e nei vari Istituti, sono chiamati a formare le classi dirigenti di domani si dedichino a prepararle alle loro responsabilità di discernere e di servire il bene pubblico globale in un mondo in costante cambiamento. È necessario colmare il divario presente tra formazione etica e preparazione tecnica, evidenziando in particolar modo l’ineludibile sinergia tra i due piani della praxis e della poièsis [4]». Tra governance e government, senza la rivoluzione, cosa?  

mercoledì 26 ottobre 2011

Monsieur fa bene a ridere dell’Italia



Qual è il giornale che più s’è speso in elogi a Nicolas Sarkozy, prima, durante e dopo la campagna elettorale che lo ha portato all’Eliseo? Un aiutino? Si tratta di un giornale del centrodestra. Non ci arrivate? Si tratta del giornale che per il discorso che tenne nella Basilica di San Giovanni in Laterano, nel 2007, gli fece un pompino di quelli indimenticabili. Ci siete? Bravi, si tratta proprio del giornale diretto da quel patetico pagliaccio che ieri si esibiva su un palco in piazza Farnese in favore di cinquanta astanti e duecento telecamere.
Monsieur fa bene a ridere dell’Italia. A me è sempre stato sul cazzo, ma ne ha tutto il diritto. Per dirne una: in Francia, con una popolazione di poco superiore a quella italiana, circolano solo 65.000 auto blu, poco più di un decimo di quante ne circolano in Italia. L’anno scorso erano 629.120, 21.000 in più dell’anno prima, 400.000 in più che nel 2005: il costo complessivo di questa enorme vergogna non è inferiore ai 21 miliardi di euro (i dati sono stati resi pubblici da Giulio Tremonti nel marzo del 2010). Pensate che nell’infinita serie di manovre e manovrine cogitate da questo governo di merda vi sia traccia di qualche taglio a questo sterminato parco macchine? Niente. 

martedì 25 ottobre 2011

Sennò non eravamo a questo punto

La bravura di chi riesce a venderti uno scampolo di moquette in poliestere e viscosa come tappeto persiano di pregio sopraffino sta tutta nel convincerti del fatto che, da grande intenditore qual sei, non puoi farti sfuggire l’affarone: quando ti capiterà più, e a un prezzo tanto conveniente, un parsibaft tanto omogeneo da sembrare quasi un axminster? Il patriottismo che Silvio Berlusconi è riuscito a suscitare in alcuni di voi è dovuto a questo tipo di bravura, che è del piazzista dalle doti eccelse.
Alla fine di un vertice dei capi di stato dellUnione europea, nel corso di una conferenza stampa, un giornalista chiede ad Angela Merkel e a Nicolas Sarcozy: «Silvio Berlusconi vi ha rassicurato circa le riforme che la Bce ha chiesto all’Italia?». È fin troppo evidente che il premier italiano non abbia potuto farlo, e qui a due scappa un sorriso imbarazzato, perché a dover essere sinceri, la risposta sarebbe: «No». L’imbarazzo dura quattro lunghissimi secondi, poi riescono a trovare una risposta: «Abbiamo fiducia nell’insieme delle autorità italiane, nelle istituzioni politiche, economiche e finanziarie del paese...». Come a dire: contiamo sull’Italia, ma, via, contare su Silvio Berlusconi è da sprovveduti.


Anche troppo buoni. Chi non conosce Silvio Berlusconi? Uno che fa il premier a tempo perso, che non schioda da Palazzo Chigi solo lì dentro può dirsi al sicuro, che fa fronte alle drammatiche emergenze del paese con un «qualcosa ci inventeremo», che amici e nemici danno ormai finito da mesi... Che garanzie può offrire, uno così? Anche troppo buoni, Merkel e Sarkozy. Ma se, come si è detto, i loro sorrisi imbarazzati sono stati uno schiaffo, questo schiaffo a chi è andato? All’Italia o a Berlusconi? «Abbiamo fiducia nell’insieme delle autorità italiane, nelle istituzioni politiche, economiche e finanziarie del paese...».  Nell’insieme, sì, ma non ci imbarazzate chiedendoci se Berlusconi gode della nostra fiducia: non gode più nemmeno di quella che gli italiani gli hanno dato nel 2008.
E dunque che senso ha questa isterica levata di patriottismo che dalle pance dei lacché di corte sale come un rutto e nei cretini che cercano un attestato di italiani super partes rumoreggia come un borborigma? Nessuno, se non quello di accettare, di ritorno, quella equivalenza tra paese e premier, tra Italia e Berlusconi, che può trovare senso solo in qualche residuale forma di simpatia per la monarchia assoluta. Siamo ben oltre pure al «right or wrong its my country», a meno che non valga l’equazione Italia = Berlusconi. Ma è come pagare uno scampolo di moquette in poliestere e viscosa al prezzo di un tappeto persiano di pregio sopraffino.


