martedì 16 novembre 2010

Corrispondenze

Caro Luigi,
volevo sottoporti una piccola riflessione, vedi tu se può andare per «Scrivi, Malvino ti risponde», in ogni caso tengo particolarmente a una tua risposta. Abbi pazienza per la lunga introduzione, poi arriviamo al problema.
Come sai, sono impegnato nella stesura di un volume sul cinema italiano post-neorealismo che, anche se è post- come dice il titolo stesso, deve continuamente riandare al concetto stesso di neorealismo, definirlo in positivo e in negativo, monitorare le differenziazioni all’interno del neorealismo stesso, comprenderne le logiche interne, riperiodizzare la storia del cinema italiano etc. Ci vorrebbero migliaia di pagine per elencare le interpretazioni date al neorealismo: movimento, scuola, attitudine morale, esperienza del reale, ricontestualizzazione di miti etc. Come sai, una delle posizioni più interessanti e di moda nell’ambiente accademico - anche perché consente di evitare elegantemente alcuni aspetti del problema - è quello di rifarsi a Deleuze e al suo considerare il neorealismo nel quadro della storia dell’immagine.
La teoria di Deleuze, espressa nei volumi Cinema I e II, nei quali costruisce una complessa tassonomia degli autori inquadrando la sua teoria da Bergson e Pearce, è nota: nel passaggio da immagine-movimento hollywoodiana, fatta di azione-reazione, nessi logici e concatenazioni oggettive di vario tipo (pensiamo alle scene di inseguimento), il neorealismo è rivoluzionario in quanto istituisce l’immagine-tempo, fatta di divagazioni, reazioni mancate, allucinazioni, vagabondaggi senza meta, scomparse immotivate, attese continue - fino alla famosa definizione degli spazi qualunque, gli any-spaces-whatever della traduzione inglese che lo rendono cinema del veggente più che dell’attante. Il neorealismo rompe lo «schema senso-motorio», che Deleuze mutua da Piaget. Citando da Deleuze: “Il neorealismo si definisce quindi per questa crescita di situazioni puramente ottiche (e sonore, benché ai suoi inizi non esistesse il suono sincrono), che si distinguono sostanzialmente dalle situazioni senso-motorie dell’immagine-azione del vecchio realismo. Lo spettatore si è sempre trovato di fronte a «descrizioni», a immagini-sonore, a immagini-ottiche e sonore, ma il problema era che il personaggio reagiva alle situazioni e lo spettatore identificandosi con questi, percepiva un immagine senso-motoria. […] [Il personaggio] ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può più essere teoricamente giustificato da una risposta o da un’azione. Più che reagire, il personaggio registra, più che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito”. Oppure, ricordando Rocco e i suoi fratelli e in particolare la scena iniziale della stazione, Deleuze insiste sul fatto che i personaggi siano costretti a reagire allo spazio entro il quale sono sistemati, perché gli spazi dell’inquadratura assumono un significato indipendente. Tornando al punto di prima, Deleuze fornisce l’assist a chi scrive di neorealismo dicendo che anche Fellini, Antonioni e Visconti sono neorealisti, in quanto perfezionano lo stesso tipo di immagine-tempo: ciò consente a chi vuole definire il neorealismo di scavalcare stilemi, accorgimenti formali, incrostazioni marxiste etc. e indagare semplicemente l’evoluzione dell’immagine, che straborda e non riesce più a contenere la realtà circostante.
Deleuze esamina abbondantemente Rossellini come inventore di questo tipo di immagine-tempo, Rossellini che educa alla pazienza e alla «pedagogia dell’attesa» (Luisetti, 2007). In particolare, in Europa ’51 la tragedia della morte del figlio cambia radicalmente Ingrid Bergman, che nel film impara a vedere abbandonando “la funzione pratica di una padrona di casa capace di mettere in ordine esseri e cose, per passare attraverso tutti gli stadi di una visione interiore, afflizione, compassione, amore, felicità, accettazione, perfino nell’ospedale psichiatrico dove la si rinchiude al termine di un nuovo processo alla Giovanna D’Arco”. Poi, riguardo a Stromboli, Rossellini dirà: “Ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà, l’attesa che - dopo la preparazione - dà la liberazione. Prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in Stromboli. È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, una curiosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza dei tonni. L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: e così anche per il cinema”. La speculazione di Deleuze sembra abbastanza persuasiva, arrivando sino al Fellini di come immagine-cristallo, nella quale convivono zone di indiscernibilità, tempi stratificati, personaggi scissi, campi in cortocircuito.
Veniamo ora al problema. Deleuze chiama questo tipo di cinema come il cinema che abbandona lo «schema senso-motorio» hollywoodiano, la narrazione organica, i prolungamenti motori, il riordino delle parti, la fine dei film come risoluzione. Nella tipica maniera degli accademici, tra cui sono anch’io, come già fu il nefasto proliferare di saggi sulla fase specchio di Lacan, questo ha anche dato luogo a una serie di articoli più o meno interessanti che teorizzano che la frequente presenza di bambini nel cinema neorealista sia proprio la spia di questo cambiamento degli schemi senso-motori, per la quale la difficile situazione post-bellica, in cui tutto si deve riscrivere, passa per la presenza rigenerante dell’infanzia (vedi anche il Romoletto di Roma città aperta, che ricontestualizza il mito romanico dei fascisti - da mito tecnicizzato a mito genuino, secondo Kerenyi - come mito che rifonda la Roma non più fascista). In breve: l’incertezza/sviluppo incompleto nei bambini di questi fantomatici schemi senso-motori confermerebbe la teoria di Deleuze, dato che sono così presenti nel cinema neorealista.
Ora, io ti chiedo: da medico e da esperto di questi temi, nonostante l’edificio concettuale di Deleuze sia persuasivo in tanti aspetti e Cinema I e II siano indubbiamente libri importantissimi, non ti sembra una forzatura questa degli «schemi senso-motori» (per cui Deleuze è già stato attaccato, per esempio da Guido Marenco, il quale dice che in Piaget tali schemi sono oggettivi, quindi da rompere c’è poco)? Una cosa di un filosofo elegante che non ha mai fatto un corso di fisica e fisiologia del corpo umano? Senza andare a frescacce antiche come le monadi leibniziane o più giù ancora verso i cieli aristotelici, non ti sembra l’ennesima invasione di campo di un filosofo che anziché stare nel suo vuole pure riscrivere il Dna? Vorrei sapere cosa ne pensi.
Scusa ancora per la lunga lettera ma certi passaggi sono fondamentali, e anzi avrò di certo lasciato fuori qualcosa.



