giovedì 23 dicembre 2010

Il motorino di Silvio Berlusconi


Non è la prima volta che Silvio Berlusconi racconta della disavventura che gli sarebbe capitata a 12 anni, quando sarebbe stato aggredito da alcuni comunisti che l’avrebbero sorpreso ad attaccare manifesti elettorali della Dc insieme a due suoi amici. La prima volta che ne parlò fu nel giugno del 2005 (raduno di forzisti al cinema Capranica, a Roma); poi l’ha rifatto nel 2007; e nel 2008; e adesso vi è tornato ancora, nel corso della abituale conferenza stampa di fine anno della Presidenza del Consiglio (2:06-3:05). Stavolta, però, come sovente accade a chi si compiace di sparare balle arricchendole ogni volta di nuovi dettagli perché non trova alcuno che sollevi dubbi, esagera.
Già l’aneddoto zoppicava in un punto, tuttavia non decisivo per renderlo incredibile: le elezioni politiche del 1948 si tennero il 18 aprile, quando Silvio Berlusconi aveva 11 anni, non 12, e non è escluso che andasse ad attaccare manifesti elettorali con amici più grandi di lui, ma è credibile che a salire sulla scala per attaccare un manifesto di circa 120 x 180 cm fosse quello con la minore apertura di braccia? Se l’episodio non è del tutto inventato, come oggi pare assai probabile, è più verosimile che fosse addetto al secchio della colla.
Oggi, però, come dicevamo, esagera, e aggiunge un dettaglio che è incompatibile col contesto: tornato a casa malconcio, giustificò la cosa con l’essere caduto dal “motorino”. Non poteva essere il suo, perché a quell’età non avrebbe potuto guidarlo, ma come avrebbe potuto esservi a bordo insieme al guidatore se il primo ciclomotore a due posti commercializzato in Italia è del 1953 (Peugeot S55) e solo dal 1949 in poi la Benelli mette in commercio un due ruote che consentiva il trasporto di un secondo passeggero seduto sulla canna?

Commento a Licht der Welt / 1




Poco più di un anno fa, al termine di un’udienza del mercoledì, Vittorio Messori propose a Benedetto XVI di concedersi per un Rapporto sulla fede II: “Mi dia tre giorni – disse – ci chiudiamo in clausura come facemmo a Bressanone nel 1984 e il libro è fatto”. “Dottore – gli rispose il Papa – non ho nemmeno tre ore”. Chissà come deve esserci rimasto male, il dottor Messori, quando ha saputo che per Peter Seewald era riuscito a trovarne sei, “dal lunedì al sabato dell’ultima settimana di luglio, per un’ora al giorno” (Luce del mondo, LEV 2010 – pag. 8). “Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – racconta Seewald – Ratzinger mi aveva offerto due volte l’opportunità di intervistarlo nell’arco di più giorni [nel 1996 (Joseph Ratzinger: Salz der Erde) e nel 2000 (Gott und die Welt - Glauben und Leben in unserer Zeit)] (ibidem, pag. 7), proprio come aveva concesso a Messori in precedenza. Perché non rinnovargli più la stima? Sarà perché Rapporto sulla fede sollevò molte polemiche, mentre le altre due interviste poco o niente? Sarà perché Benedetto XVI voleva evitare infortuni espressivi in una lingua assai insidiosa come l’italiano e la cautela gli ha suggerito di preferire un intervistatore tedesco per potersi esprimere con maggiore sicurezza e serenità? Se dobbiamo giudicare dai risultati – la nota polemica sull’uso del preservativo scatenata dalle anticipazioni della prima edizione nelle traduzioni in italiano, inglese e spagnolo (novembre 2010) – preferire Seewald a Messori non è servito a molto, in tal senso.
Sarà che “autorizzando la pubblicazione del testo, il Papa non ha modificato la parola pronunciata ma apportato solo piccole correzioni, lì dove ha ritenuto necessarie alcune precisazioni a vantaggio dell’esattezza” (ibidem, pagg. 11-12), fatto sta che per quanto attiene ai contenuti e alla loro valenza sul piano dottrinario sono da tener presenti tre elementi: (1) Benedetto XVI ha chiesto di visionare le bozze solo a due prelati e uno dei due era il cardinal William Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; (2) “Assenso religioso della volontà e della intelligenza si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla ex cathedra” (Lumen gentium, 25); (3) “Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che il Sommo Pontefice enuncia circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intende proclamarla con atto definitivo” (Codice di Diritto Canonico, 752).
Invece, proprio riguardo al punto relativo all’uso del preservativo in alcuni “singoli casi motivati” (ibidem, 171) c’è stato un tempestivo mettere le mani avanti da parte delle più alte gerarchie vaticane: prima, si è precisato che quanto affermato da Benedetto XVI era espresso “in una forma colloquiale e non magisteriale” (Sala Stampa Vaticana, 21.11.2010); poi, dopo ampia limatura del testo, si è detto che nulla contraddiceva la dottrina, tanto meno in relazione al delicato punto del “male minore”, mai moralmente giustificato. Eppure, prima che nella ristampa di dicembre i “singoli casi” diventassero “motivati”, si era usato proprio l’aggettivo “giustificati” (“begründete Einzelfälle” e Begründung è termine non disdegnato dai teologi tedeschi quando si parla di “giustificazione”: lo stesso Joseph Ratzinger l’ha usato in Die sakramentale Begründung christlicher Existenz [1965], dove “motivazione” non darebbe piena accezione ontologica).
E dunque cosa possiamo dire alla fine di questo primo post su Licht der Welt? Che si tratta proprio del gran pasticcio che si voleva evitare. Probabilmente – ma chi può dire? – sarebbe stato meglio concedere tre ore a Messori che sei a Seewald. Al prossimo post cercherò di dimostrarlo facendo un raffronto tra le due tipologie di intervistatore.