E allora comè che il piazzista si azzarda a tentare la sua truffa? Semplice. Abbiamo perso la capacità di capire la differenza tra tappeto e moquette. O non labbiamo mai avuta. Sennò non eravamo a questo punto.    
       

lunedì 24 ottobre 2011

Al diavolo!



«Un Pd dove ci si appassiona e ci si diverte»



«Ti vergogni se ti chiamo Pippo?»
Massimo Troisi

«Saramago, che era un rottamatore, diceva: “Non si deve avere fretta, ma non si deve perdere tempo”. È questo, il nostro tempo e, se fosse per me, se fosse per noi, il Pd sarebbe sempre così, quello che abbiamo visto in questa piazza: sarebbe il Pd, quello nostro, che fa incontrare il Palazzo e la Piazza, quello che si confronta alla pari con la società civile (noi la chiamiamo “civilissima”), che si spende con coraggio sulle battaglie che sono i suoi elettori i primi a sentire. Un Pd che non perde tempo, che alza il livello e però scende dal piedistallo. Un Pd che non si chiede, come Nanni Moretti, se “mi si nota di più se vengo o non vengo o se vengo e, soprattutto, mi metto in disparte”. Quello che coltiva le relazioni, che spiega le cose, che si muove senza imbarazzo, che dice a tutti la stessa cosa, dappertutto, sia che si trovi a parlare con l’operaio di Mirafiori, sia con l’imprenditore di Vicenza, nella piana di Gioia Tauro o in quella che non è più Padania (i leghisti, come sapete, sono in fuga) ma non sa ancora cosa fare davvero. Un Pd che si rivolga, come chiede Catarella al commissario Montalbano, “di persona personalmente” ai cittadini, indicando la soluzione per loro e non le nostre teorie sulle loro vite. “Dev’essere questo il posto”, dice un altro film molto recente: il posto che cerchiamo da tempo, il posto che molti sognavano nel 1996 e poi nel 2008. Dove fare un politica nuova, però, senza nostalgia se non le cose giuste da dire e quelle soprattutto da fare, con uno sguardo lucido verso il futuro. Un Pd dove ci si appassiona e ci si diverte, come abbiamo fatto noi in questi due giorni, dove credere che le cose si possono cambiare, perché le cose cambiano, però dobbiamo essere noi a farlo. Le nostre non proposte che ci siamo inventati, sono risposte. Sono risposte che muovo dal basso verso l’alto. Dobbiamo finalmente rovesciare il quadro della politica italiana…».

Qui – confesso – ho smesso di seguire con attenzione. Tuttavia mi è parso di capire: primarie pure per i parlamentari, lotta all’evasione, tutela del paesaggio, ritocchi al sistema pensionistico, patrimoniale giusta e intelligente, largo ai giovani – poi più nulla. Solida vaghezza, fumoso manifesto, tutto però confezionato in morbida velina. Una cover di Veltroni, il Pippo. D’altra parte, è già pronta la cover del cinico D’Alema, il Renzi.
Come Veltroni, il Pippo è cinefilo e sfoggia le letture giuste, in più ha pure lui il vezzo della w al posto della v (Veltroni nasce Valter, ma è poi all’anagrafe che si fa anglosassone). Il Renzi, invece, si compiace della scaltrezza e del cinismo che gli antipatizzanti gli stanno cucendo addosso: gli manca ancora un po’ di cattiveria, ma poi è pronto. Dei due prototipi si dice che galeotta fu la Fgci, qui diremo: “Tutto nacque al tempo de iMille”. 
E questo – detto senza ironia – pare sia meglio che il Pd può offrire, sennò restano Bersani e Bindi, Fioroni e Castagnetti,  Franceschini e Letta, e ancora, su tutto e sopra tutto, D’Alema e Veltroni, il primo carogna comme il faut, il secondo pop come si può. Al posto di Goffredo Bettini avremo Luca Sofri, il posto di Giuliano Amato sarà di chissà chi. 