***


Pensavo che il nostro carteggio dovesse rimanesse privato, caro ***, e perciò non ho postato i passati scambi di opinione. Il lettore che se li è persi e arriva solo qui a metterci naso si farà delle idee sbagliate e dunque sarà il caso di chiarire – in breve – a cosa ti possano essere servite fin qui le mie personalissime impressioni su De Sica, Pasolini, Visconti, ecc., sennò il lettore penserà che sei pazzo a chiederle a me. (Anche per questo ti lascio nell’anonimato.)
Una di queste volte – correggimi se ricordo male – hai detto che a un accademico come te potevano tornare utili delle chiavi di lettura di un impreparato. Bene, non ne ho le prove, ma io credo che Gilles Deleuze si sia trovato ad essere interpellato sul cinema in virtù di una analoga impreparazione, finendo per trovarvisi invischiato, e fino al punto da prendersi tanto sul serio da farsi prendere sul serio. Penso che accadde dopo il suo libro su Bacon (La logica della sensazione, 1981) che infatti è pieno di quelle suggestioni che andranno a maturare in Cinema I e II: fu lì che qualcuno (Herve Guibert) ebbe l’idea di interpellarlo sulle relazioni tra l’ecran e le cerveau, e da lì noi stiamo pigliando l’argomento, secondo me superfetando sullo stesso errore. Mi spiego. Un filosofo (Deleuze) potrà eventualmente fornire a un fotografo (Guibert) dei modelli che questi potrà eventualmente ritenere interessanti come chiavi di lettura dell’immagine rappresentata su una pellicola, ma la cosa sarà sempre invasione di campo di uno che non vuol stare nel suo: il suo germinerà in quel campo, ma non sempre con esito felice. È questo – penso – il caso degli schemi senso-motori che ha il suo embrione in Portrait du philosophe en spectateur (conversazione con Guibert – Le Monde, 6.10.1983 [la trovi in Divenire molteplice, Ed. Ombre corte 1996]) e, oplà, Cinema 1 è fatto. Ora, a ben vedere, tu mi chiedi un modello di lettura medico (suppongo neurofisiologico) che smentisca l’ipotesi di Deleuze sulla “frequente presenza di bambini nel cinema neorealista [come] spia di [un] cambiamento degli schemi senso-motori”. Capisci perché penso che tu stia superfetando sullo stesso errore che ipotizzi nel fondo della questione posta? Cosciente del pericolo? Bene, non sum dignus e passo a dirti la mia.
Quando Rossellini riempiva di bambini le sue scene, l’infanzia non era un simbolo, ma una presenza, ineludibile nel carotaggio sociologico e psicologico del contesto sullo sfondo: i bambini erano dovunque, in Italia, e ancora non si erano ricavati la nicchia che si andrà formando da Marcellino pane e vino (Ladislao Vajda, 1955). Non così a Hollywood, e qui non c’è bisogno che ti stenda l’elenco. Tutto qui, niente di più.
(A parte, Deleuze usa strumenti affascinanti, ma niente di più.) 