  

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Chiesa, voce del verbo chiedere


Fino a quando la Chiesa fu autorità incontrastata, la politica fu il portato storico del discorso teologico sul bene comune e sulla giustizia (1). Semplicemente non aveva senso una specificità del magistero sociale rispetto a quello morale e infatti dobbiamo aspettare la fine del XIX secolo per la prima enciclica specificamente sociale (2) e prim’ancora – anche se non di molto – per quelle che ne avevano configurato lo specifico (3), registrando l’avvenuto scollamento tra due dimensioni prima quasi interamente coincidenti: ecclesia e societas. È da quando la Chiesa perde il potere temporale e la sua autorità è messa più seriamente in discussione che nasce l’esigenza di trattare la politica come strumento scientifico in buona misura autonomo rispetto alla scienza teologica (4): superata la breve parentesi del non expedit, la pretesa di essere attore politico è avanzata dalla Chiesa in virtù di un diritto ordinario e la chiamata del cattolico alla vita politica è per il tramite dell’estensione della libertà di culto alla vita di relazione piuttosto che attraverso la pretesa di una fondazione teologica del sociale. In altri termini, la Lettera a Diogneto diventa manifesto politico dei cattolici più di quanto lo sia stato la Lettera ai Romani prima del 1870.
Se c’è modo di far rientrare dalla finestra il fondamento teologico del sociale uscito dalla porta, è attraverso una riscoperta – o, per meglio dire, una ripresa – della dialettica trinitaria che il neotomismo ha messo un poco in ombra (5). Dopo qualche tentativo fatto da Gianni Baget Bozzo una trentina di anni fa (6), a provarci è monsignor Giampaolo Crepaldi: Il Dio cristiano è trinitario, ossia è un’unica Sostanza fatta di relazione fra tre Perso­ne. La Trinità è così modello di ogni altra comu­nità, in quanto indica un nuovo piano dell’essere nel quale la relazione è essenziale e non seconda­ria ed accidentale (Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa – Cantagalli 2010). Tentativo assai poco insistito, teologicamente velleitario e evanescente sul piano della giustificazione politica, insignificante se paragonato a quello di Baget Bozzo, che pure rimase poco ascoltato: monsignor Crepaldi mira al vademecum, non a riproporre una declinazione dialettica della sovranità sociale di Cristo, sarà che gliene mancavano le forze o l’ardire. Perciò, nelle sue pagine, il diritto della Chiesa è pretesa camuffata piuttosto che giustificata: “Il diritto alla libertà religiosa ha valore nel contesto del dovere di cercare la verità, e quando essa contrasta con la verità dell’uomo, non può essere assunto a diritto riconosciuto pubblicamente. Libro fallito.




(1) Merio Scattola, Teologia politica, il Mulino 2007 – pagg. 13-156
(2) Leone XIII, Rerum novarum, 15.5.1891
(3) Inscrutabili Dei consilio, 21.4.1878; Quod apostolici muneris, 28.12.1878; Diuturnum illud, 29.6.1881; Libertas, 20.6.1888
(4) Significativamente, è nella discussione sul fondamento teologico del diritto canonico che la teologia rimane scienza sufficiente e necessaria, fino agli scritti di Giovanni Paolo II attorno al Codice del 1983 e, dopo, alla seconda parte della Deus caritas est (Benedetto XVI, 25.12.2005)
(5) Trinità in ombra (Malvino, 10.9.2010)
(6) Gianni Baget Bozzo, La Trinità, Vallecchi 1980 – pagg. 237-253

mercoledì 22 dicembre 2010

Tappetini



Lo scendiletto mi ha dato una strana sensazione sotto i piedi, stamane. Ci ho messo niente a capire: nella notte si era raffrontato al conduttore di Matrix e aveva il pelo dritto, tutto fiero di se stesso.

