venerdì 12 novembre 2010

Le guerre civili


“Io non ho creato il fascismo:
l’ho tratto dall’inconscio degli italiani
 
 
È evidente che almeno il finale de Il caimano gli sia piaciuto molto, perché da Seul ci fa sapere: “Se vogliono sovvertire il voto popolare, sono disposto a portare la gente in piazza, a costo – è l’iperbole che usa nel suo ragionamento – di arrivare alla guerra civile” (il Giornale, 12.11.2010). Nanni Moretti immaginava che alla guerra civile si arrivasse dopo una condanna penale, ma si sa che i giacobini sono sognatori e che le toghe rosse sono mezze seghe. Anche stavolta pare che a farlo cadere possa essere solo un suo alleato: nel 1994 se ne incaricò Bossi, oggi pare tocchi a Fini. Ma poi non ha importanza chi, piuttosto perché.
Nel 2006 gli italiani furono chiamati alle urne per esprimere un parere su quella revisione della Costituzione voluta dalla maggioranza di centrodestra che avrebbe affidato maggiori poteri al Presidente del Consiglio (scioglimento delle Camere, revoca di ministri, ecc.), per adeguarne il profilo formale a quanto materialmente gli era dovuto dall’essere eletto in modo pressoché diretto, grazie a un maggioritario che aveva esaltato al massimo il ruolo del leader della coalizione vincente. Non era necessario il quorum, ma votò più del 50% degli aventi diritto e la proposta di un premeriato (anche solo un po’ più) forte fu bocciata, con il 61,32% di no.
La stella di Silvio Berlusconi è cominciata a calare da quel punto, quando gli è venuto meno il consenso che gli sarebbe stato necessario per neutralizzare quanto nella Costituzione sta ad impedire che una democrazia parlamentare prenda una deriva autoritaria e populista, e la straordinaria vittoria elettorale che conseguì nel 2008 lo ha fatto impazzire del tutto, accelerandone la caduta. Come si spiega che gli italiani sono disposti a darmi tanto sul piano materiale – devessersi chiesto –  e niente su quello formale? Io sono come loro e loro desiderano essere me – devessersi risposto – ma fanno ancora qualche resistenza ad ammetterlo. Da quel punto in poi ha sbagliato tutto, perché si è convinto che bastasse insistere col mettere in drammatica evidenza la contraddizione tra regola scritta e forza del consenso. E pare essere ancora convinto che questa sia la sola via che ha a disposizione: tutto o niente, costi quel che costi, anche la guerra civile.

Ma ci vuole una faccia


Il Tempio di Venere riapre al pubblico dopo un restauro durato 26 anni e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali non manca di darvi un gran rilievo, con levidente secondo fine di smorzare le polemiche intorno al crollo della Domus Gladatoria di Pompei: dopo aver sentito Sandro Bondi discolparsi di un disastro che nessuno dei suoi predecessori ha provveduto ad impedire (10 novembre), lo sentiamo prendersi il merito di un restauro voluto 26 anni fa (11 novembre).


I soliti vecchi trucchetti


Mattia Ferraresi ci aveva già parlato dell’opera prima di Tom Rachman (Gli imperfezionisti – Il Saggiatore, 2010), sempre su Il Foglio, lo scorso 19 giugno, però lì non ammiccava affatto a quelle che ieri ci offriva come sorprendenti analogie tra il giornale descritto nel libro, The Paper, “quotidiano internazionale che viene prodotto a Roma”, e quello per il quale scrive in qualità di corrispondente da Washington. Dev’essere capitato che Giuliano Ferrara le abbia intuite nel passo in cui The Paper era descritto come “regno dell’approssimazione, dove l’arte della verità non se ne sta sospesa in un iperuranio senza legami, ma galleggia come può nella corrente delle passioni umane”. Poco importa che, interpellato sul punto, Rachman neghi d’essersi ispirato a Il Foglio (“The Paper è un prodotto della mia immaginazione”), perché il titolo del pezzo di ieri era Noi, gli imperfezionisti, dove – a piacere – il noi può significare tutto: “noi de Il Foglio”, ma anche “noi giornalisti”, perfino “noi tutti(“esseri umani imperfetti come tutti gli altri”). Il sofisma sta nel diluire la disonestà di alcuni nell’ampio spettro morale che va dall’assoluta onestà all’assoluta disonestà. Chi può dirsi assolutamente onesto? Siamo tutti un po’ disonesti, e che facciamo, condanniamo tutti? Stiamo lì a millesimare chi lo sia un tot in più o in meno? E dove poniamo il limite? Non sarebbe posto comunque arbitrariamente? Tutti assolti, via. Se proprio vogliamo condannare qualcuno, condanniamo chi si dichiara onesto: a ben vedere, è l’unico vero disonesto.