lunedì 15 novembre 2010

[...]




Cioè, uno sì



[Dal palco di Bastia Umbra, il 6 novembre, Enzo Raisi rammentava il “fango mediatico” caduto nel corso dell’estate addosso a Gianfranco Fini, alla sua famiglia e ai finiani; e rivelava: “Alle volte, scherzando coi colleghi, dicevamo: «A te ancora non ti hanno toccato, vuol dire che non conti nulla»”. Era modestia e la modestia va premiata: avrei per lui uno schizzetto di fango.]

Neanche chi continua a nutrire dubbi sulla genuinità dell’antiberlusconismo dei finiani può negare loro il merito di aver denunciato con pienezza di argomento il culto della personalità che fa del Pdl lo specchio delle brame di Berlusconi, e di averlo fatto ben prima del definitivo strappo. Sarà poco, ma è onesto convenire su un dato di fatto: scorrendo la lista dei deputati e dei senatori che hanno lasciato il Pdl per seguire Fini, non se ne trova uno che abbia mai troppo esagerato in prove di fanatica devozione alla persona di Berlusconi. Cioè, uno sì, ma uno solo: Enzo Raisi. Che cazzo ci faceva, Enzo Raisi, almeno fino al 22 aprile, nella lista dei “rappresentanti istituzionali aderenti al Comitato per la candidatura di Silvio Berlusconi al Premio Nobel per la Pace 2010”? Davvero lo riteneva degno di un così alto riconoscimento? Se sì, come ha potuto abbandonarlo? Se no, perché ha firmato?


Definitivo: il global warming è una bufala.



Definitivo: il global warming è una bufala. La prova – inoppugnabile – dall’Illinois:
“Representative John Shimkus insists we shouldn’t concerned about the planet being destroyed because God promised Noah it wouldn’t happen again after the great flood. Speaking before a House Energy Subcommittee on Energy and Environment hearing in March, 2009, Shimkus quoted Chapter 8, Verse 22 of the Book of Genesis. He said: «As long as the earth endures, seed time and harvest, cold and heat, summer and winter, day and night, will never cease». The Illinois Republican continued: «I believe that is the infallible word of God, and that’s the way it is going to be for his creation. The earth will end only when God declares its time to be over. Man will not destroy this earth. This earth will not be destroyed by a flood»” (Daily Mail, 10.11.2010).
Diamo tempo a Il Foglio di intervistare Shimkus e avremo i dettagli.

domenica 14 novembre 2010

Barbarismi


Pare che Ginevra Elkann avesse posto una condizione all’intervista (“aveva pregato la conduttrice di non fare alcun riferimento a sua madre Margherita Agnelli sull’azione legale circa l’eredità”) e che Daria Bignardi abbia prima accettato e poi violato il patto (“non ha resistito e verso la fine dell’intervista ci ha provato”), così rivela Enrico Arosio per L’espresso (46/LVI – pag. 26).
Era legittimo porre quella condizione? Penso lo fosse. Penso che l’intervistato possa porre tutte le condizioni che vuole, spetta all’intervistatore decidere se l’intervista abbia ancora un senso, nel caso le accetti. Una volta accettate queste condizioni, è legittimo che violi il patto? Non penso. Penso che sia una grave scorrettezza, qui tanto più grave se si tiene conto che l’intervista era in diretta televisiva. Forse è esagerato parlare di agguato, ma neanche troppo.
La Elkann avrebbe potuto lamentarsene al momento, forse sarebbe stato meglio, ma chi può rimproverarle di averlo fatto solo il giorno dopo? “Lo ha raccontato con una punta di indignazione alla serata Gucci sulla terrazza dell’Hilton a Roma il 30 ottobre” e ciascuno ha il diritto di lamentarsi dove, come e quando gli pare. Resta da considerare il comportamento della Bignardi.
La settimana prima, il 22 ottobre, aveva intervistato Ignazio La Russa. Avrebbe potuto chiedergli per quali meriti il figlio siede da luglio nel Consiglio direttivo dell’Aci, ma non gliel’ha chiesto. Ho pensato fosse ingenuo stupirsene e ho insinuato (qui) che l’intervista fosse stata concessa a condizione di tacere su quel punto. Sbagliavo, perché la Bignardi non si sarebbe fatta scrupolo di violare l’accordo. È evidente che nemmeno fosse a conoscenza delle accuse di nepotismo mosse nelle ultime settimane al signor ministro, ma non ha a disposizione un’attrezzatissima redazione? Oppure che pensasse fossero tanto infondate da non essere neppure degne di un commento da parte dell’interessato, e qui sarebbe interessante sapere perché.