[...]



domenica 23 ottobre 2011

Pierluigi Bersani non ha ritenuto necessario obiettare

Giovedì 20 ottobre, a Roma, si è tenuto un dibattito pubblico su “Vangelo e laicità”, organizzato dagli “Eventi di Elea”, al quale hanno partecipato monsignor Rino Fisichella e l’onorevole Pierluigi Bersani.
Forse è opportuno delineare meglio il contesto. Dal sito web della Elea S.p.A apprendiamo che si tratta dello «storico istituto di formazione fondato da Adriano Olivetti e acquisito dalla Chiesa tramite i Padri Concezionisti», per farne la «risposta cattolica» a Cernobbio, con «una speciale attenzione ai temi della geopolitica e dell’economia internazionale», su ispirazione del Segretario di Stato Vaticano, il cardinal Tarcisio Bertone. In pratica, Adriano Olivetti muore, l’istituto Elea si trova in difficoltà economica, la Chiesa lo rileva perché l’ottopermille non va tutto in ciotole di minestra per i poveri, ne dà la direzione a un genuflesso e ne fa un «foro di confronto sul magistero di Benedetto XVI, con l’intervento di personalità della Chiesa e delle Istituzioni, ai più alti livelli rappresentativi»: un altro “Cortile dei Gentili”, diciamo, ma rammentando che il cortile, come sempre, è quello del Tempio, solo che qui i laici non sono chiamati a confrontarsi sulla fede in Dio, ma sulla dottrina sociale della Chiesa.
Stavolta, dicevamo, è stata la volta di Pierluigi Bersani; l’ultima volta – sempre con monsignor Rino Fisichella – c’era Massimo D’Alema: «Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi». Il segretario del Pd non è stato altrettanto sfacciato, anzi, ha perfino fatto un tentativo di negoziare sui valori non negoziabili. Possiamo archiviare il suo intervento fra quelli da dimenticare, ma quello di Fisichella merita qualche attenzione.

L’Osservatore Romano di sabato 22 ottobre ne riportava ampi stralci, ma è su un passaggio saggiamente espunto, recuperabile on line, che vale la pena soffermarsi. Lo reinserisco dov’era originariamente, tra le parentesi: «Lo Stato afferma che in quanto laico non pone la religione a fondamento legislativo dei propri atti, perché riconosce la dovuta separazione tra i due ambiti. Nello stesso tempo, tuttavia, in forza del richiamo alla propria identità laica, non può negare né archiviare la religione; al contrario, è obbligato a riconoscerne la presenza e la funzione perché essa è preesistente al suo stesso affermarsi e organizzarsi come Stato. [Se la religione, quindi, viene riconosciuta dallo Stato laico come un fenomeno presente nella società, è ovvio che essa, nelle forme in cui dispone, si organizzi in modo tale da esercitare e incrementare il proprio influsso nella configurazione e nell’ordinamento della convivenza civile e di farlo contestualmente ai singoli processi di formazione del consenso politico, nonché in ragione della costitutiva capacità di fornire ai suoi fedeli determinati orientamenti nel rapporto tra i cittadini e lo Stato stesso.] Prescindere da questa considerazione equivarrebbe a non poter spiegare di fatto, ad esempio, la formazione dei partiti all’interno dello Stato democratico che si sono richiamati direttamente ai principi del cristianesimo».

Nella versione cartacea, dunque, un partito che si ispiri ai principi cristiani trae la sua legittimità dal fatto che la religione è preesistente allo Stato: in quanto credenti, i cittadini di fede cristiana hanno diritto di farsi partito per far valere i loro principi. Nella versione originale, però, è fatto chiaro che essi sono tenuti a trarre questi principi da un magistero che è quello della Chiesa di Roma, che dunque fa proprio questo diritto insieme a quello di orientare la linea politica di quello che così, a tutti gli effetti, diventa il suo partito.
Nel primo caso, abbiamo una versione opportunamente edulcorata: la religione è intesa come credo. Nel secondo, che correttamente esprime la pretesa dell’ingerenza clericale nella vita pubblica, la religione è intesa come confessione. I principi sono diventati orientamenti e in realtà non c’è grande differenza, trattandosi di una religione come quella cattolica: l’obbedienza al magistero della Chiesa di Roma è premessa indispensabile perché un cristiano possa dirsi cattolico.
Quanto di fatto è nella pretesa delle gerarchie ecclesiastiche viene significativamente attenuato da L’Osservatore Romano col taglio del passaggio nel quale Fisichella riafferma che per “cristiano” debba necessariamente intendersi “cattolico” (alla faccia di tutti i cristiani italiani che non sono cattolici) e per “cattolico” debba necessariamente intendersi “obbediente alle gerarchie ecclesiastiche” (alla faccia del dirsi cattolico per mera affiliazione ad una tradizione culturale), chiarendo in modo inequivocabile che il diritto dei cristiani di essere presenti in quanto tali nella vita pubblica debba necessariamente intendersi come diritto di ingerenza della Chiesa di Roma.
Dove Fisichella lasciava intravvedere le ragioni che fondano questa pretesa, L’Osservatore Romano le attenua e “religione” diventa un concetto sterilizzato. Chi si sognerebbe mai di negare a qualcuno di credere? Su quanto sarebbe normale ne segua, il giornale del Papa preferisce glissare.