Un'altra performance linguistica del professor Bellieni


Tre anni fa il professor Carlo Bellieni ci proponeva: “La parola «feto» dovrebbe essere bandita”. “Lo chiamiamo «feto» un minuto prima della nascita e «bambino» un minuto dopo – argomentava – ma che cosa cambia? Sul piano fisico assolutamente nulla”. Detto da un neonatologo, che non dovrebbe essere all’oscuro delle variazioni dei parametri cardiocircolatori, respiratori, ematologici, metabolici, neurologici ed endocrini che si hanno al momento della nascita, la cosa ci stupì non poco. Poi sapemmo che era membro della Pontificia Accademia Pro Vita e chiudemmo un occhio: per far carriera c’è gente disposta pure a far pompini, mentre il professore si era limitato a una timida performance linguistica. Poco convinta, bisogna aggiungere, perché da allora Bellieni non ha mai smesso di usare la parola «feto», alla faccia del buon esempio. Per dire: nell’ultimo suo articolo (L’Osservatore Romano, 22.12.2010) la usa cinque volte.
Passò meno di un anno e il professore attirò ancora la nostra attenzione: “I bimbi nati dopo fecondazione in vitro hanno un rischio di certe malformazioni maggiore degli altri”, disse che l’aveva letto su Lancet (VII/2007); ma il giorno dopo chiese scusa, aveva letto male (c’era scritto: “avranno uno sviluppo pari agli altri”). Anche qui chiudemmo un occhio: può capitare a tutti.
L’avevamo perso di vista, ma poi l’anno scorso se ne venne con un’altra delle sue: “Certamente l’introduzione nelle case dei Paesi occidentali di acqua corrente e servizi sanitari ha determinato una netta diminuzione di malattie infettive. Bisogna tuttavia riflettere su dei fatti che sembrano essere il rovescio della medaglia del nuovo fenomeno: l’eccesso di abluzioni porta ad un enorme consumo di acqua, in gran parte potabile, ad un’immissione nelle acque reflue di sostanze tensioattive, talora non biodegradabili, e alla perdita di quei germi «buoni» che talora sono la premessa per la protezione contro quelli patogeni”. Tremammo, pensammo che il magistero della Chiesa volesse porre un veto al bidet: timore eccessivo, la cosa abortì lì.
Passa un altro anno e riecco il professore…
“La diagnosi prenatale genetica, anche quando venga fatta sul sangue materno e senza rischio per il feto, non è eticamente neutra. Se servisse per curare sarebbe altra cosa, ma le possibilità di terapia dei malati di sindrome Down sono praticamente zero. La ricerca della sindrome Down del feto non deve essere uno screening, perché non è interesse dello Stato andare a individuare i bambini affetti prima della nascita”.
Lo Stato? E che c’entra lo Stato? Lo Stato non può imporre (ma nemmeno vietare) un’amniocentesi. Eticamente neutra o no, c’è una legge – una legge dello Stato – che consente la diagnosi prenatale delle patologie fetali che sono diagnosticabili e che consente l’interruzione della gravidanza se una di queste patologie fetali può mettere a rischio la salute fisica o psichica della gravida: è questa legge che non è eticamente neutra, perché il professor Bellieni non si fa promotore di un referendum per abrogarla invece di starnazzare obliquamente?
“Far diventare screening la diagnosi genetica prenatale surclassa la scelta individuale della donna”, aggiunge, ma chi ha mai imposto un’amniocentesi ad una cattolica che l’abbia ritenuta superflua perché comunque intenzionata a portare avanti la sua gravidanza, che il feto fosse o no affetto da sindrome di Down? Anche qui, comunque, si evidenzia un’inclinazione del professor Bellieni all’uso ambiguo della lingua. “Surclassamento” sta per “schiacciante superiorità”: se nessun screening è imposto, chi si schiaccia?


martedì 21 dicembre 2010

Il dono del Re


Antonio Socci strizza il succo di una vecchia questione: “C’è un Re così grande, ricco e potente che possiede tutto. E dunque ti regala non solo pietre preziose e perle, ma il mondo intero con tutte le sue meraviglie. Però non gli basta, perché noi siamo insoddisfatti e infelici, e allora vuole donarti di più. Potrebbe regalarti la felicità (per cos’altro tutti ci agitiamo se non per la felicità?) oppure potrebbe regalarti la bellezza, o la pace del cuore o l’amore o il calore dell’amicizia e potrebbe perfino regalarti tutto questo per l’eternità, senza più la tristezza della fine e della morte. Ma ha deciso di farti un dono ancora più grande dove tutto questo è contenuto: se stesso, il suo unico e meraviglioso Figlio che letteralmente «è» tutto questo. Infatti Gesù è la vera felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita e lo è per sempre. E allora come si fa – davanti a un tale Re che ti dona se stesso e tutto il suo regno, senza che tu lo meriti neanche lontanamente – come si fa a non essere strafelici e a non essere mossi spontaneamente, anche noi, a donare?” (Libero, 21.12.2010).

Obiezione: mai visto il Re e comunque sono contrario alla monarchia, posso rifiutare il dono ed essere lasciato in pace?