Corrispondenze


In risposta a M.R. che mi chiede ragione
del mio silenzio sulle persecuzioni che i cristiani
subiscono in molte parti del mondo.


I cristiani sono perseguitati in alcuni paesi, per lo più dalle popolazioni indigene di altra fede (islamica, indù, animista) o dagli apparati repressivi di regimi dittatoriali (Cina, Vietnam, Corea del Nord). Di fronte alla persecuzione religiosa esistono di massima tre opzioni per il perseguitato: convertirsi alla fede dei persecutori (per finta o per davvero); fuggire in un paese tollerante e ospitale; restare dove si è, disposti al martirio. L’attuale posizione della Chiesa al riguardo può sintetizzarsi in alcuni recenti interventi di Benedetto XVI.
In generale, “il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo […] Il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio” (1). Certo, il martirio non è un obbligo, e “molti dei vostri amici cristiani sono emigrati, nella speranza di trovare altrove maggiore sicurezza e migliori prospettive”, voi però “abbiate il coraggio di essere fedeli a Cristo e di rimanere qui” (2).
Così, ai cattolici che vivono in paesi nei quali non sono perseguitati non è richiesto il martirio, ma Gesù ci domanda la fedeltà nelle piccole cose, il raccoglimento interiore, la partecipazione interiore, la nostra fede e lo sforzo di mantenere presente questo tesoro nella vita di ogni giorno” (3). Altro discorso per i cattolici che vivono in paesi nei quali per la loro fede sono a rischio di essere uccisi: “Siano dei testimoni consapevoli che testimoniare la verità può portare ad essere perseguitati” (4), accettino il rischio, non cerchino di salvare la pelle fuggendo o rinunciando a dar segno della loro fede.
Bene, gentile M.R., a chi dovrei venire in soccorso con la mia solidarietà? Difendendolo da chi?




 

venerdì 12 novembre 2010

Arvo Pärt, Fratres, 1992




Le guerre civili


“Io non ho creato il fascismo:
l’ho tratto dall’inconscio degli italiani
 
 
È evidente che almeno il finale de Il caimano gli sia piaciuto molto, perché da Seul ci fa sapere: “Se vogliono sovvertire il voto popolare, sono disposto a portare la gente in piazza, a costo – è l’iperbole che usa nel suo ragionamento – di arrivare alla guerra civile” (il Giornale, 12.11.2010). Nanni Moretti immaginava che alla guerra civile si arrivasse dopo una condanna penale, ma si sa che i giacobini sono sognatori e che le toghe rosse sono mezze seghe. Anche stavolta pare che a farlo cadere possa essere solo un suo alleato: nel 1994 se ne incaricò Bossi, oggi pare tocchi a Fini. Ma poi non ha importanza chi, piuttosto perché.
Nel 2006 gli italiani furono chiamati alle urne per esprimere un parere su quella revisione della Costituzione voluta dalla maggioranza di centrodestra che avrebbe affidato maggiori poteri al Presidente del Consiglio (scioglimento delle Camere, revoca di ministri, ecc.), per adeguarne il profilo formale a quanto materialmente gli era dovuto dall’essere eletto in modo pressoché diretto, grazie a un maggioritario che aveva esaltato al massimo il ruolo del leader della coalizione vincente. Non era necessario il quorum, ma votò più del 50% degli aventi diritto e la proposta di un premeriato (anche solo un po’ più) forte fu bocciata, con il 61,32% di no.
La stella di Silvio Berlusconi è cominciata a calare da quel punto, quando gli è venuto meno il consenso che gli sarebbe stato necessario per neutralizzare quanto nella Costituzione sta ad impedire che una democrazia parlamentare prenda una deriva autoritaria e populista, e la straordinaria vittoria elettorale che conseguì nel 2008 lo ha fatto impazzire del tutto, accelerandone la caduta. Come si spiega che gli italiani sono disposti a darmi tanto sul piano materiale – devessersi chiesto –  e niente su quello formale? Io sono come loro e loro desiderano essere me – devessersi risposto – ma fanno ancora qualche resistenza ad ammetterlo. Da quel punto in poi ha sbagliato tutto, perché si è convinto che bastasse insistere col mettere in drammatica evidenza la contraddizione tra regola scritta e forza del consenso. E pare essere ancora convinto che questa sia la sola via che ha a disposizione: tutto o niente, costi quel che costi, anche la guerra civile.