Quanto segue nell’intervento di Fisichella sembra, così, riferirsi a un diritto del singolo cittadino di fede cristiana, ma in realtà si tratta di un diritto che le gerarchie ecclesiastiche rivendicano attraverso di lui: «Questo stato di cose – dice – mostra con evidenza quanto la concezione della laicità dello Stato presupponga che all’interno della società vi sia una presenza religiosa che svolga un legittimo impegno politico quando vuole perseguire delle finalità che sono espressione della propria fede, senza per questo dover essere accusata di ingerenza negli affari dello Stato o, al contrario, vedere emarginata e discriminata la sua azione. Uno Stato che dovesse perseguire una simile politica nei confronti della religione si porrebbe immediatamente fuori dal sistema di laicità a cui intende richiamarsi e negherebbe la sua stessa storia democratica».
Per potersi dire veramente laico, lo Stato dovrebbe considerare legittima l’ingerenza. Per potersi dire veramente democratico, lo Stato dovrebbe consentire che gli strumenti di una monarchia assoluta agiscano nei propri apparati per consentirle di perseguire fini che essa garantisce essere comuni. Se questa garanzia non è ritenuta valida, lo Stato non è più laico, non è più democratico. Pierluigi Bersani non ha ritenuto necessario obiettare. 

venerdì 21 ottobre 2011

Una morte postdatata



Non faceva la tintura da almeno due mesi.
 

giovedì 20 ottobre 2011

L’unico bandolo

Andarsi a rifugiare nel luogo in cui si è nati quando non si ha più alcuna via di scampo mi richiama alla mente, in due soli passaggi, la sepoltura del cadavere in posizione fetale presso tante civiltà primitive, che per i più sarebbe da interpretare come il desiderio del ritorno al grembo della terra che ha dato la vita e per altri – uno per tutti, Mircea Eliade – indicherebbe il predisporsi ad una rinascita. Non so quanta importanza possa aver avuto questo istinto per la Sirte di Muammar Gheddafi o la Tikrit di Saddam Hussein, anzi, penso che molto probabilmente la scelta sarà stata motivata da ragioni tutte pratiche e d’altra parte facilmente comprensibili. Tuttavia non è per le stesse ragioni – se ridotte all’essenziale – che il nostro profondo immagina l’utero materno come il luogo più sicuro?
Ecco, forse questo è l’unico bandolo di compassione che possiamo tirare dal groviglio di orrore nel quale un tiranno avvolge la sua vita, che ha sempre giusta soluzione nella morte violenta, checché si dica per buona educazione: si tratta pur sempre di un uomo e, pur avendo voluto farsi nemico dei suoi simili, fino a farsi disumano, spesso con determinazione bestiale, non ha potuto tradire fino in fondo la sua specie. Anche quando il delirio lo ha portato a sentirsi un dio, infine gli scappa sempre un “mamma!”.

“Sic”


“Sic transit gloria mundi”, e per il “sic” basta pigliare a esempio quel tale che avrebbe avuto un futuro assicurato come maestro di sci per miliardarie in menopausa e invece si è accontentato di diventare il più ridicolo ministro degli esteri italiano di tutti i tempi: “modello di democrazia per tutto il mondo arabo”, a febbraio, Gheddafi diventa il morto necessario, otto mesi dopo, alla “grande vittoria del popolo libico”.   

“Non è casuale”