giovedì 11 novembre 2010

Il tempo è immobile





Postilla Da notare che il Fini del 1992 vuole la elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Repubblica, ma non del Presidente del Consiglio.

Code


Giorni fa, litigando con Jimmomo, gli ho mosso un insulto che mi aspettavo lo irritasse molto, e invece niente: gli ho detto che argomentava con “rozzezza polemica”. L’avesse detto a me, sarei andato a Roma, l’avrei aspettato sotto casa e l’avrei sfregiato col vetriolo: lui, niente. Ci sono rimasto malissimo, perché ero sicuro che “rozzo” fosse peggio che “stronzo”: quando polemizzi in modo stronzo, ti rimane sempre modo di poter abbellire l’argomento, e l’argomento rimane disonesto, ma può avere un qualche interesse, almeno di natura estetica; quando lo fai in modo rozzo, l’argomento non è solo disonesto, ma è pure sciatto e brutto. Insomma, con “rozzezza polemica” mi aspettavo che Jimmomo mi s’imbestialisse. Ripeto: zero.
Ora accade un fatto nuovo che mi consente di tornare sul punto, ma prima di spiegare la faccenda, voglio precisare che ho piena percezione del ridicolo al quale mi espongo nel traslare ai massimi sistemi una buffa lite tra due cosi di nome Jimmomo e Malvino: sembra roba da cartone animato, lo concedo, ma non v’è mai capitato di trovarvi di fronte ai massimi sistemi in uno scambio di battute tra Silvestro e Titti, Orazio e Clarabella, Ginko e Altea? Quindi fate i buoni e sorvolate sul fatto che la questione fosse posta in risibile contesto: concentratevi sui principi in oggetto.

“A Cucchi neanche l’avvocato – avevo scritto – e a Ruby addirittura l’igienista dentale”. Jimmomo obiettava: “Nel caso di Cucchi è stata violata la legge, nel caso di Ruby no (e a dirlo è Bruti Liberati)”. Ora, a parte il fatto che la legge si viola non solo negando un diritto a X ma anche eccedendo nel concederlo nel modo e nella forma del privilegio a Y, c’è da dire – e lo dicevo – che Bruti Liberati si limitava a escludere violazioni di legge nell’affidare la minore alla Minetti, ma non si era espresso – non volesse, non potesse o non dovesse – su una telefonata partita dalla Presidenza del Consiglio e da ritenersi abuso potere nel suo intento di coartare il parere autonomo e indipendente del magistrato chiamato a disporre nel caso. In pratica, Bruti Liberati non si era espresso negando l’abuso di potere, ma così Jimmomo gli voleva far dire. Rozzo, molto rozzo.
Bene, il fatto nuovo è che il sostituto procuratore dei minori del caso in oggetto, la dottoressa Annamaria Fiorillo, smentisce di aver mai disposto quanto – almeno secondo Bruti Liberati – sarebbe stato eventualmente lecito: non avrebbe mai dato l’ok all’affidamento di Ruby all’igienista dentale del premier. (Uso il condizionale con schietto intento ironico: chi meglio della dottoressa Fiorillo può sapere che cosa ha disposto?)
Saremmo di fronte a un altro illecito, oltre l’abuso di potere: la sospensione del legittimo potere del magistrato nel decidere a chi affidare la minore. E pare che avesse disposto per l’affidamento ad una delle cinque strutture zonali adibite allo scopo. E pare che tutte e cinque quella sera avessero disponibilità di almeno un posto. Ma la notizia non arriva a Jimmomo o, se gli arriva, non la ritiene degna di commento: oggi si diletta in retroscena di Palazzo e in macroeconomia.