Ma ci vuole una faccia


Il Tempio di Venere riapre al pubblico dopo un restauro durato 26 anni e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali non manca di darvi un gran rilievo, con levidente secondo fine di smorzare le polemiche intorno al crollo della Domus Gladatoria di Pompei: dopo aver sentito Sandro Bondi discolparsi di un disastro che nessuno dei suoi predecessori ha provveduto ad impedire (10 novembre), lo sentiamo prendersi il merito di un restauro voluto 26 anni fa (11 novembre).


I soliti vecchi trucchetti


Mattia Ferraresi ci aveva già parlato dell’opera prima di Tom Rachman (Gli imperfezionisti – Il Saggiatore, 2010), sempre su Il Foglio, lo scorso 19 giugno, però lì non ammiccava affatto a quelle che ieri ci offriva come sorprendenti analogie tra il giornale descritto nel libro, The Paper, “quotidiano internazionale che viene prodotto a Roma”, e quello per il quale scrive in qualità di corrispondente da Washington. Dev’essere capitato che Giuliano Ferrara le abbia intuite nel passo in cui The Paper era descritto come “regno dell’approssimazione, dove l’arte della verità non se ne sta sospesa in un iperuranio senza legami, ma galleggia come può nella corrente delle passioni umane”. Poco importa che, interpellato sul punto, Rachman neghi d’essersi ispirato a Il Foglio (“The Paper è un prodotto della mia immaginazione”), perché il titolo del pezzo di ieri era Noi, gli imperfezionisti, dove – a piacere – il noi può significare tutto: “noi de Il Foglio”, ma anche “noi giornalisti”, perfino “noi tutti(“esseri umani imperfetti come tutti gli altri”). Il sofisma sta nel diluire la disonestà di alcuni nell’ampio spettro morale che va dall’assoluta onestà all’assoluta disonestà. Chi può dirsi assolutamente onesto? Siamo tutti un po’ disonesti, e che facciamo, condanniamo tutti? Stiamo lì a millesimare chi lo sia un tot in più o in meno? E dove poniamo il limite? Non sarebbe posto comunque arbitrariamente? Tutti assolti, via. Se proprio vogliamo condannare qualcuno, condanniamo chi si dichiara onesto: a ben vedere, è l’unico vero disonesto.

giovedì 11 novembre 2010

Il tempo è immobile





Postilla Da notare che il Fini del 1992 vuole la elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Repubblica, ma non del Presidente del Consiglio.

Code


Giorni fa, litigando con Jimmomo, gli ho mosso un insulto che mi aspettavo lo irritasse molto, e invece niente: gli ho detto che argomentava con “rozzezza polemica”. L’avesse detto a me, sarei andato a Roma, l’avrei aspettato sotto casa e l’avrei sfregiato col vetriolo: lui, niente. Ci sono rimasto malissimo, perché ero sicuro che “rozzo” fosse peggio che “stronzo”: quando polemizzi in modo stronzo, ti rimane sempre modo di poter abbellire l’argomento, e l’argomento rimane disonesto, ma può avere un qualche interesse, almeno di natura estetica; quando lo fai in modo rozzo, l’argomento non è solo disonesto, ma è pure sciatto e brutto. Insomma, con “rozzezza polemica” mi aspettavo che Jimmomo mi s’imbestialisse. Ripeto: zero.
Ora accade un fatto nuovo che mi consente di tornare sul punto, ma prima di spiegare la faccenda, voglio precisare che ho piena percezione del ridicolo al quale mi espongo nel traslare ai massimi sistemi una buffa lite tra due cosi di nome Jimmomo e Malvino: sembra roba da cartone animato, lo concedo, ma non v’è mai capitato di trovarvi di fronte ai massimi sistemi in uno scambio di battute tra Silvestro e Titti, Orazio e Clarabella, Ginko e Altea? Quindi fate i buoni e sorvolate sul fatto che la questione fosse posta in risibile contesto: concentratevi sui principi in oggetto.