Stamane, nel corso della sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha sollevato una interessante questione. Prendendo spunto dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea che di recente ha accolto un ricorso Greenpeace contro la brevettabilità dei procedimenti che utilizzano cellule staminali embrionali, ha rilevato che i cattolici non sono soli nell’ostinata difesa del principio di trascendenza che i conservatori di ogni risma intravvedono nella cosiddetta Natura – difesa tanto strenua che arriva inevitabilmente a immaginare come eticamente fondati i freni alla ricerca scientifica – ma spesso trovano alleati nelle frange più estremiste del movimento ambientalista. “Non è casuale”, ha detto Bordin, e infatti non lo è. Anche quello di certi “verdi” è fondamentalismo religioso. Sarà una religione che identifica il suo Dio nella Natura, e dunque il Creatore nel Creato, ma senza dubbio arriva a dichiarare sacro, e dunque intangibile, ciò che è “naturale”, e con analoga o pressoché simile argomentazione a quella che è opposta al progresso scientifico da quasi tutte le confessioni religiose.
Ne abbiamo un esempio nell’elogio che Benedetto XVI ha di recente tributato al movimento ecologista: “Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare… Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va, che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni… L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé” (Discorso al Bundestag, 22.9.2011).
In questa occasione non si è toccato il nervo scoperto che farebbe saltare il tavolo sul piano teologico tra teisti e deisti, che poi è proprio quello della distinzione tra Creatore e Creato, ma è evidente che tutte le alleanze costringono a mettere in secondo piano le questioni che caratterizzano lo specifico degli alleati. Questo asse tra i settori più integralisti del movimento ambientalista e quelli più retrivi del mondo religioso non è affatto nuovo. Qualche anno fa, su queste pagine, per gioco, spacciai il testamento di Unabomber per un’enciclica di Giovanni Paolo II: le ragioni contro il progresso scientifico, la globalizzazione e il capitalismo erano interscambiabili, sicché ritengo che il gioco reggesse a meraviglia.
In quanto alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, c’è poco da dire: troverà smentita in meno di 5 o 6 anni. Come fanno notare i filoclericali, pur con le immancabili forzature, essa introduce un principio di equiparazione giuridica tra persona e non-ancora-persona che alla prova della legislazione corrente non ha alcuna speranza di reggere. Una vittoria di Pirro che potrà frenare la ricerca scientifica per qualche anno, ma non di più. Come più volte la storia ha dimostrato, un papa col morbo di Parkinson non rinuncerà a curarsi con le cellule staminali embrionali, previo arzigogolo. Si dovrebbe partorire con dolore, ma si finisce per dir di sì allanalgesia da parto. E abbiamo avuto papi ferocemente ostili all’istruzione di massa, alla libertà di stampa, al suffragio universale... Poi non più. 

Ora basta con Il Foglio


 

Il Foglio è sempre stato un tag di questo blog. Con molta più assiduità negli anni passati, sempre meno negli ultimi due o tre, il giornale di Giuliano Ferrara mi ha dato molto materiale sul quale esercitare il mio hobby preferito: la decostruzione delle mistificazioni nei suoi moventi psicopatologici. Se l’esercizio s’è prolungato più del dovuto, è stato perché la malattia mentale che ispira Il Foglio è del tipo che Otto F. Kernberg ha magistralmente descritto nelle pagine dedicate al disturbo istrionico di personalità (Raffaello Cortina Editore, 1993), tanto pleomorfa negli strumenti mistificatori da offrire indubbiamente numerosi spunti di riflessione in ordine a questioni relative alla logica e alla retorica. E tuttavia è già da tempo che Il Foglio sembra aver esaurito il repertorio dei suoi trucchetti più sofisticati e non riesce che a produrne di meschini, tanto meschini che neanche vale più la pena di segnalarli. Insomma, almeno per il modo in cui l’ho sempre letto io, almeno per lo scopo che mi sono sempre dato nel leggerlo, la lettura del giornale di Giuliano Ferrara mi è diventata noiosa. Nemmeno più riesco ad incazzarmi, che pure può essere un buon motivo per continuare a leggere un giornale: prevale una sensazione di fastidio mista a pena.
Ma poi c’è un altro motivo che mi muove al passo che annuncio con questo post: se Il Foglio aveva un’autorevolezza nel panorama nella stampa clericofascista, che gli era data dal saper conferire una veste decente, talvolta addirittura elegante, al becerume degli argomenti cari ai reazionari e ai baciapile italiani, be’, a me pare che quell’autorevolezza non l’abbia più. Sarà che l’avrà persa nel mentre il centrodestra perdeva i suoi consensi, sarà che gliela conferivo io e a torto, non so. Un fatto è certo: Il Foglio ha perso più della metà dei lettori che aveva sette o otto anni fa, riceve sempre meno attenzione da osservatori seri che pure non gliela negavano e il suo direttore ormai è sempre più una patetica macchietta, sicché quellaria da pensatore che si era cucita addosso suscita più ilarità che ammirazione. In me, devo confessare, anche una puntina di disprezzo, ma del genere che non guasta l’appetito. Insomma, per dirla come deve essere detta, è da un po’ di tempo che commentare un articolo de Il Foglio o un editoriale di Giuliano Ferrara mi fa sentire un po’ ridicolo, come se si trattasse di un post di Pontifex o un corsivo di Marcello Veneziani, un sermoncino di don Livio Fanzaga o un saggio di Ida Magli. E se fino a qualche tempo fa leggere Il Foglio mi faceva sibilare un “che stronzo!” e mi spingeva a un commento, almeno da un anno, forse due, riesco solo a scuotere la testa pensando “madonna mia, che palle!”.
Per questo considero una felice coincidenza il fatto che l’ennesimo “che palle!” – stavolta davanti alla pagina che riproduco qui sopra  cade proprio nel giorno in cui scade il mio abbonamento al giornale di Giuliano Ferrara. Non lo rinnoverò e questo valga pure come avvertenza a quelle due o tre dozzine di conoscenti e amici che lo leggevano grazie alla password che avevo fornito loro. Da qualche tempo, peraltro, Il Foglio è leggibile solo dalle 3,00, anche se tra le condizioni di abbonamento resta detto che la copia è a disposizione dalle 24,00 in poi: non bastassero le ragioni fin qui esposte, mi manca il tempo per conservare unabitudine che non mi dà più alcuna soddisfazione. Se qualcuno dei miei lettori mi invierà qualcosa pubblicato su Il Foglio sollecitandomi un commento, può darsi che vi butterò uno sguardo, ma non si offenda se non risponderò in pubblico o in privato: vi dedicherò attenzione solo se davvero dovesse valere la pena, ma ho già detto perché lo ritengo difficile.
Poi cè unultima ragione: sta per nascermi un figlio, il terzo, e penso che sarebbe un vero sacrilegio sprecare anche un poco del poco tempo che mi resterà per scrivere su questo blog per estenuarmi nellormai logora polemica che ho tante volte opposto alle ragioni di un antiabortista che di figli ne ha abortiti proprio tre. Di uno che rompe il cazzo da anni sulla crisi demografica italiana e non è stato capace di dare altro contributo personale alla soluzione del problema se non con vuote quanto roboanti scacazzate di retorica. 