Si potrebbe anche chiudere un occhio sull’uso strumentale che Jimmomo faceva delle parziali e infondate affermazioni di Bruti Liberati (Libero e il Giornale ne hanno fatto un uso simile), ma uno qui si aspetterebbe due paroline di commento alle dichiarazioni della dottoressa Fiorillo, almeno, chessò, un “c’è contraddizione col tombale giudizio di Bruti Liberati”: lui, niente. Una grande tristezza. 


Postilla Dimenticavo di citare Capezzone: lo cito sempre quando parlo di Jimmomo (me lo ha fatto notare lui) e non voglio venir meno all’abitudine. Ieri sera, al tg4 di Emilio Fede, il povero Daniele era più cupo del solito: le agenzie battevano la notizia della raccolta di firme alla quale Bersani aveva dato il via in Parlamento per una mozione di sfiducia del governo. Procedura lecita? Carta alla mano, senza dubbio. Ma per il referente politico di Jimmomo si trattava di mezzo golpe. Stronzaggine o rozzezza?



mercoledì 10 novembre 2010

Senza titolo



 
Formamentis, Alterlucas, Gregorj ded.

Sono depresso, trovo insignificante scrivere, faccio fatica a leggere i giornali, non guardo la tv, non vado al cinema, ho provato a strimpellare un poco al piano e a preparare intingoli, ma senza giovamento, e ho messo pure dei sacchetti di lavanda qui e lì, dicono che la lavanda tiri su: niente, sto giù, riesco a sbrigare solo gli affari correnti, i doveri perché sono doveri, e poc’altro. Passo il tempo che rimane a contemplare il niente, senza aver nulla da ridirne, tanto meno da scriverne, e per chi è sempre stato grafomane – sempre, anche nei momenti più brutti – è davvero strano, perché mi capita per la prima volta: è la prima volta che la depressione – se così posso chiamarla – mi deprime la scrittura.
Mai stato così, devo dire. È sempre stata la scrittura a tirarmi fuori da momenti come questi, è sempre stato un film o uno spartito di Clementi a farmi passare tutto, adesso no.

Ma forse depressione è termine improprio, perché non avverto alcun sintomo psichico o organico di quelli che fanno da corteo a ciò che comunemente è detta depressione. Diciamo che si tratta di qualcosa che tocca ciò che Jung chiamava animus: ho in animo la comprensione dell’inutilità del tutto, della totale mancanza di un senso nelle cose, nei fatti e soprattutto nelle persone: avverto l’annichilente insulsaggine del tutto, né io mi salvo, anzi sto al centro di questa apocalisse. Un angelo (anche qui valga quanto in Jung) mi ha dato da mangiare pagine di un libricino allucinogeno e rimango – termine improprio, dicevamo – depresso. Tutto mi appare insulso e inutile, e non posso farci niente.
Questa volta non riuscirò a salvare il mondo dalla catastrofe finale, e mi spiace, ma devo dire: solo fino a un certo punto.