“A Cucchi neanche l’avvocato – avevo scritto – e a Ruby addirittura l’igienista dentale”. Jimmomo obiettava: “Nel caso di Cucchi è stata violata la legge, nel caso di Ruby no (e a dirlo è Bruti Liberati)”. Ora, a parte il fatto che la legge si viola non solo negando un diritto a X ma anche eccedendo nel concederlo nel modo e nella forma del privilegio a Y, c’è da dire – e lo dicevo – che Bruti Liberati si limitava a escludere violazioni di legge nell’affidare la minore alla Minetti, ma non si era espresso – non volesse, non potesse o non dovesse – su una telefonata partita dalla Presidenza del Consiglio e da ritenersi abuso potere nel suo intento di coartare il parere autonomo e indipendente del magistrato chiamato a disporre nel caso. In pratica, Bruti Liberati non si era espresso negando l’abuso di potere, ma così Jimmomo gli voleva far dire. Rozzo, molto rozzo.
Bene, il fatto nuovo è che il sostituto procuratore dei minori del caso in oggetto, la dottoressa Annamaria Fiorillo, smentisce di aver mai disposto quanto – almeno secondo Bruti Liberati – sarebbe stato eventualmente lecito: non avrebbe mai dato l’ok all’affidamento di Ruby all’igienista dentale del premier. (Uso il condizionale con schietto intento ironico: chi meglio della dottoressa Fiorillo può sapere che cosa ha disposto?)
Saremmo di fronte a un altro illecito, oltre l’abuso di potere: la sospensione del legittimo potere del magistrato nel decidere a chi affidare la minore. E pare che avesse disposto per l’affidamento ad una delle cinque strutture zonali adibite allo scopo. E pare che tutte e cinque quella sera avessero disponibilità di almeno un posto. Ma la notizia non arriva a Jimmomo o, se gli arriva, non la ritiene degna di commento: oggi si diletta in retroscena di Palazzo e in macroeconomia.

Si potrebbe anche chiudere un occhio sull’uso strumentale che Jimmomo faceva delle parziali e infondate affermazioni di Bruti Liberati (Libero e il Giornale ne hanno fatto un uso simile), ma uno qui si aspetterebbe due paroline di commento alle dichiarazioni della dottoressa Fiorillo, almeno, chessò, un “c’è contraddizione col tombale giudizio di Bruti Liberati”: lui, niente. Una grande tristezza. 


Postilla Dimenticavo di citare Capezzone: lo cito sempre quando parlo di Jimmomo (me lo ha fatto notare lui) e non voglio venir meno all’abitudine. Ieri sera, al tg4 di Emilio Fede, il povero Daniele era più cupo del solito: le agenzie battevano la notizia della raccolta di firme alla quale Bersani aveva dato il via in Parlamento per una mozione di sfiducia del governo. Procedura lecita? Carta alla mano, senza dubbio. Ma per il referente politico di Jimmomo si trattava di mezzo golpe. Stronzaggine o rozzezza?



mercoledì 10 novembre 2010

Senza titolo



 
Formamentis, Alterlucas, Gregorj ded.

Sono depresso, trovo insignificante scrivere, faccio fatica a leggere i giornali, non guardo la tv, non vado al cinema, ho provato a strimpellare un poco al piano e a preparare intingoli, ma senza giovamento, e ho messo pure dei sacchetti di lavanda qui e lì, dicono che la lavanda tiri su: niente, sto giù, riesco a sbrigare solo gli affari correnti, i doveri perché sono doveri, e poc’altro. Passo il tempo che rimane a contemplare il niente, senza aver nulla da ridirne, tanto meno da scriverne, e per chi è sempre stato grafomane – sempre, anche nei momenti più brutti – è davvero strano, perché mi capita per la prima volta: è la prima volta che la depressione – se così posso chiamarla – mi deprime la scrittura.
Mai stato così, devo dire. È sempre stata la scrittura a tirarmi fuori da momenti come questi, è sempre stato un film o uno spartito di Clementi a farmi passare tutto, adesso no.