mercoledì 19 ottobre 2011

Ripensandoci

In sede istituzionale, la patonza si chiama gnocca.
 

martedì 18 ottobre 2011

Di che cazzo si discute a Todi?

È da quando Leone XIII rimosse il «non expedit» di Pio IX che i cattolici italiani partecipano attivamente alla vita politica del paese, naturalmente da cattolici, fieri di dichiararsi tali, anche perché c’è sempre da ricavarci qualcosa, obbedientissimi agli ordini impartiti loro dalle gerarchie ecclesiastiche, con numeri considerevoli, con forze straordinarie, riuniti in un partito o strategicamente posizionati in pressoché tutti i partiti, ma sempre in maggioranza. Se siamo nella merda, giacché siamo nella merda, sarà mica pure colpa loro? Domanda impertinente, perché ad ogni generazione di italiani si preferisce porne un’altra, sempre la stessa: quale ruolo per i politici cattolici in Italia? Fateci caso: ogni volta la domanda è posta come se fin lì i politici cattolici non avessero mai messo mano in politica, e chiedessero di contare di più, come se non avessero mai avuto quanto spettava loro secondo merito, peso e consenso.
In realtà, governano l’Italia da sempre, fatta eccezione per la troppo breve stagione liberale postunitaria. Appena si rassegnarono all’idea che non fosse restaurabile lo Stato Pontificio, si servirono della rete diocesana sovrapposta a quella dei collegi elettorali per rastrellare consensi, selezionati e ammaestrati dai pastori a far la guardia al gregge. Col fascismo furono messi un po’ da parte: le gerarchie ecclesiastiche decisero un rapporto di tipo concordatario col potere laico e chi scalpitava fu messo in castigo. Caduto il fascismo, la Chiesa diede loro un partito e col tempo concesse loro pure qualche metro in più di guinzaglio. Sappiamo com’è caduta la Prima Repubblica, sappiamo com’è nata la Seconda: la Dc è esplosa, disseminando i suoi pezzi a destra, al centro e a sinistra, perdendo l’egemonia che s’era rassegnata a spartire consociativamente con chi capitava, e il potere è passato in mano a uno che aveva cinque zie suore, tanti amici preti e soprattutto un cuore grande come una sporta: “Non possiamo non compiacere la Chiesa”, diceva, e non diceva mai un no. Un altro Uomo della Provvidenza, diciamo.
I politici cattolici? Dappertutto. Al governo, ciellini sfusi e a pacchetti. In parlamento, cattolici di ogni foggia e sfumatura. Tranne la Cgil, da sempre cristianoide, i sindacati avevano la guida di uomini pii. E non parliamo del livello inferiore: banche, parastato, sanità – dove non contavano, i politici cattolici? Quando mai non hanno contato? Come potrebbero o dovrebbero contare di più? In altri termini: di che cazzo si discute a Todi?
«Che dei cristiani si incontrino per ragionare insieme sulla società portando nel cuore la realtà della gente e i criteri della dottrina sociale della Chiesa, è qualcosa di cui tutti dovrebbero semplicemente rallegrarsi». Come no. È da sempre – da Leone XIII in poi, appunto – che i politici cattolici sviscerano i criteri della dottrina sociale della Chiesa, il più ambiguo e contraddittorio guazzabuglio di tutto e niente, di solidarismo socialistoide e di capitalismo caritatevole: com’è che non sono mai riusciti a cavarci un ragno dal buco? Mentre l’Italia s’ingolfava nel suo debito pubblico, i politici cattolici erano a capo dei dicasteri economici o erano in ritiro spirituale? La loro filosofia politica del lasciar sempre tutto com’era, mediando fino a sfinire gli opposti, incapsulando ogni novità nell’eccezionalità, non era saggezza da sagrestia? Ok, rallegriamoci del fatto che dei cristiani s’incontrino per ragionare insieme sulla società, ma su quale società ragionano?
Porgiamo orecchio: «Quando siamo presi dal mondo diventiamo “del” mondo, anziché essere “nel” mondo ma non “del” mondo, e così diventiamo incapaci di servire gli uomini. Non è dunque l’immedesimarsi al mondo che permette di servirlo meglio, ma il vivere nella verità di Dio anche quando questa sembra impossibile, quando è irrisa o non è compresa come il comando di camminare sul mare». Non è in questo modo che i politici cattolici hanno sempre ragionato della società italiana? E cosa è diventata ragionandone a questo modo? Stando “nel” mondo senza sentirsi “del” mondo, stando “in” Italia senza mai sentirsi italiani, tutt’al più cattolici apostolici romani, che Italia hanno costruito? E ancora hanno la faccia tosta di ragionare sulla società italiana?

