martedì 8 febbraio 2011

Marco Pannella: “Tratto con Silvio, ma non mi vendo”.



E tu trovami una sola escort passata per Arcore che parlerebbe di vendita.

Pippo, che cazzo fai?


Giuseppe Civati, detto Pippo, scrive: “Cesare Bossetti, consigliere della Lega di Varese e di Radio Padania (eletto senza preferenze nel famigerato listino di Formigoni), durante il minuto di silenzio per i quattro bambini rom morti a Roma (richiesto dal Pd e concesso dal presidente Davide Boni, leghista anche lui), non si è alzato in piedi”. Levato il di più: “Cesare Bossetti non si è alzato in piedi”.
Ora, sì, questo è molto brutto, ma penso non sia molto più bello richiamare attenzione sulla cosa con l’invito al biasimo, tanto più se sollecitato in modo un pochetto viscido: “Non ho niente da aggiungere, né da commentare”. Brutto anche questo, mi sa tanto di giudizio sommario con condanna alla gogna per indegnità morale.
Giudizio sommario perché il di più che ho levato alla frase tende a dare per certo che Cesare Bossetti non si sia alzato in piedi per significare strafottenza per le vittime, forse addirittura spregio, ovviamente su base razziale. Roba tipicamente leghista, che però non impedisce ad altri leghisti di alzarsi in piedi quando c’è il rituale minuto di silenzio in ossequio a vittime rom, e così è stato a Varese.
C’è da ritenere che il restare seduto possa in certi casi essere addirittura ostentato, con chiaro intento provocatorio, sicuramente offensivo, e così Pippo vuol darci per certo. Può darsi lo sia, ma Pippo non ci porta prove, e così cade in infortunio ideologico: lo stesso in cui cadde il Giornale quando pizzicò Alfonso Pecoraro Scanio in flagranza di risata ai funerali per i soldati morti a Nassiriya. Da antimilitarista – così lavorava la logica  la sua risata era un palese oltraggio ai nostri martiri. Può darsi lo fosse? Non lo sapremo mai, fatto sta che Alfonso Pecoraro Scanio smentì ogni intento offensivo, senza sentirsi in dovere di smentire il suo antimilitarismo.
Cosa consente a Pippo di essere sicuro che Cesare Bossetti non abbia modo di smentire un intento offensivo nel suo restare seduto? Non sappiamo, ma Pippo ci chiede di biasimarlo sulla fiducia. Poi, domani, Cesare Bossetti ci presenta un certificato medico (trocanterite bilaterale) e siamo costretti a sentirci più fessi di un lettore de il Giornale.

lunedì 7 febbraio 2011

Ipso facto



Era il 4 febbraio 1999 e il cardinale Joseph Ratzinger rivelava a la Repubblica di essere iscritto ad una associazione di donatori di organi. È di 48 ore fa, invece, la seguente dichiarazione del suo segretario personale, monsignor Georg Gaenswein: “Se è vero che il Papa possiede una carta di donazione di organi, è vero anche, contrariamente ad alcune affermazioni pubbliche, che con lelezione a capo della Chiesa Cattolica, ipso facto essa è diventata obsoleta”. Con tutta la buona volontà non si capisce donde lipso facto: non dal Catechismo, non dal Codice di Diritto Canonico. Verrebbe così da chiedersi in base a quale effetto lelezione al Soglio Pontificio costituisca impedimento alla donazione di organi da parte di chi da cardinale ne aveva la facoltà e ne dichiarava la volontà. Diventando papa, acquista potestà suprema, piena, immediata e universale su tutta la Chiesa e ipso facto perde diritto a un “atto spontaneo”


Ci manca pochissimo




“Capirci un cazzo a volte è un’arte”



Magistrale.

Fuffultare


Nichi Vendola rende noto il testo della lettera inviata a Sandra Bonfanti di Libertà e Giustizia in sostegno alle ragioni dei palasharpisti, e la lettera attacca così: “C’è bisogno di un sussulto…”, che si scrive “sussulto”, ma che qui non si può leggere altrimenti che “fuffulto”. Con quella sua invidiabile capacità di trovare otto sinonimi per ogni termine, per spararli in sequenza senza risparmiarcene mai uno (meglio di lui solo certi sommelier davanti a un rosso e Philippe Daverio davanti a una pala di scuola lombarda), Nichi Vendola non riesce a trovarne uno meno imbarazzante di “fuffulto” per significare il moto di indignazione che dovrebbe sollevare il paese. Come fu per Ignazio La Russa, quando prese a imitare l’imitazione che ne faceva Fiorello e per qualche tempo fece abuso di molti “digiamolo”, oggi ci tocca sorbirci l’imitazione dell’imitazione di Checco Zalone. Tutto per estorcerci un sorriso di tenerezza.


la Repubblica



Enrico Maria Porro s’è posto il meritorio intento di far chiarezza su una questione di una certa delicatezza: se citando il quotidiano di Largo Fochetti sia corretto scrivere “Repubblica” o “La Repubblica”. In realtà, per questa seconda opzione, dovrebbe valere la versione dell’articolo con la minuscola (“la Repubblica”), com’è in testata, ma pare questo sia un problema ormai superato, perché più fonti – anche molto autorevoli – accreditano la prima opzione: “Repubblica”, senza l’articolo.
Non c’è che da prenderne atto, ma così diventa indispensabile inoltrare alla proprietà del giornale la richiesta di cambiare la testata, perché fino a quando lì c’è scritto “la Repubblica” ogni altra versione è quanto meno arbitraria. Possibile, per carità, ma arbitraria. E impropria.