Ma forse depressione è termine improprio, perché non avverto alcun sintomo psichico o organico di quelli che fanno da corteo a ciò che comunemente è detta depressione. Diciamo che si tratta di qualcosa che tocca ciò che Jung chiamava animus: ho in animo la comprensione dell’inutilità del tutto, della totale mancanza di un senso nelle cose, nei fatti e soprattutto nelle persone: avverto l’annichilente insulsaggine del tutto, né io mi salvo, anzi sto al centro di questa apocalisse. Un angelo (anche qui valga quanto in Jung) mi ha dato da mangiare pagine di un libricino allucinogeno e rimango – termine improprio, dicevamo – depresso. Tutto mi appare insulso e inutile, e non posso farci niente.
Questa volta non riuscirò a salvare il mondo dalla catastrofe finale, e mi spiace, ma devo dire: solo fino a un certo punto.


lunedì 8 novembre 2010

Il Cosone sulla Collinetta Artificiale



Il Cristo-Re di Swiebodzin, cittadina polacca sulle 20.000 anime, dà molto da pensare fin dal chiedersi cosa esattamente sia. Se è statua, non può essere considerata che bruttissima statua, soprattutto se si considera che dovrebbe star lì, coi suoi 40 metri di altezza, a gloria della umanità e della regalità di Cristo: vistosa sproporzione delle parti anatomiche, inespressività del volto, barba non nazarena, mani come guantate, pannato dallo sviluppo improbabile. E sorvoliamo sulla tecnica: accanto al Cristo-Re di Swiebodzin i santi e le madonne in vetroresina distribuite da ativon.com sembrano capolavori di finissima fattura, usciti da sublime scalpello. L’uomo sembra stilizzato come in un fumetto, il re sembra uscito da una carta da gioco.
Il valore artistico di un gigantesco Enver Hoxha in marmo eretto al centro di Tirana potrà pure esser stato prossimo allo zero, ma chi potrà negare che facesse monumento? Bene, nel 1994, in Albania, le statue del dittatore furono trasformate a colpi di scalpello in statue di santi e di madonne, di valore artistico mai superiore, e rimanendo monumento. Il Cristo-Re di Swiebodzin sembra ricavato da un monumentale Lenin. Padre Sylwester Zawadzkis, che l’ha fortemente voluto con la forza della fede che vince tutto, compreso il buon gusto, non deve aver avuto finalità artistiche, ma esclusivamente celebrative e, se il dettaglio più credibile è la corona, siamo dinanzi a un monumento che celebra la regalità sociale di Cristo.
L’approccio estetico è irrilevante al fine di cogliere il significato del Cosone sulla Collinetta Artificiale, che forse è anche qualcosa di più di un monumento, perché batte ogni record fra i Gesù di grosse dimensioni. Celebra la regalità di Cristo, dunque, ma celebra anche se stesso nel primato che detiene: se il Cristo-Re rappresenta la pretesa della Chiesa sulla società dei laici, è qui in Polonia – padre Zawadzkis tiene a far sapere – che il suo vocione è più grosso.
Adesso non vi piace? Ci farete l’occhio, vi piacerà. Ma soprattutto considerate che, se tiene, tra due secoli sarà diventata un’altra prova storica delle radici cristiane di Swiebodzin.

“Il papa è stato strumentalizzato”


La popolazione del Brasile ammonta a circa 195 mln di individui, per lo più cristiani (circa 180 mln), in gran parte cattolici (poco più di 145 mln). Gli aventi diritto al voto sono complessivamente poco più di 135 mln (i cristiani in toto sono poco più di 120 mln, mentre gli elettori che si dichiarano cattolici poco meno di 110 ml). Se la matematica non è un’opinione, ad impedire che Dilma Rousseff vincesse le elezioni presidenziali del 31 ottobre sarebbe bastato che almeno il 65% dell’elettorato cattolico mostrasse obbedienza alle indicazioni di voto espresse dall’episcopato brasiliano, su esplicitissimo mandato pontificio: “Il vostro dovere come vescovi, insieme al vostro clero, è mediato, in quanto vi compete contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna. Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica” (Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza episcopale brasiliana in visita ad limina apostolorum, 28.10.2010). Qui, in Brasile, il giudizio morale in materia politica si traduceva nell’invito a votare José Serra, poi uscito con le ossa rotte (-11%) dal ballottaggio con Dilma Rousseff, l’abortista.
Quando l’ingerenza della Chiesa dà i risultati sperati, il Papa ci fa sempre un figurone e, avesse vinto Serra, il Brasile sarebbe diventato un paradigma. Ma Serra ha perso e con la Rousseff bisogna pur convivere. “Il papa è stato strumentalizzato”, dichiara monsignor Tomás Balduino: non è stato informato di cosa sarebbe accaduto in Brasile se avesse vinto Serra. E chi l’ha strumentalizzato? Boh.