lunedì 17 ottobre 2011

“Facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera”

Dove sarei smentito?

Lunedì scorso, in un post dal titolo Il maggioritario sturziano, ho osato contestare una affermazione fatta da Marco Pannella nel corso di uno dei suoi interventi al Comitato nazionale di Radicali italiani: «Sturzo fa l’esperienza in America e torna antiproporzionalista, uninominalista e presidenzialista». Ho detto che si trattava di una sciocchezza e, attingendo a fonte che mi è parsa attendibile (i 14 volumi della sua opera omnia), ho spiegato che, «quando Sturzo torna dall’America, nel 1946, è ancora un fiero sostenitore del sistema proporzionale, del quale vanta addirittura di essere stato il padre nel 1919, e invece cambia idea solo molto tempo dopo: per sua stessa ammissione, è non prima del 1950 che comincia ad aver dubbi sul proporzionale, per poi farsene fiero oppositore solo dopo il fallimento della cosiddetta “legge truffa”, che è del 1953».
In quanto allo “Sturzo presidenzialista”, ho detto che questa ipotesi era già stata formulata da intellettuali alla corte di Silvio Berlusconi, nel 1996, per essere subito scartata come assai azzardata, oltre che patentemente strumentale, da uno studioso del calibro di Gabriele De Rosa. Bene, pare che Marco Pannella si sia molto risentito del fatto che io abbia osato citare gli scritti di Sturzo, quello originale, contro il  suoSturzo, quello che gli torna comodo a inventarsi un cattolicesimo liberale di antica tradizione bipolarista, per una meschina operazioncella di bassa politica (tentare di sabotare il referendum sul Porcellum: solo i referendum promossi dai radicali sono belli, gli altri sono tutti brutti). 


Molto risentito, ma incapace di produrre una obiezione validamente documentata, che affida a tal Gabriella Fanello Marcucci. Si tratterebbe del parere di persona autorevolissima, ma a leggere il suo articolo (Notizie Radicali, 17.10.2011) non trovo alcuna smentita alle mie affermazioni, tranne che in un punto: forse non è dal 1953 che Sturzo comincia a spendersi in favore del sistema maggioritario, ma dal 1952, comunque ben 6 anni dopo il suo ritorno in Italia. E pensare che un brivido di fifa mi aveva percorso la schiena, sensibile come sono alle autorità nel campo, qualunque sia il campo. 
 «Il lungo soggiorno in paesi anglosassoni aveva rafforzato il suo giudizio positivo sul sistema istituzionale lì praticato», eppure ancora nel 1951 – nota l’archivista – Sturzo si dichiara «contrario al voto di preferenza e al premio di maggioranza», per arrivare solo «dopo le elezioni politiche del 1958 [ad] una aperta condanna del sistema elettorale vigente ed un incitamento ad adottare l’uninominale maggioritario». E allora, di cosa stiamo parlando? Sturzo era in cuor suo un ardente antiproporzionalista fin dalla culla? No, di certo. Torna in Italia, nel 1946, da ardente antiproporzionalista? Può darsi, ma dell’ardore non si ha evidenza se non molti anni dopo. Nel 1948 scrive: «Fortuna o sventura, noi europei continentali siamo così divisi per idealità, per interessi e per metodi da non poter ridurre la lotta politica ai due partiti classici dei paesi anglosassoni». Nel 1949 scrive che un sistema elettorale non può rispondere ad astratti assunti di principio, ma aderire caso per caso a «estensione e qualità del corpo elettorale». Nel 1958 – e qui mi pare si tagli la testa al toro – scrive: «Sul proporzionale ho cambiato idea nel 1950». E tuttavia nel 1954 scrive: «Non pochi si meravigliano della mia recente opposizione alla proporpozionale». Recente e certo non finalizzata al bipolarismo: Sturzo infatti scrive che la proporzionale  «oggi è dannosa perché impedisce la formazione di un terzo partito omogeneo e valido da presentarsi come opposizione legale e come alternativa alla Dc». E allora di cosa stiamo parlando? Dove sarei smentito?
 