lunedì 8 novembre 2010

Il Cosone sulla Collinetta Artificiale



Il Cristo-Re di Swiebodzin, cittadina polacca sulle 20.000 anime, dà molto da pensare fin dal chiedersi cosa esattamente sia. Se è statua, non può essere considerata che bruttissima statua, soprattutto se si considera che dovrebbe star lì, coi suoi 40 metri di altezza, a gloria della umanità e della regalità di Cristo: vistosa sproporzione delle parti anatomiche, inespressività del volto, barba non nazarena, mani come guantate, pannato dallo sviluppo improbabile. E sorvoliamo sulla tecnica: accanto al Cristo-Re di Swiebodzin i santi e le madonne in vetroresina distribuite da ativon.com sembrano capolavori di finissima fattura, usciti da sublime scalpello. L’uomo sembra stilizzato come in un fumetto, il re sembra uscito da una carta da gioco.
Il valore artistico di un gigantesco Enver Hoxha in marmo eretto al centro di Tirana potrà pure esser stato prossimo allo zero, ma chi potrà negare che facesse monumento? Bene, nel 1994, in Albania, le statue del dittatore furono trasformate a colpi di scalpello in statue di santi e di madonne, di valore artistico mai superiore, e rimanendo monumento. Il Cristo-Re di Swiebodzin sembra ricavato da un monumentale Lenin. Padre Sylwester Zawadzkis, che l’ha fortemente voluto con la forza della fede che vince tutto, compreso il buon gusto, non deve aver avuto finalità artistiche, ma esclusivamente celebrative e, se il dettaglio più credibile è la corona, siamo dinanzi a un monumento che celebra la regalità sociale di Cristo.
L’approccio estetico è irrilevante al fine di cogliere il significato del Cosone sulla Collinetta Artificiale, che forse è anche qualcosa di più di un monumento, perché batte ogni record fra i Gesù di grosse dimensioni. Celebra la regalità di Cristo, dunque, ma celebra anche se stesso nel primato che detiene: se il Cristo-Re rappresenta la pretesa della Chiesa sulla società dei laici, è qui in Polonia – padre Zawadzkis tiene a far sapere – che il suo vocione è più grosso.
Adesso non vi piace? Ci farete l’occhio, vi piacerà. Ma soprattutto considerate che, se tiene, tra due secoli sarà diventata un’altra prova storica delle radici cristiane di Swiebodzin.

“Il papa è stato strumentalizzato”


La popolazione del Brasile ammonta a circa 195 mln di individui, per lo più cristiani (circa 180 mln), in gran parte cattolici (poco più di 145 mln). Gli aventi diritto al voto sono complessivamente poco più di 135 mln (i cristiani in toto sono poco più di 120 mln, mentre gli elettori che si dichiarano cattolici poco meno di 110 ml). Se la matematica non è un’opinione, ad impedire che Dilma Rousseff vincesse le elezioni presidenziali del 31 ottobre sarebbe bastato che almeno il 65% dell’elettorato cattolico mostrasse obbedienza alle indicazioni di voto espresse dall’episcopato brasiliano, su esplicitissimo mandato pontificio: “Il vostro dovere come vescovi, insieme al vostro clero, è mediato, in quanto vi compete contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna. Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica” (Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza episcopale brasiliana in visita ad limina apostolorum, 28.10.2010). Qui, in Brasile, il giudizio morale in materia politica si traduceva nell’invito a votare José Serra, poi uscito con le ossa rotte (-11%) dal ballottaggio con Dilma Rousseff, l’abortista.
Quando l’ingerenza della Chiesa dà i risultati sperati, il Papa ci fa sempre un figurone e, avesse vinto Serra, il Brasile sarebbe diventato un paradigma. Ma Serra ha perso e con la Rousseff bisogna pur convivere. “Il papa è stato strumentalizzato”, dichiara monsignor Tomás Balduino: non è stato informato di cosa sarebbe accaduto in Brasile se avesse vinto Serra. E chi l’ha strumentalizzato? Boh.

Amarcord



Il simbolo del partito, per metà preso dal nome del suo leader. Quel retrogusto di maoismo che sta in Ronchi quando dice “caro Gianfranco”. Il pop un po’ trash di Menia. La retorica del Manifesto d’Ottobre, enfio di anafore da spot pubblicitario o, a piacere, da mantra autogeno. Sì, un po’ di Berlusconi è rimasto appiccicato a Fini, ma lo strappo adesso pare intero, e non solo sul piano della bassa politica: almeno sulla carta, c’è una nuova destra. Democratica e liberale, pare. Europea, come suol dirsi.
Per dieci dodicesimi è la nuova destra che sembrava impossibile fino a cinque anni fa, quando a pensarla possibile c’era solo L’Indipendente di Guerri, che per pensarla possibile con troppo anticipo fu licenziato dall’editore, un certo Bocchino. In politica i tempi sono tutto, e io pensavo e penso che fosse An ad essere ritardo. Sempre tardi che mai.


