Caro Luigi,
volevo sottoporti una piccola riflessione, vedi tu se può andare per «Scrivi, Malvino ti risponde», in ogni caso tengo particolarmente a una tua risposta. Abbi pazienza per la lunga introduzione, poi arriviamo al problema.
Come sai, sono impegnato nella stesura di un volume sul cinema italiano post-neorealismo che, anche se è post- come dice il titolo stesso, deve continuamente riandare al concetto stesso di neorealismo, definirlo in positivo e in negativo, monitorare le differenziazioni all’interno del neorealismo stesso, comprenderne le logiche interne, riperiodizzare la storia del cinema italiano etc. Ci vorrebbero migliaia di pagine per elencare le interpretazioni date al neorealismo: movimento, scuola, attitudine morale, esperienza del reale, ricontestualizzazione di miti etc. Come sai, una delle posizioni più interessanti e di moda nell’ambiente accademico - anche perché consente di evitare elegantemente alcuni aspetti del problema - è quello di rifarsi a Deleuze e al suo considerare il neorealismo nel quadro della storia dell’immagine.
La teoria di Deleuze, espressa nei volumi Cinema I e II, nei quali costruisce una complessa tassonomia degli autori inquadrando la sua teoria da Bergson e Pearce, è nota: nel passaggio da immagine-movimento hollywoodiana, fatta di azione-reazione, nessi logici e concatenazioni oggettive di vario tipo (pensiamo alle scene di inseguimento), il neorealismo è rivoluzionario in quanto istituisce l’immagine-tempo, fatta di divagazioni, reazioni mancate, allucinazioni, vagabondaggi senza meta, scomparse immotivate, attese continue - fino alla famosa definizione degli spazi qualunque, gli any-spaces-whatever della traduzione inglese che lo rendono cinema del veggente più che dell’attante. Il neorealismo rompe lo «schema senso-motorio», che Deleuze mutua da Piaget. Citando da Deleuze: “Il neorealismo si definisce quindi per questa crescita di situazioni puramente ottiche (e sonore, benché ai suoi inizi non esistesse il suono sincrono), che si distinguono sostanzialmente dalle situazioni senso-motorie dell’immagine-azione del vecchio realismo. Lo spettatore si è sempre trovato di fronte a «descrizioni», a immagini-sonore, a immagini-ottiche e sonore, ma il problema era che il personaggio reagiva alle situazioni e lo spettatore identificandosi con questi, percepiva un immagine senso-motoria. […] [Il personaggio] ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può più essere teoricamente giustificato da una risposta o da un’azione. Più che reagire, il personaggio registra, più che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito”. Oppure, ricordando Rocco e i suoi fratelli e in particolare la scena iniziale della stazione, Deleuze insiste sul fatto che i personaggi siano costretti a reagire allo spazio entro il quale sono sistemati, perché gli spazi dell’inquadratura assumono un significato indipendente. Tornando al punto di prima, Deleuze fornisce l’assist a chi scrive di neorealismo dicendo che anche Fellini, Antonioni e Visconti sono neorealisti, in quanto perfezionano lo stesso tipo di immagine-tempo: ciò consente a chi vuole definire il neorealismo di scavalcare stilemi, accorgimenti formali, incrostazioni marxiste etc. e indagare semplicemente l’evoluzione dell’immagine, che straborda e non riesce più a contenere la realtà circostante.
Deleuze esamina abbondantemente Rossellini come inventore di questo tipo di immagine-tempo, Rossellini che educa alla pazienza e alla «pedagogia dell’attesa» (Luisetti, 2007). In particolare, in Europa ’51 la tragedia della morte del figlio cambia radicalmente Ingrid Bergman, che nel film impara a vedere abbandonando “la funzione pratica di una padrona di casa capace di mettere in ordine esseri e cose, per passare attraverso tutti gli stadi di una visione interiore, afflizione, compassione, amore, felicità, accettazione, perfino nell’ospedale psichiatrico dove la si rinchiude al termine di un nuovo processo alla Giovanna D’Arco”. Poi, riguardo a Stromboli, Rossellini dirà: “Ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà, l’attesa che - dopo la preparazione - dà la liberazione. Prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in Stromboli. È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, una curiosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza dei tonni. L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: e così anche per il cinema”. La speculazione di Deleuze sembra abbastanza persuasiva, arrivando sino al Fellini di 8½ come immagine-cristallo, nella quale convivono zone di indiscernibilità, tempi stratificati, personaggi scissi, campi in cortocircuito.