Corrispondenze

Caro Malvino,
facciamo finta che tra quelli che criticano le recenti scelti dei parlamentari radicali (dalla fiducia di Romani in poi, diciamo) non ci sia neanche uno di quelli che sa come le cose stanno davvero, che ha letto le numerose precisazioni di Bonino, Perduca, Giachetti, che ascolti la radio e la messa domenicale di Pannella. Facciamo pure finta che chi critica siano solo quelli che si informano tramite i giornali e telegiornali tradizionali e vedono i talk show cosiddetti di regime. Facciamo finta anche che tutta l'informazione, ma proprio tutta, abbia glissato sulle vere motivazioni e abbia riferito i fatti in modo tendenzioso. Ma io dico: visto che questa situazione è così non da ieri ma da almeno dieci anni (forse di più), maremma bucaiola, per quale cavolo di motivo vai ogni volta a infilarti in queste situazioni facilmente manipolabili? Sei totalmente scemo o cosa? 
Cosa ci vuole a capire che se l'opposizione vota la sfiducia a un ministro e tu no sarai fatto passare per quello che sostiene il governo? E che se tutti i deputati dell'opposizione escono e tu rimani, sarai preso di mira? Cosa ci vuole a capire che dopo che ieri sei rimasto in aula e sei stato aspramente criticato, se oggi lo rifai sarai criticato ancora di più? Cosa ci vuole a capire che dello sciopero della fame non importa più nulla a nessuno perché l'hai fatto talmente tante e troppe volte che ormai sembra un hobby e ogni volta ore e ore a spiegare i motivi di quello attuale?
E' colpa dell'informazione non democratica o tua, che sarai un ottimo conoscitore di istituzioni, leggi e regolamenti, ma un pessimo conoscitore di quelli da cui vorresti farti votare?
Ciao,
Lorenzo Lazzeri

Eh. 

“Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente” / 2

Si riuniscono a Todi, chissà perché a porte chiuse, i cattolici che dovrebbero dar vita a quel “soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica” che nelle intenzioni del suo ispiratore, il presidente della Cei, dovrebbe rinnovare, al tramonto del berlusconismo, l’ormai inservibile “progetto culturale” del suo predecessore. Se fino a ieri la Chiesa godeva di un rapporto privilegiato con la destra al potere, e tornava comodo che parte del laicato cattolico fosse politicamente impegnato anche al centro e a sinistra, ora urge la ricomposizione, ma un partito dei cattolici non è lo strumento più utile, e forse non è neanche possibile.
Vedremo cosa debba intendersi per “soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica” che però non sia un partito, ma fin d’ora pare probabile che debba trattarsi di un coordinamento transpartitico alle dirette dipendenze della Cei, che con Bagnasco, a differenza della grande autonomia concessa a Ruini, ha stretta sorveglianza della Santa Sede, per mezzo della Segreteria di Stato. Se questo “soggetto” dovesse prender vita, avremmo piena realizzazione di un’ingerenza permanente del Vaticano nella vita politica italiana: sarebbe strutturalmente data, istituzionalmente legittimata, la dipendenza dello Stato alla Chiesa. Il magistero morale e sociale della Chiesa avrebbe uno strumento ancora più efficace della Democrazia Cristiana per lanciare la sua offerta pubblica di acquisto per il controllo di una società che peraltro non ha mai saputo difendere a dovere l’aconfessionalità dello Stato. Non ci sarebbe alcun bisogno di cambiare la Costituzione: il cattolicesimo tornerebbe ad essere “religione di Stato”, de facto.
Una soft theocracy, più o meno. E la cosa non è neanche così difficile, perché la società italiana, anche se profondamente secolarizzata, è stremata, docile alla fascinazione di un qualsiasi instrumentum regni che sappia incarnare al meglio il paternalismo del quale gli italiani non sanno fare a meno. Niente di meglio che la Chiesa. Parrebbero pronti anche alcuni “illustri intellettuali e studiosi di formazione marxista che su Avvenire del 16.10.2011 mandano a Todi un segnale: il Pd è interessato, e non solo nella sua componente ex democristiana.