Eccetera



In non so più quale bestiario si legge che, quando sente arrivare la fine, l’elefante si isola dal branco, fa un giro su se stesso, si stende e attende la morte. Eccolo girare su se stesso, è uno spettacolo che strazia l’anima: “Noi volevamo un mondo in cui vita, libertà e ricerca della felicità fossero riconosciuti come pilastri dell’esistenza e della vita sociale…” (Il Foglio, 8.11.2010). Gli hanno sputtanato il puttaniere, crollano i pilastri, eccetera.


A margine

“Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra
che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo.
Imbarazzo, poi si studiano le contromisure...” *

Maurizio Ferraris, Il bello del relativismo, Marsilio 2005



Qui cerco di chiarire a diciottobrumaio e a lector quanto, a mio umile parere, sta in premessa ad ogni discussione su quanto il mito possa aver preso dalla storia, e stiamo parlando di Gesù di Nazareth (GdN): anche se fosse buona la tesi di Luigi Cascioli – GdN non è mai esistito, la sua figura è stata ricreata a calco di un tal Giovanni di Gamala (GdG), zelota vicino agli esseni, del quale non sappiamo quanto il mito abbia preso dalla storia  – avremmo un GdG che (almeno in parte) sarebbe storia. Voglio dire – spero di non fare scandalo che l’esistenza storica di GdN non mi pare il problema centrale del cristianesimo: il mito di GdN avrà sempre in sé una parte di storia e, anche se la sua predicazione e la sua morte sono storicamente (almeno in parte) di GdG, è la resurrezione che sta al centro di tutto, di là da ogni probabile, fuori dalla possibilità di storia. Non è nell’esistenza di un nuclearità storica (anche plurima) di un GdN che si gioca la credibilità dell’evento, ma nella resurrezione di un qualsivoglia umano, ovunque sia, chiunque sia. Quand’anche fosse provato un GdN proprio così come ci è descritto dalle favole scritte non prima di mezzo secolo dopo la sua morte, la questione sulla quale il cristianesimo tiene o cade è la sua resurrezione. Poi, certo, abbiamo Loisy, Mead e ora anche Freeman a tentare di spiegarci come è nato il mito, ma il nucleo storico che fa la credibilità di GdN è se, due millenni fa o giù di lì, un qualsivoglia umano sia risorto o no: tutto il resto è archeologia e filologia, tutta roba assai interessante, ma senza un tizio che risorge il cristianesimo non è più evento (come tengono a ripetere i cristiani più furbi che addirittura rifiutano di metterlo fra le religioni), ma costruzione letteraria, e dunque ha davvero poco importanza quanto di realmente storico vi sia nel protagonista. Fra persone di buon senso, è ovvio, non si perde tempo a discutere di resurrezione, ma si passa allarcheologia e alla filologia: in questi ambiti si possono rintracciare gli elementi psicologici che concorrono alla costruzione del mito e, rintracciati quelli, il cristianesimo è destrutturato. Che importa se rimane un GdN, un GdG o un altro? È dinanzi alla eventualità che vengano ritrovati i suoi resti che ogni contromisura favorirebbe la destrutturazione del cristianesimo, di fatto a buon punto.



* La citazione mi serviva solo per introdurre la questione, tutta nel prologo della barzelletta. Non riportarla sarebbe un crimine:  “Un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano «ma allora esisteva davvero!». I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l’Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti)”.

domenica 7 novembre 2010

Charles Freeman, Il cristianesimo primitivo, Einaudi 2010



Splen-di-do.