Nichi Vendola non mi piace e non mi convince



“Il capitalismo ormai non è solo incompatibile
con la democrazia: è incompatibile con la vita”

Ho già detto che Nichi Vendola non mi piace e ho usato questa espressione perché mi sono limitato a usare categorie estetiche, parlando dell’irritazione che mi procurano il suo cristianesimo alla Jovanotti, il suo cattolicesimo da festa del santo protettore, il suo lessico psichedelico, il suo comunismo tutto letterario, il suo populismo sentimentale, la sua omosessualità ostentatamente sobria (e non è un ossimoro). Dopo due mesi il post continua ad essere commentato, per lo più da lettori ai quali invece Nichi Vendola piace, piace molto, piace al punto da rimproverarmi che non piaccia pure a me quanto piace a loro. Penso, dunque, che sia il caso di passare a un giudizio propriamente politico e approfitto dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia che oggi apre il Corriere della Sera (L’orecchino populista), perché mi torna utile a semplificare.
Dico subito che l’editoriale sembra assai benevolo, in alcuni punti addirittura lusinghiero. In pratica, Ernesto Galli della Loggia scrive che Nichi Vendola è il meglio che potesse capitare a una sinistra che, “con la fine dell’impianto ideologico che arriva all’Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca” e “con il declino dell’industrializzazione e dei suoi attori, con l’impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati”, era tenuta ad abbandonare “la «storia» come termine essenziale di riferimento” per “sostitu[irla] con la «vita»”: nessuno meglio di Nichi Vendola, che sostituisce l’ideologia con “immagini ed emozioni”, e che “non parla” ma “intesse delle «narrazioni»”, nelle quali “la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti”.
Sembrerebbe un giudizio positivo, se non fosse che per Ernesto Galli della Loggia, levato il portato ideologico, alla sinistra resta il suo moralismo (“dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche”) e la sua epica “etno-populistica”, che dal mito dell’eroe proletario – operaio, contadino, studente – è decaduto all’icona di “un modello divistico di tipo rockettaro-televisivo”: Nichi Vendola è quanto di meglio può incarnare questa evoluzione, ma si tratta di una dimensione politica che, “lungi dall’essere argomentazione razionale di problemi concreti e di soluzioni possibili, è soprattutto retorica e oratoria fusionale, identificazione emotiva tra chi «narra» e chi ascolta”. Affabulazione etico-estetica, dunque, e tutta autoreferenziale: al posto della politica c’è il “pathos della «vita»”, e Nichi Vendola ne è il miglior medium possibile.
Sembrava un giudizio positivo, ma è una sentenza di condanna senza appello: per la sinistra – e per Nichi Vendola. Condanna che io trovo condivisibile. Da liberale, non posso ritenere questa narrazione migliore di quella che Silvio Berlusconi è riuscita a incarnare per catalizzare il blocco sociale di questo centrodestra: tra queste consolatorie spiegazioni di quella chimera antropologica che sarebbe il carattere nazionale italiano – in oppositis speculis – c’è la giustificazione di una differenza che ci precluderebbe l’uso della testa, dandoci il primato del cuore e dello stomaco. Questo non mi piace, ma qui l’espressione esorbita dalle categorie estetiche: non mi convince che il destino patrio debba giocarsi in una eterna guerra civile tra furbi e fessi.

lunedì 20 dicembre 2010

Di Pietro è assai invecchiato in questi ultimi 17 anni...



... La Russa è più o meno lo stesso.

19:45 - CRONACA - 20 DIC 2010


Fresca di mezz’ora, una notizia che ne implica un’altra: se c’è riciclaggio, c’è un riciclatore. Se non è Gotti Tedeschi, chi può essere?

“Corrispondente responsabilità”


È tradizione ormai consolidata che il discorso tenuto dal Papa alla Curia in occasione dell’udienza per la presentazione degli auguri natalizi sia occasione per tirare le somme dell’anno che sta per chiudersi. Discorso che con Giovanni Paolo II raramente ha superato le 10.000 battute, ma che con Benedetto XVI non è mai stato inferiore alle 20.000, come a compensare con la prolissità l’inarrivabile dinamismo del suo predecessore. Quest’anno il discorso supera le 23.000 battute, delle quali un quarto è dedicato ai numerosi casi di abusi sessuali su minori commessi da preti che sono venuti a galla nel 2010, scoperchiando una fogna dalle dimensioni immense, e Sua Santità strappa un sorriso di tenerezza nel modo in cui approccia la questione: “Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettati” (trad.: “Tutta questa merda doveva venire a galla proprio quest’anno? Eccheccazzo!”).
Poco altro da segnalare, però è fatta un’importante ammissione: “Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità”. Ecco, con l’ammissione di una “corrispondente responsabilità”, che ci auguriamo non sfuggirà a chi cura gli interessi delle vittime, possiamo dire che questo discorso di fine anno non sia stato del tutto inutile.


Not necessarily




[...]



Per non ripetermi, rimando a quanto ho già detto lanno scorso. Così, se non rispondo ai «Buon Natale» che verranno, non sembrerà scostumatezza.
 
 

Passa al cabaret

Luigi Ferrarella (1) e Michele Ainis (2) firmano due articoli che smerdano Maurizio Gasparri come merita. Massimo D’Alema (3) ci prova, ma si affida interamente a quel suo fare sprezzante che dà per superflua ogni argomentazione. Così, tutto sommato finisce per smerdarsi un poco pure lui, perché l’uomo politico, inteso come professionista della politica, è uno che deve produrre argomenti convincenti e qui D’Alema non ne produce: Gasparri sbaglia perché è Gasparri. D’Alema viene meno a un suo preciso dovere, quello di produrre argomenti convincenti perché la proposta di un avversario politico risulti insensata anche a chi non condivida il pregiudizio negativo sulla sua persona, e lo evade nell’intrattenimento dei fidelizzati.
Ritengo assai grave questa mancanza. Nello specifico penso che un professionista della politica avrebbe dovuto essere capace di sintetizzare gli argomenti di Ferrarella e di Ainis, spiegandoli in modo semplice e chiaro in non più di 45 secondi. Difficile? E allora rinuncia alla politica e passa al cabaret.

