Ieri, Avvenire apriva con un editoriale a firma di Francesco D’Agostino (La riscoperta dell’etica) che sembrava una risposta all’editoriale a firma di Paolo Flores d’Arcais che aveva aperto Il Fatto Quotidiano di due giorni prima (Se Bagnasco fa politica). Quanto scrive D’Agostino merita una attenta lettura perché, con l’appoggio che Cei e Segreteria di Stato Vaticano hanno di recente dato al governo, fa valva della stessa cozza; e al primo colpo d’occhio va rilevato che la valva politica è toccata a un cardinale, quella dottrinaria tocca a un laico. È Angelo Bagnasco, infatti, ad aver sottolineato l’esigenza di continuità e stabilità nella difficile crisi di sistema che fa dell’Italia un malato terminale, e l’ha fatto con un pressing neanche troppo nascosto su Casini perché l’Udc dia a Berlusconi i numeri necessari per durare, con ciò assestando un micidiale colpo a quei cattolici che dal centrosinistra implorano da sempre un intervento delle gerarchie ecclesiastiche contro il “corruttore morale della società e della politica” (Rosy Bindi – Ballarò, 14.12.2010); tocca a D’Agostino, invece, spiegare a Flores d’Arcais perché “il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano [sia stato] così santificato dal presidente della Conferenza episcopale”, e facendo ricorso alla dottrina.
Sembra strano? Non lo è. Da tempo le gerarchie ecclesiastiche sono attori politici e hanno delegato ai loro laici di fiducia la parte più seccante e fastidiosa della politica, che è quella di trovare argomenti alti a comportamenti bassi. Tocca a Fisichella coprire Berlusconi quando bestemmia e s’accosta all’eucaristia da divorziato, a Bertone premere su Casini, a Bagnasco mandare a cagare i cattolici del Pd, mentre il Papa ricorda che i laicisti sono pericolosi come i fondamentalisti islamici e che levare i crocifissi dai luoghi pubblici è come sgozzare cristiani a Mossul; tocca a D’Agostino, invece, spremere bignamini di Catechismo e Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa per dimostrarci che l’etica pubblica è cosa diversa dal moralismo che pretenderebbe di farsi ragione cristiana contro il peccatore pubblico.
Flores d’Arcais aveva scritto: “In uno dei passi più noti del Vangelo (Lc 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo «voi non potete servire Dio e Mammona», e in Italia non c’è nessuno che – con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati – abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà”.
Proprio perché “crede profondamente nell’esistenza e soprattutto nella necessità dell’etica pubblica” D’Agostino sente “il dovere di dissociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’adeguata consapevolezza teoretica”, e indubbiamente Flores d’Arcais ha degradato la faccenda a mera questione di prassi. Non sia mai: “L’etica pubblica, infatti, è esigente. […] Chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale”.
Un vescovo di quelli ipertiroidei sarebbe stato assai più “politico” e avrebbe evitato ghirigori. Ma D’Agostino è più chierico di un chierico e non si abbassa al “disse la vacca al mulo”: chiede coerenza in forma di contropartita, sicché la sola presa di posizione contro il “corruttore morale della società e della politica” parrebbe compatibile solo in una dimensione da Stato etico. Non che a D’Agostino dispiacerebbe, figurarsi, ma piacerebbe a Flores d’Arcais?
Si tratterebbe di rivedere il confine tra morale e diritto, tra pubblico e privato, anzi, “si tratt[erebbe] di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo «pubblico». La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma «il potere», per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è «pubblico» a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione «etica pubblica» resterà vuota di senso”.
Un prete – un vero prete – non avrebbe potuto dirlo meglio, anzi, probabilmente sarebbe caduto in qualche grossolana volgarità del tipo: “Avete voluto Machiavelli? E adesso pedalate: dateci più di quanto ci dà Berlusconi – fateci essere arbitri del pubblico e del privato – e ve lo togliamo dai coglioni”.
Postilla Luca Massaro mi segnala un articolo a firma di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 19.12.2010) del quale è utile riportare qui un passaggio: “Il primato della tattica del ventennio ruiniano della Cei ha ridotto l’educazione al confronto che aveva formato vescovi e laici perfino durante la guerra e ha trasferito sui movimenti il compito di rappresentare differenze di posizione e di appetiti: in compenso ha creato un reticolo di interessi fra esecutivo e istituzioni ecclesiastiche che ha alterato la linea scritta nel Concordato del 1984. […] Questo reticolo e la leggendaria abilità di Berlusconi nel creare bisogni nelle controparti l’ha fatto preferire agli altri e lo rende preferibile a «la chiesa» oggi che il governo potrebbe pretendere di attivare la legge elettorale per costruire la protesi parlamentare di cui ha bisogno. Dopo aver tenuta ferma la rotta sulla stella del Quirinale per molti mesi, «la chiesa» si ritrova così parte di una maggioranza che ricresce e dovendo pagare da subito un conto salato su quei terreni — le coscienze, l’annuncio, le anime, le esistenze, la verità — che sono la sua ragion d’essere. Qualche avvisaglia la si ha per ora nelle chiacchiere. Una figura di spicco dell’economia, poche settimane fa, diceva a un prelato italiano con inaspettata veemenza: «Io sono un laico e come tale sto sempre vicino alla Chiesa. Ma voi non vi vergognate dell’appoggio che date a Berlusconi?». E una feroce battuta di Francesco Cossiga (che pochi mesi prima di morire a un amico parlamentare dilaniato dai dubbi posti dal magistero sull’embrione diceva «e tu proponi di portare l’ 8 per mille a 8 e mezzo, e tutto s’aggiusta» ) dice quale sia il rischio che corre la Chiesa in questa situazione di stabile confusione. Rischi significativi di un disequilibrio al quale nessuno sembra poter o voler metter mano”.