Amarcord



Il simbolo del partito, per metà preso dal nome del suo leader. Quel retrogusto di maoismo che sta in Ronchi quando dice “caro Gianfranco”. Il pop un po’ trash di Menia. La retorica del Manifesto d’Ottobre, enfio di anafore da spot pubblicitario o, a piacere, da mantra autogeno. Sì, un po’ di Berlusconi è rimasto appiccicato a Fini, ma lo strappo adesso pare intero, e non solo sul piano della bassa politica: almeno sulla carta, c’è una nuova destra. Democratica e liberale, pare. Europea, come suol dirsi.
Per dieci dodicesimi è la nuova destra che sembrava impossibile fino a cinque anni fa, quando a pensarla possibile c’era solo L’Indipendente di Guerri, che per pensarla possibile con troppo anticipo fu licenziato dall’editore, un certo Bocchino. In politica i tempi sono tutto, e io pensavo e penso che fosse An ad essere ritardo. Sempre tardi che mai.


Eccetera



In non so più quale bestiario si legge che, quando sente arrivare la fine, l’elefante si isola dal branco, fa un giro su se stesso, si stende e attende la morte. Eccolo girare su se stesso, è uno spettacolo che strazia l’anima: “Noi volevamo un mondo in cui vita, libertà e ricerca della felicità fossero riconosciuti come pilastri dell’esistenza e della vita sociale…” (Il Foglio, 8.11.2010). Gli hanno sputtanato il puttaniere, crollano i pilastri, eccetera.


A margine

“Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra
che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo.
Imbarazzo, poi si studiano le contromisure...” *

Maurizio Ferraris, Il bello del relativismo, Marsilio 2005



Qui cerco di chiarire a diciottobrumaio e a lector quanto, a mio umile parere, sta in premessa ad ogni discussione su quanto il mito possa aver preso dalla storia, e stiamo parlando di Gesù di Nazareth (GdN): anche se fosse buona la tesi di Luigi Cascioli – GdN non è mai esistito, la sua figura è stata ricreata a calco di un tal Giovanni di Gamala (GdG), zelota vicino agli esseni, del quale non sappiamo quanto il mito abbia preso dalla storia  – avremmo un GdG che (almeno in parte) sarebbe storia. Voglio dire – spero di non fare scandalo che l’esistenza storica di GdN non mi pare il problema centrale del cristianesimo: il mito di GdN avrà sempre in sé una parte di storia e, anche se la sua predicazione e la sua morte sono storicamente (almeno in parte) di GdG, è la resurrezione che sta al centro di tutto, di là da ogni probabile, fuori dalla possibilità di storia. Non è nell’esistenza di un nuclearità storica (anche plurima) di un GdN che si gioca la credibilità dell’evento, ma nella resurrezione di un qualsivoglia umano, ovunque sia, chiunque sia. Quand’anche fosse provato un GdN proprio così come ci è descritto dalle favole scritte non prima di mezzo secolo dopo la sua morte, la questione sulla quale il cristianesimo tiene o cade è la sua resurrezione. Poi, certo, abbiamo Loisy, Mead e ora anche Freeman a tentare di spiegarci come è nato il mito, ma il nucleo storico che fa la credibilità di GdN è se, due millenni fa o giù di lì, un qualsivoglia umano sia risorto o no: tutto il resto è archeologia e filologia, tutta roba assai interessante, ma senza un tizio che risorge il cristianesimo non è più evento (come tengono a ripetere i cristiani più furbi che addirittura rifiutano di metterlo fra le religioni), ma costruzione letteraria, e dunque ha davvero poco importanza quanto di realmente storico vi sia nel protagonista. Fra persone di buon senso, è ovvio, non si perde tempo a discutere di resurrezione, ma si passa allarcheologia e alla filologia: in questi ambiti si possono rintracciare gli elementi psicologici che concorrono alla costruzione del mito e, rintracciati quelli, il cristianesimo è destrutturato. Che importa se rimane un GdN, un GdG o un altro? È dinanzi alla eventualità che vengano ritrovati i suoi resti che ogni contromisura favorirebbe la destrutturazione del cristianesimo, di fatto a buon punto.



* La citazione mi serviva solo per introdurre la questione, tutta nel prologo della barzelletta. Non riportarla sarebbe un crimine:  “Un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano «ma allora esisteva davvero!». I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l’Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti)”.