(1) “Prima il Guardasigilli mobilita gli ispettori quando non gli piacciono le sentenze, poi il titolare del Viminale immagina per i cortei un divieto come il Daspo agli ultrà, e ora il presidente dei senatori pdl rimpiange gli arresti preventivi Anni 70. Tra i danni collaterali delle gravi violenze del 14 dicembre nel centro di Roma, che non possono trovare giustificazioni e che meriteranno i rigori di legge a coloro che ne saranno accertati responsabili, il fine settimana appena trascorso segnala che una cortina fumogena di slogan sta annebbiando la percezione del principio di separazione tra poteri dello Stato. Un giorno il ministro della Giustizia Alfano, annunciando ispezioni ai giudici sgraditi, manifesta la propensione a voler decidere lui se una scarcerazione che non gli garba sia giusta o no. Un altro giorno il ministro dell’Interno Maroni accarezza l’idea di estendere i divieti Daspo dagli stadi di calcio alle piazze, e così di essere di fatto lui, tramite i Questori, a decidere chi non debba più partecipare a manifestazioni pubbliche. E ieri Gasparri chiude il trittico con il suo «qui ci vuole un 7 aprile, e mi riferisco al giorno del 1978 in cui furono arrestati tanti capi dell’estrema sinistra collusi con il terrorismo». Quest’ultimo vagheggiamento è arduo persino da prendere in considerazione, visto quanto lo vizia il concentrato di errori (era il 1979 e non 1978), confusioni di contesto (l’Autonomia Operaia negli anni delle Br), e scarsa memoria degli striminziti esiti giudiziari per molti dei 140 indagati. Per parte sua, il Guardasigilli sorvola sul fatto che, quand’anche siano erronei i presupposti della decisione dei giudici di confermare l’arresto dei 22 fermati dalla polizia ma di non trattenerli in carcere in vista del processo di giovedì, il rimedio previsto dalla legge non è l’ispezione ministeriale minacciata al Tribunale, ma l’appello della Procura contro le scarcerazioni innanzi al Tribunale del Riesame. Analogo stridore promette l’applicazione ai cortei dell’odierno «Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive» (Daspo) da uno a 5 anni per chi in passato abbia preso parte o inneggiato a episodi di violenza. A imporlo, infatti, non è un giudice ma il Questore, cioè una emanazione del potere esecutivo; e come presupposto non c’è bisogno di una sentenza ma basta anche solo una semplice denuncia di polizia. Il destinatario può solo sottoporne i profili amministrativi al Tar, mentre il giudice penale interviene solo qualora il Questore imponga anche l’obbligo di firma (ammesso dalla Consulta nel 2002 proprio perché sottoposto a controllo giurisdizionale). Sembra poi sfuggire, se trapiantata nelle piazze, la delicatezza delle conseguenze per chi, colpito da un divieto amministrativo del Questore sulla base solo di una denuncia, non facesse altro che partecipare lo stesso a una manifestazione: arresto in flagranza, processo per direttissima, condanna da 1 a 3 anni e multa da 10 mila a 40 mila euro. Per capire che sarebbe un pericoloso corto circuito, prima ancora di doversi aggrappare agli articoli 16 e 21 della Costituzione su libertà di circolazione e di espressione, forse può bastare il buon senso. Irrobustito da una gestione dell’ordine pubblico più accorta nell’isolare nei cortei i violenti. E presidiato da sentenze che dalla magistratura bisogna pretendere non «esemplari» , ma pignole e sollecite: come per gli scontri tra estrema destra e centri sociali di sinistra antagonista che l’11 marzo 2006 devastarono il centro di Milano, e che già nel 2008 videro diventare definitive in Cassazione sentenze capaci di distinguere 15 pesanti condanne (a 4 anni nonostante lo sconto di un terzo per il rito abbreviato) da 11 assoluzioni” (Poteri dello Stato. Il cortocircuitoCorriere della Sera, 20.12.2010).