Veniamo ora al problema. Deleuze chiama questo tipo di cinema come il cinema che abbandona lo «schema senso-motorio» hollywoodiano, la narrazione organica, i prolungamenti motori, il riordino delle parti, la fine dei film come risoluzione. Nella tipica maniera degli accademici, tra cui sono anch’io, come già fu il nefasto proliferare di saggi sulla fase specchio di Lacan, questo ha anche dato luogo a una serie di articoli più o meno interessanti che teorizzano che la frequente presenza di bambini nel cinema neorealista sia proprio la spia di questo cambiamento degli schemi senso-motori, per la quale la difficile situazione post-bellica, in cui tutto si deve riscrivere, passa per la presenza rigenerante dell’infanzia (vedi anche il Romoletto di Roma città aperta, che ricontestualizza il mito romanico dei fascisti - da mito tecnicizzato a mito genuino, secondo Kerenyi - come mito che rifonda la Roma non più fascista). In breve: l’incertezza/sviluppo incompleto nei bambini di questi fantomatici schemi senso-motori confermerebbe la teoria di Deleuze, dato che sono così presenti nel cinema neorealista.
Ora, io ti chiedo: da medico e da esperto di questi temi, nonostante l’edificio concettuale di Deleuze sia persuasivo in tanti aspetti e Cinema I e II siano indubbiamente libri importantissimi, non ti sembra una forzatura questa degli «schemi senso-motori» (per cui Deleuze è già stato attaccato, per esempio da Guido Marenco, il quale dice che in Piaget tali schemi sono oggettivi, quindi da rompere c’è poco)? Una cosa di un filosofo elegante che non ha mai fatto un corso di fisica e fisiologia del corpo umano? Senza andare a frescacce antiche come le monadi leibniziane o più giù ancora verso i cieli aristotelici, non ti sembra l’ennesima invasione di campo di un filosofo che anziché stare nel suo vuole pure riscrivere il Dna? Vorrei sapere cosa ne pensi.
Scusa ancora per la lunga lettera ma certi passaggi sono fondamentali, e anzi avrò di certo lasciato fuori qualcosa.
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Pensavo che il nostro carteggio dovesse rimanesse privato, caro ***, e perciò non ho postato i passati scambi di opinione. Il lettore che se li è persi e arriva solo qui a metterci naso si farà delle idee sbagliate e dunque sarà il caso di chiarire – in breve – a cosa ti possano essere servite fin qui le mie personalissime impressioni su De Sica, Pasolini, Visconti, ecc., sennò il lettore penserà che sei pazzo a chiederle a me. (Anche per questo ti lascio nell’anonimato.)
Una di queste volte – correggimi se ricordo male – hai detto che a un accademico come te potevano tornare utili delle chiavi di lettura di un impreparato. Bene, non ne ho le prove, ma io credo che Gilles Deleuze si sia trovato ad essere interpellato sul cinema in virtù di una analoga impreparazione, finendo per trovarvisi invischiato, e fino al punto da prendersi tanto sul serio da farsi prendere sul serio. Penso che accadde dopo il suo libro su Bacon (La logica della sensazione, 1981) che infatti è pieno di quelle suggestioni che andranno a maturare in Cinema I e II: fu lì che qualcuno (Herve Guibert) ebbe l’idea di interpellarlo sulle relazioni tra l’ecran e le cerveau, e da lì noi stiamo pigliando l’argomento, secondo me superfetando sullo stesso errore. Mi spiego. Un filosofo (Deleuze) potrà eventualmente fornire a un fotografo (Guibert) dei modelli che questi potrà eventualmente ritenere interessanti come chiavi di lettura dell’immagine rappresentata su una pellicola, ma la cosa sarà sempre invasione di campo di uno che non vuol stare nel suo: il suo germinerà in quel campo, ma non sempre con esito felice. È questo – penso – il caso degli schemi senso-motori che ha il suo embrione in Portrait du philosophe en spectateur (conversazione con Guibert – Le Monde, 6.10.1983 [la trovi in Divenire molteplice, Ed. Ombre corte 1996]) e, oplà, Cinema 1 è fatto. Ora, a ben vedere, tu mi chiedi un modello di lettura medico (suppongo neurofisiologico) che smentisca l’ipotesi di Deleuze sulla “frequente presenza di bambini nel cinema neorealista [come] spia di [un] cambiamento degli schemi senso-motori”. Capisci perché penso che tu stia superfetando sullo stesso errore che ipotizzi nel fondo della questione posta? Cosciente del pericolo? Bene, non sum dignus e passo a dirti la mia.
Quando Rossellini riempiva di bambini le sue scene, l’infanzia non era un simbolo, ma una presenza, ineludibile nel carotaggio sociologico e psicologico del contesto sullo sfondo: i bambini erano dovunque, in Italia, e ancora non si erano ricavati la nicchia che si andrà formando da Marcellino pane e vino (Ladislao Vajda, 1955). Non così a Hollywood, e qui non c’è bisogno che ti stenda l’elenco. Tutto qui, niente di più.
(A parte, Deleuze usa strumenti affascinanti, ma niente di più.)