D'un Dio intrigante




Elogio della bistecca



Quando dice che è “meglio essere appassionato delle belle ragazze che gay”, non ci mette a confidenza delle sue preferenze sessuali, peraltro arcinote, e non sottintende alcun “per me”: fa un discorso pubblico, e da posizione autorevole, circa la presunta oggettività di un “meglio” che dovrebbe essere autoevidente. Qui, all’accusa di abuso di potere (e al biasimo morale perché va a puttane) oppone una fiera rivendicazione della sua eterosessualità, ma chi gli ha mai rimproverato d’essere eterosessuale? E allora che c’entrano i gay?
La sua è una risposta che non avrebbe senso logico né forza di argomento neppure se le accuse gli venissero solo dai gay, ed è come se uno, pizzicato a rubare bistecche, si difendesse dicendo: “Meglio che rubare spigole”. Sarà, dipende, è questione di gusti alimentari, ma sei chiamato a rispondere di furto di bistecche e ti difendi dichiarando che preferisci la carne al pesce, come se la questione non riguardasse te. Può funzionare solo se trovi chi sia disposto a stornarla e allora ecco il vescovo di Foligno, monsignor Arduino Bertoldo, disposto a darti una mano con l’elogio della bistecca: “Non capisco il putiferio davanti ad un’affermazione di Berlusconi tanto evidente ed ovvia: meglio amare belle ragazze che seguire omosessuali. Lui ha fatto solo una comparazione, ma non ha screditato nessuno. […] Non ha detto niente di male, credo che per ogni uomo normale sia bello innamorarsi di una donna e non di un omosessuale: la natura e la vita dicono che la inclinazione dell’uomo é verso la donna e non l’uomo e viceversa”.
Ma ce n’è pure per la spigola: “Purtroppo se questa stessa affermazione a parti invertite la avesse fatta un altro leader, tutto sarebbe passato in silenzio. Tempo fa un uomo politico gay ha detto che viveva con un uomo, ma non ho sentito stracciarsi di vesti tra gli etero”.

venerdì 5 novembre 2010

[...]


“Where they did form, Christian Democratic parties did not necessarily come out in favor of modern democracy. «Democratic» meant something more like «popular», or being from and among the people. It was no accident that «volk» and «popolari» became key words in the names and rhetoric of Catholic parties in Western Europe”

Jan-Werner Müller, Making Muslim Democracies
(Boston Review, nov/dec 2010)

[grazie a Giovanni L. Ciampaglia per la segnalazione]

giovedì 4 novembre 2010

Pare



Pare che la Benini rubacchi idee alla Soncini, pare che sia già accaduto “tre o quattrocento volte”. Per il genere letterario in oggetto manco di strumenti critici adeguati a una seria analisi comparativa, ma la Soncini m’è simpatica e la Benini mi sta sul cazzo, quindi mi sbilancio in favore della prima: c’è rubacchiamento.    


Un altro è andato


Però cosa stiamo a parlare di merito e meritocrazia
se poi basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe
per salvarsi la buccia in caso di bisogno e ottenere anche
qualche regalino extra? E' tutta una contraddizione,
non regge più il giochino. Mi dispiace ma io sono schifato.

"basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe"… Caro mio,
ti capisco, ma dove vivi? Guardati intorno. Nessuna "regola"
potrà mai i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente.
Vale per uomini e donne, in tutte le circostanze,
da una fila alla posta ad un esame universitario. E' la vita...




L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi è stato cinque minuti fa, al telefono. L’ho chiamato per chiedergli spiegazioni su quanto aveva scritto in risposta ad un lettore nella pagina dei commenti ad un suo post (Procure scatenate e gioco di squadraJimmomo, 2.11.2010): mancava un verbo e, anche se il senso della frase era chiaro, volevo essere sicuro. La frase: “Nessuna «regola» potrà mai [qui c’era il buco] i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente”.
Gli ho chiesto se fossi in errore a immaginare che lì fosse saltato qualcosa del tipo “neutralizzare sul piano della competizione” o, chessò, “impedire che il merito lasci il passo a”, insomma, se si trattasse proprio di una presa di coscienza tra il cinico e il rassegnato, insomma, la presa di coscienza di chi ha capito come gira il mondo e ha deciso di farlo girare come gira. Me l’ha confermato: “Non che sia giusto, ma purtroppo è così”. Ma forse è meglio spiegare com’è.