(2) “Calma e gesso, per favore. Anche perché di scalmanati in abito gessato ce n’è fin troppi in giro. A cominciare dall’onorevole Gasparri, che invoca arresti preventivi, retate di massa, e in conclusione un nuovo 7 aprile. Insomma la ricetta del 1979, benché Gasparri abbia citato il 1978. E allora proviamo a dare i numeri, di questi tempi non saremo i primi a farlo. Proviamo a misurare sui numeri della Costituzione non tanto la sparata di Gasparri (qui è più facile: zero), quanto piuttosto l’idea di Mantovano e di Maroni, quella d’esportare ai manifestanti il Daspo che s’applica ai tifosi. Ossia il divieto comminato dal questore - e dunque senza una pronuncia giudiziaria - a carico di persone che si ritengono pericolose, impedendo loro d’entrare in uno stadio, o per l’appunto in una piazza gremita da cortei. Sulle prime, parrebbe una misura di buon senso. Se il Daspo ha funzionato per i disordini sportivi, perché non dovrebbe rivelarsi altrettanto efficace per i disordini politici? Peccato tuttavia che non abbia senso equiparare il diritto di tifare per la Lazio al diritto di manifestare contro la Gelmini. Peccato che ai costituenti interessasse la regolarità delle elezioni, non la regolarità dei campionati. Peccato infine che il libero esercizio del diritto di voto è possibile soltanto a condizione che il voto venga espresso in un clima democratico, con un’informazione pluralista, con un dissenso garantito in Parlamento e nelle piazze. Insomma i diritti non sono tutti uguali: taluni hanno dignità costituzionale, altri s’esercitano sotto l’ombrello della legge. E a loro volta i diritti costituzionali non pesano sempre in modo eguale: come diceva Bobbio, i diritti politici sono strumentali a tutti gli altri, e dunque li precedono, e dunque vantano uno statuto superiore. Significa che subiscono soltanto restrizioni circoscritte, tassative, temporalmente limitate. Altrimenti, se la sicurezza fosse un passe-partout per scardinarli, tanto varrebbe vietare le manifestazioni. Faremmo prima, e con un risultato garantito. Tuttavia non è possibile, vi s’oppongono per l’appunto i numeri della Costituzione. Articolo 16: chiunque può circolare in ogni contrada del nostro territorio, salvo i limiti che la legge disponga in nome della sicurezza. Ma guarda caso tali limiti non possono mai venire ispirati da ragioni politiche. Articolo 17: la libertà di riunirsi può essere negata per motivi («comprovati») di sicurezza pubblica, ma non ai singoli, bensì all’intero gruppo che chiede di manifestare. Articolo 27: la responsabilità penale è personale, e c’è inoltre una presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna. Vuol dire che non è reato partecipare a un corteo dove altri commettono reati, e vuol dire inoltre che i reati sono tali solo quando lo dichiara un giudice, e nessun altro giudice possa rovesciare il suo verdetto. Al limite, se proprio vogliamo un Daspo politico dopo quello sportivo, se ne potrà forse discutere per chi ha subito una condanna, quantomeno in primo grado. E c’è in ultimo un risvolto politico di queste chiacchiere imprudenti, ben più saliente del profilo giuridico. Perché nessuno ha mai evocato misure preventive di polizia dopo i fatti di Genova, dopo altri disordini che pure hanno scandito gli anni Zero? Che c’entra Roma del 2010 con Padova del 1979, dove i professori insegnavano con un coltello alla gola? Risposta: niente, non c’è niente in comune. C’è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare” (Ma i diritti non sono uguali per tuttiLa Stampa, 20.12.2010)

(3) “Non commento mai le dichiarazioni dell’onorevole Maurizio Gasparri” (Che tempo che faRaitre, 19.12.2010)


«A due a due»



Perché Gesù li mandò «a due a due»? Vi risparmio la cazzata che riesce a partorire il signorino che Avvenire ha promosso a editorialista, mi limito a segnalare la sua autorevolezza come esegeta biblico: non è nel Vangelo di Luca che Gesù manda i Dodici «a due a due», ma in quello di Marco (Mc 6, 7).


Il lavoro di informare


Enrico Negrotti incorre in molte imprecisioni nell’informare i lettori di Avvenire (19.12.2010 – pag. 14) circa le “nuove indicazioni per l’assistenza alla gravidanza fisiologica […] predisposte da un ampio gruppo di esperti sotto la responsabilità di Alfonso Mele (Istituto superiore di sanità, Iss) e coordinati da Vittorio Basevi (Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria – Ceveas – della Ausl di Modena) e Cristina Morciano (Iss)”. Si tratta delle 208 pagine della Linea Guida 20 che il Sistema nazionale per le linee guida ha pubblicato a novembre, dalle quali il Negrotti pesca a cazzo, commentando a cazzo.
“Gli esperti designati dal ministero della Salute indicano la necessità di ridurre la diagnostica invasiva (amniocentesi e villocentesi), ma allargando il percorso di ricerca di feti con sindrome di Down (Sd) anche alle donne sotto i 35 anni di età”. In realtà, gli esperti affermano che “la cariotipizzazione mediante prelievo di villi coriali o amniocentesi è l’indagine che, con certezza, consente di diagnosticare un feto affetto da sindrome di Down. Gli accertamenti ecografici e/o sierologici forniscono invece una stima del rischio. La cariotipizzazione e pertanto considerata l’indagine gold standard” (pag. 121): come se ne dedurrebbe “la necessità di ridurre la diagnostica invasiva” intuita dal Negrotti? Mistero. Tanto più che poche pagine dopo si legge che “il percorso per la diagnosi prenatale della sindrome di Down deve essere offerto a tutte le donne entro 13+6 settimane” (pag. 125); e una dozzina di pagine prima che “l’individuazione in una fase precoce della gravidanza di anomalie fetali consente alla donna di prepararsi psicologicamente alla nascita del bambino, di organizzare il parto in una struttura con rapido accesso nel periodo neonatale a prestazioni specialistiche o a cure palliative, di eseguire eventuali terapie intrauterine o di riflettere sulla decisione di interrompere la gravidanza” (pag. 111).
Interrompere la gravidanza non è esclusa dalle finalità dello screening diagnostico ed è messa fra “le decisioni che devono essere prese dalla donna” (pag. 111), sicché si raccomanda di evitare di “ritardare la diagnosi di anomalie fetali e di conseguenza non concedere alla donna l’opportunità di valutare le diverse opzioni” (pag. 118), “in modo che possa compiere una scelta riproduttiva consapevole (proseguire o meno la gravidanza)” (pag. 120). Dettagli che non sfuggono al Negrotti che infatti dà voce a un genetista dell’Università Cattolica e a un ginecologo del Policlinico «Gemelli» che da copione stigmatizzano la libertà di scelta della gravida. Il fatto è che la Linea Guida 20 avverte in apertura che le linee guida sono solo “raccomandazioni di comportamento” e che “possono [non debbono] essere utilizzate come strumento per…” (avantesto, I), e dunque non dispongono, ma propongono: i medici cattolici, volendo, potranno sconsigliare ogni diagnostica, anche tutte. Il Negrotti, invece, tende a mostrarsi ansioso come avesse sotto gli occhi vere e proprie vessazioni.
Non è tutto. L’articolo del Negrotti ha per titolo un proditorio “In gravidanza meno esami…”, che non corrisponde alla sostanza della Linea Guida 20, “… e più lavoro alle ostetriche”, che vi corrisponde ancor meno. In realtà, si raccomanda di razionalizzare gli esami diagnostici per classe di rischio e ci si limita a suggerire, come “raccomandazione alla ricerca”, di effettuare “studi clinici controllati per valutare l’efficacia dell’assistenza alla gravidanza fisiologica fornita da figure professionali diverse”.
E il lavoro del Negrotti è quello di informare.

