Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, un titolo che potrebbe essere uscito dalla penna di un epigono di Kant o di un precursore di Marx, forse massone, e invece sta in capo a 12 paginette del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Avrebbe dovuto fare un gran rumore, dunque, e invece è scivolato nel più irriverente disinteresse: il web lo ha snobbato e la stampa gli ha dedicato pochissimi commenti, quasi tutti scettici, perfino perplessi. Documento tanto ambizioso da sembrare velleitario, forse. Senza dubbio, innovativo. E qui sorge il problema. Perché un documento ufficiale della Chiesa di Roma può essere innovativo solo senza tradire il passato, soprattutto quello prossimo, e in questo caso, in più d’un punto e nell’assunto generale, il tradimento c’è. In poche parole, l’utopia di “un’autorità pubblica a competenza universale” non scivola liscia sulla dottrina sociale, e fa qualche attrito perfino sulla superficie della Caritas in veritate, che pure è sommamente ambigua. C’è un motivo, e questo spiega perché questo documento avrà vita breve e tormentata. Vediamo perché.
La gestazione della prima enciclica sociale di Benedetto XVI fu lunga quasi quanto quella di un elefante: nell’autunno del 2007 circolò voce che avesse preso a lavorarvi da alcuni mesi, ne fu annunciata la pubblicazione nel febbraio e poi nel settembre del 2008, per veder luce solo nel giugno del 2009. Sua Santità sembrava non essere mai contento del testo, che pare abbia avuto non meno di sei profonde revisioni e innumerevoli limature. Nell’attesa che fosse infine data alle stampe mi sono trattenuto molte volte sul perché di quel lungo indugio e ho scritto che proporre macrosoluzioni a macroproblemi è sempre un azzardo, anche per chi è ispirato dallo Spirito Santo, più che mai quando si tratta di affidarle alla prova dei fatti, da subito, e al giudizio del mondo, per sempre. Anche la Caritas in veritate doveva prendere la forma adeguatamente ambigua di tutte le encicliche sociali dalla Rerum novarum in poi per sembrare una ricetta insuperabile, ma per essere poi superabile, quando superata, senza dover essere manifestamente ritirata. Per non dover fare i conti con la fluidità dell’immanenza che inesorabilmente rimaneggia le dimensioni della conoscenza e della sensibilità umane, al magistero morale non resta che farsi nitido e intransigente, nel costante richiamo alla natura creaturale dell’uomo, nella quale sarebbe impressa una norma eterna, primigenia e immutabile. Al magistero sociale non conviene, perché l’arroccamento si tradurrebbe in autoemarginazione. Con la perdita del suo potere temporale, la Chiesa di Roma è costretta a fuggire la modernità sul piano morale, mentre su quello sociale è costretta a rincorrerla.
Cominciò con Leone XIII. Il socialismo ateo minacciava il primato della Chiesa nella cura dei disgraziati, e le encicliche sociali rilanciarono quel primato aprendo al mercato e alla libera impresa, però temperati dal solidarismo, inteso come emanazione attiva e permanente dei corpi sociali intermedi: una terza posizione tra socialismo e capitalismo che la Chiesa dichiarava antecedente ad essi, e che sembrò a tutti, ai cattolici innanzitutto, più aperta al capitalismo che disponibile verso il socialismo. Fino all’involuzione e alla crisi del socialismo, la Chiesa fu attivamente schierata in favore dell’economia di mercato, ma ribadiva che la “mano invisibile” non bastava, e che il capitalismo doveva farsi compassionevole, cioè informare i suoi meccanismi interni di una esterna e superiore logica dalla cifra morale. Era con ciò ribadito che Dio è carità, e che le forme della carità efficace non possono essere altro che momenti della sua incarnazione: la sovranità sociale di Cristo, politicamente sempre meno evidente, ribadiva la sua pretesa nel dichiarare che la dottrina sociale della Chiesa è necessità morale del gregge cristiano. È questo il solo assunto costante in tutte le encicliche sociali.
Ogni posizione intermedia tra la pura economia di Stato (l’abolizione della proprietà privata) e la pura economia di mercato (l’avido egoismo del cosiddetto liberismo selvaggio) diventava posizione in qualche modo accettabile dalla Chiesa, se prevedeva che ad essa fosse consentito di dettare le regole della solidarietà, con il suo ruolo diretto (associazionismo) o indiretto (ispirare le politiche sociali dei governi). Bisognava aspettare che il socialismo fallisse e che il capitalismo entrasse in una delle cicliche crisi di crescita perché la dottrina sociale della Chiesa riprendesse i connotati della pretesa della sovranità sociale di Cristo, cioè nella riaffermazione di una legge antecedente e superiore all’uomo, di cui i chierici sono custodi per mandato divino. Il fatto è che presto si sarebbe fatta viva la tentazione al socialismo, e ancora una volta la Chiesa sarebbe stata costretta a rincorrerlo. Siamo a questo punto e il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace prende un pericolo abbrivio, e lo scavalca.
Com’è potuto accadere? Scandalizzerà gli ingenui, ma nulla è più simile al socialismo quanto il cattolicesimo, anzi, prendendo a prestito le parole di Giovanni Spadolini, «si potrebbe dire che la Chiesa ha elaborato una sua dottrina “socialista” per sfuggire al pericolo del liberalismo. Il socialismo è, in sé, una tecnica di equilibrio e di sicurezza sociale, che non può contrastare coi fini della Chiesa. L’antitesi insanabile del pensiero cattolico è, al contrario, con l’economia liberale, che abolì l’obbligo di sostenersi a vicenda, svuotando l’idea stessa della solidarietà. [...] Per il cristianesimo, tale posizione è inaccettabile: l’iniziativa del singolo ha dei limiti, a cui ripara in ogni caso la carità» (Il papato socialista, Longanesi, 1969). Si avesse qualche dubbio, basti la illuminante lettura de Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato (Rizzoli, 2009 - soprattutto le pagine finali [287-299]) di monsignor Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco. E tuttavia il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace va oltre: «Nel cammino della costituzione di un’Autorità politica mondiale non si possono disgiungere le questioni della governance (ossia di un sistema di semplice coordinamento orizzontale senza un’Autorità super partes) da quelle di un shared government (ossia di un sistema che, oltre al coordinamento orizzontale, stabilisca un’Autorità super partes) funzionale e proporzionato al graduale sviluppo di una società politica mondiale. La costituzione di un’Autorità politica mondiale non può essere raggiunta senza la previa pratica del multilateralismo, non solo a livello diplomatico, ma anche e soprattutto nell’ambito dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace. A un Governo mondiale non si può pervenire se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni [3] Un sano realismo richiederebbe il tempo necessario per costruire consensi ampi, ma l’orizzonte del bene comune universale è sempre presente con le sue esigenze ineludibili. È pertanto auspicabile che tutti coloro che, nelle Università e nei vari Istituti, sono chiamati a formare le classi dirigenti di domani si dedichino a prepararle alle loro responsabilità di discernere e di servire il bene pubblico globale in un mondo in costante cambiamento. È necessario colmare il divario presente tra formazione etica e preparazione tecnica, evidenziando in particolar modo l’ineludibile sinergia tra i due piani della praxis e della poièsis [4]». Tra governance e government, senza la rivoluzione, cosa?
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