È che per anni e anni – l’ho conosciuto nel 2002, forse nel 2003 – l’argomento preferito di Federico è stato il merito: l’importanza delle regole era sovrana in gran parte delle sue riflessioni pubbliche e, almeno per quanto mi riguarda, in ogni sua conversazione privata (e non ricordo le abbia mai messe tra virgolette). Meritocrazia e regole contro ogni abuso e privilegio per una società un poco più decente, eccetera: robe così, da patetici liberali dei bei tempi andati, Federico era così. È che il patetico liberale dei bei tempi andati è andato: “Non è giusto, ma è la vita”.
Avevo capito bene e infatti anche la sua risposta al lettore chiudeva a quel modo: “È la vita…”, così va il mondo, “guardati intorno”, non ci si può far niente. Sì, però, “purtroppo”. E la società un poco più decente?

Quando ho aperto dicendo: “L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi…”, intendevo dire che è proprio l’ultima. E mi dispiace perché mi rimane una curiosità: saranno spuntate tette e gambe lunghe anche a lui?

“Questo vecchio con la lingua di fuori”



Ho scritto che “gli rimane solo da cagare sul centrotavola”, ma anche lì, a quanto pare, non gli mancherà l’indulgenza e anche la simpatia di un bel pezzo del paese, oltre all’entusiastico plauso degli adoratori ad oltranza, i professionali e gli amatoriali, che senza meno troveranno sublime lo stronzo sul centrino. C’è da rimanere depressi? Non più di prima: stavolta è toccata ai gay, questo è tutto. Indignati? Non molto di più del solito, vedrete che anche stavolta dirà che è stato frainteso, anche se non lo dirà subito, perché prima vorrà consolidare la fidelizzazione con gli omofobi più riluttanti a rivelare la propria omofobia. Sgomenti? Solo nell’errore di credere che Silvio Berlusconi sia tanto diverso dal paese che lo vota e che lo vuole: anche chi lo sceglie come menopeggio ha in sé un po’ di “questo vecchio con la lingua di fuori, ma può solo proiettarlo in lui, non avendo 5.000 euro a botta.
Non ha bisogno di pensare troppo a ciò che dice, lui, non ha bisogno di calcolare i pro e i contro, la convenienza e il danno: ha la stessa pancia del paese, è sintonizzato con gli umori più nascosti perché più profondi, che poi sono anche quelli meno controllabili perché meno ponderabili. L’omofobia degli italiani è atavica, ancestrale, latina, cattolica, fascista e anche comunista: l’ometto fluttua in una falda, profonda, ma pronta a riaffiorare se le si dà foce, cioè voce.

Siamo alla solita questione: bisogna tollerare gli intolleranti? Possiamo consentire che pregiudizi discriminatori vengano celebrati come verità radicate nella natura umana in nome della lotta al relativismo?
Silvio Berlusconi è solo il “potente medium del cosiddetto «carattere nazionale» (un patetico e disperato conte Mascetti, ma con tanti soldi) e questo carattere è innanzitutto cultura che si spaccia per natura (patetico e disperato sessismo che ha la pretesa di fondarsi in verità biologica): se in nome della tolleranza consentiamo questo spaccio, forniamo alibi alla discriminazione sulla base di una presunta verità naturale. Si possono censurare affermazioni del tipo “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay, ma solo dopo aver negato che l’eterosessualità incarni una verità biologica, facendo cadere le ragioni di quell’ego che si fa centrale in un “meglio che implica un “peggio in ogni diverso.
È chiaro che Silvio Berlusconi non l’ha detta in senso omofobico, ovvero di paura o disprezzo verso gli omosessuali, ma solo in senso egocentrico (Il Foglio, 13.11.2010). Non ci libereremo mai di “questo vecchio con la lingua di fuorifino a quando penseremo di doverlo tollerare come espressione di un esuberante orgoglio nel sapersi dove comunque sta il “meglio”.