domenica 19 dicembre 2010

Socialisti pre-craxiani e post-


“Non trovavo un posto dove Eluana potesse andare in pace – racconta Beppino Englaro – poi il mio Friuli mi ha dato una mano: i vecchi socialisti, Gabriele Renzulli, il senatore Ferruccio Saro, si sono prodigati” (Micromega, 2/2009). Si saranno prodigati perché ritenevano giusto che fosse rispettata la volontà di Eluana Englaro? In questo caso potremmo dire che ci sono ancora in giro dei socialisti pre-craxiani – calma, calma, mi spiego subito – di quelli come Loris Fortuna, laici, libertari, anticoncordatari.
Sui socialisti non si dovrà mai smettere di dire che Pietro Nenni votò contro l’art. 7 della Costituzione (Palmiro Togliatti a favore) e che Bettino Craxi firmò un Concordato di poco diverso da quello che firmò Benito Mussolini: voglio dire che, prima di Gennaro Acquaviva, di Luigi Covatta e soprattutto di Gianni Baget Bozzo, il Psi non era viziato ancora da quel pragmatismo che poi lo rese così sensibile ai bisogni del Vaticano, in primo luogo a quelli di natura economica. In campo laico – per ciò che “laico” può significare in questo caso – non è Giuliano Amato il primo a rimettere in discussione la legge 194? Il testo base era stato scritto da un socialista, Vincenzo Balzamo. E dunque, tornando a noi, Saro e Renzulli sono gli ultimi socialisti di un socialismo – adesso mi auguro sia chiaro cosa intenda dire – pre-craxiano?
Sul senatore Ferruccio Saro prenderemo informazioni, ma intanto possiamo dire di Gabriele Renzulli, d’intanto diventato direttore del Centro «La Quiete», proprio quello che ospitò Eluana Englaro perché fosse fatta infine la sua volontà. Lo leggiamo in un articolo (Avvenire, 19.12.2010 – pag. 7) che riporta quanto auspicato dall’arcivescovo di Udine, monsignor Andrea Bruno Mazzocato, al termine della Messa di Natale celebrata nella casa di cura diretta dal Renzulli: “Mi auguro che certi momenti drammatici d’ora in poi vengano risparmiati a Udine”, subitissimamente tranquillizzato dal Renzulli: “Questo è un luogo di fede, di speranza, di vita, dal primo all’ultimo istante”.
Si pone una delicata questione: in virtù di quale principio il Renzulli si era prodigato nel caso Englaro? Quello del favore personale dovuto a un compagno. E noi che pensavamo fosse un pre-craxiano.

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“Dateci più di quanto ci dà Berlusconi e ve lo togliamo dai coglioni”

Ieri, Avvenire apriva con un editoriale a firma di Francesco D’Agostino (La riscoperta dell’etica) che sembrava una risposta all’editoriale a firma di Paolo Flores d’Arcais che aveva aperto Il Fatto Quotidiano di due giorni prima (Se Bagnasco fa politica). Quanto scrive D’Agostino merita una attenta lettura perché, con l’appoggio che Cei e Segreteria di Stato Vaticano hanno di recente dato al governo, fa valva della stessa cozza; e al primo colpo d’occhio va rilevato che la valva politica è toccata a un cardinale, quella dottrinaria tocca a un laico.
È Angelo Bagnasco, infatti, ad aver sottolineato l’esigenza di continuità e stabilità nella difficile crisi di sistema che fa dell’Italia un malato terminale, e l’ha fatto con un pressing neanche troppo nascosto su Casini perché l’Udc dia a Berlusconi i numeri necessari per durare, con ciò assestando un micidiale colpo a quei cattolici che dal centrosinistra implorano da sempre un intervento delle gerarchie ecclesiastiche contro il “corruttore morale della società e della politica” (Rosy Bindi – Ballarò, 14.12.2010); tocca a D’Agostino, invece, spiegare a Flores d’Arcais perché “il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano [sia stato] così santificato dal presidente della Conferenza episcopale”, e facendo ricorso alla dottrina.
Sembra strano? Non lo è. Da tempo le gerarchie ecclesiastiche sono attori politici e hanno delegato ai loro laici di fiducia la parte più seccante e fastidiosa della politica, che è quella di trovare argomenti alti a comportamenti bassi. Tocca a Fisichella coprire Berlusconi quando bestemmia e s’accosta all’eucaristia da divorziato, a Bertone premere su Casini, a Bagnasco mandare a cagare i cattolici del Pd, mentre il Papa ricorda che i laicisti sono pericolosi come i fondamentalisti islamici e che levare i crocifissi dai luoghi pubblici è come sgozzare cristiani a Mossul; tocca a D’Agostino, invece, spremere bignamini di Catechismo e Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa per dimostrarci che l’etica pubblica è cosa diversa dal moralismo che pretenderebbe di farsi ragione cristiana contro il peccatore pubblico.

Flores d’Arcais aveva scritto: “In uno dei passi più noti del Vangelo (Lc 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo «voi non potete servire Dio e Mammona», e in Italia non c’è nessuno che – con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati – abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà”.
Proprio perché “crede profondamente nell’esistenza e soprattutto nella necessità dell’etica pubblica” D’Agostino sente “il dovere di dissociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’adeguata consapevolezza teoretica”, e indubbiamente Flores d’Arcais ha degradato la faccenda a mera questione di prassi. Non sia mai: “L’etica pubblica, infatti, è esigente. […] Chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale”.

Un vescovo di quelli ipertiroidei sarebbe stato assai più “politico” e avrebbe evitato ghirigori. Ma D’Agostino è più chierico di un chierico e non si abbassa al “disse la vacca al mulo”: chiede coerenza in forma di contropartita, sicché la sola presa di posizione contro il “corruttore morale della società e della politica” parrebbe compatibile solo in una dimensione da Stato etico. Non che a D’Agostino dispiacerebbe, figurarsi, ma piacerebbe a Flores d’Arcais?
Si tratterebbe di rivedere il confine tra morale e diritto, tra pubblico e privato, anzi, “si tratt[erebbe] di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo «pubblico». La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma «il potere», per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è «pubblico» a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione «etica pubblica» resterà vuota di senso”.
Un prete – un vero prete – non avrebbe potuto dirlo meglio, anzi, probabilmente sarebbe caduto in qualche grossolana volgarità del tipo: “Avete voluto Machiavelli? E adesso pedalate: dateci più di quanto ci dà Berlusconi – fateci essere arbitri del pubblico e del privato – e ve lo togliamo dai coglioni”.


Postilla Luca Massaro mi segnala un articolo a firma di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 19.12.2010) del quale è utile riportare qui un passaggio: “Il primato della tattica del ventennio ruiniano della Cei ha ridotto l’educazione al confronto che aveva formato vescovi e laici perfino durante la guerra e ha trasferito sui movimenti il compito di rappresentare differenze di posizione e di appetiti: in compenso ha creato un reticolo di interessi fra esecutivo e istituzioni ecclesiastiche che ha alterato la linea scritta nel Concordato del 1984. […] Questo reticolo e la leggendaria abilità di Berlusconi nel creare bisogni nelle controparti l’ha fatto preferire agli altri e lo rende preferibile a «la chiesa» oggi che il governo potrebbe pretendere di attivare la legge elettorale per costruire la protesi parlamentare di cui ha bisogno. Dopo aver tenuta ferma la rotta sulla stella del Quirinale per molti mesi, «la chiesa» si ritrova così parte di una maggioranza che ricresce e dovendo pagare da subito un conto salato su quei terreni — le coscienze, l’annuncio, le anime, le esistenze, la verità — che sono la sua ragion d’essere. Qualche avvisaglia la si ha per ora nelle chiacchiere. Una figura di spicco dell’economia, poche settimane fa, diceva a un prelato italiano con inaspettata veemenza: «Io sono un laico e come tale sto sempre vicino alla Chiesa. Ma voi non vi vergognate dell’appoggio che date a Berlusconi?». E una feroce battuta di Francesco Cossiga (che pochi mesi prima di morire a un amico parlamentare dilaniato dai dubbi posti dal magistero sull’embrione diceva «e tu proponi di portare l’ 8 per mille a 8 e mezzo, e tutto s’aggiusta» ) dice quale sia il rischio che corre la Chiesa in questa situazione di stabile confusione. Rischi significativi di un disequilibrio al quale nessuno sembra poter o voler metter mano”.