Salvo a sostituire il merito col privilegio


Nutro due riserve verso chi ritiene che il liberalismo sia cosa preminentemente economica spendendosi quasi sempre esclusivamente contro ciò che mortifica la proprietà privata e la libertà d’impresa.
La prima. Certo, la proprietà privata è un’estensione dell’individuo e la libertà d’impresa è una declinazione del suo diritto di autodeterminazione responsabile, ma come si può lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente? Come si può lottare contro l’asfissiante burocrazia statalista senza spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, che è sempre il portato di una pretesa autoritaria in campo morale? Possibile – mi chiedo – che questi cantori della libertà economica non ne vedano i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà? E come possono aver fisso l’occhio al grafico della pressione fiscale in Italia, senza alcuna apparente preoccupazione per la pressione che lo stato fa sul corpo e sulla mente degli individui? Ma davvero pensano – mi chiedo – che basti dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili?
Per la seconda perplessità mi servirò di un esempio. Leggo Alberto Mingardi su Il Sole-24 Ore: “Se davvero il nostro ceto politico è convinto che sia possibile mettere in cantiere, oggi, una serie di riforme per riavviare la crescita, sarebbe bene alternare unire terapie shock e omeopatia, grandi svolte e piccoli passi. L’esperienza degli ultimi quindici anni ci insegna che in Italia le grandi riforme deragliano perché troppo ambiziose: è difficile costruire consenso politico, senza avvitarsi in compromessi che le snaturano. Al contrario, le piccole riforme inciampano sui veti dei gruppi d’interesse. Se mai la politica dimostrasse di saper dribblare le pressioni corporative, allora forse si potrebbe tornare a prenderla sul serio, anche quando progetta cambiamenti epocali”.
Costui è un liberale, dicono, e qui parla al ceto politico. Questo ceto politico. Quello che ha salvato Alitalia coi soldi dei contribuenti perché alla patria non mancasse una compagnia aerea di bandiera: nessun vantaggio sul biglietto, anzi, però un sacco di orgoglio per aver fottuto i francesi, che peraltro adesso di Alitalia hanno il maggior pacchetto. Mingardi parla al ceto politico che da 17 anni promette la rivoluzione liberale, un drastico abbattimento fiscale, liberalizzazioni di qua e là, privatizzazioni di sopra e di sotto, senza però mai riuscire a fare un cazzo di un cazzo, tranne che leggi illiberali e liberticide, favori ai preti, caccia agli zingari e chiacchiere nei talk show – e a questo ceto politico Mingardi consiglia “grandi svolte e piccoli passi”. I taxi, per esempio, ma qui è necessaria ampia citazione.

“Parlando di una «frustata» per l’economia italiana – dice Mingardi – il premier ha fatto riferimento all’esperienza da ministro dell'industria dell’attuale leader del Pd. Com’è noto, il Bersani ministro dell’industria non riuscì invece a porre mano ad un ampliamento dell’offerta di taxi, e venne anzi travolto dalla categoria e da un manipolo di politici che se ne assunsero la rappresentanza, primo fra tutti l’attuale sindaco di Roma, Alemanno. Proprio una delibera dell’Assemblea capitolina (il nuovo, altisonante nome del Consiglio comunale di Roma) è stata segnalata la scorsa settimana dall’Antitrust in quanto «volta esclusivamente a mantenere rendite di posizione». Infatti, essa, per attuare la riforma del sistema tariffario avviata con un regolamento comunale del luglio scorso, individua tra i criteri di valutazione della congruità degli aumenti tariffari «il rapporto domanda e offerta a seguito dell’ampliamento dell’organico con rilascio di nuove licenze». L’Assemblea capitolina, erede spirituale dell’antico Senato romano – ironizza Mingardi – con piglio imperiale riscrive le leggi dell’economia: se aumenta l’offerta, che i prezzi aumentino, anziché diminuire. Visto che parliamo di prezzi determinati dalla politica e non dalla negoziazione fra parti, è chiaro che l’idea è quella di ratificare uno «scambio» con la categoria dei tassinari, vincolando l’aumento delle auto bianche circolanti alla «compensazione» dell’aumento tariffario. Si assume che a una maggiore concorrenza debbano per forza corrispondere inferiori ricavi per tassista, ignorando la possibilità che un’offerta più abbondante contribuisca a irrobustire la domanda. Ma non sono i minori ricavi ciò che andrebbe compensato. Il grande argomento della categoria contro la liberalizzazione è la diminuzione di valore della licenza, di norma acquistata a caro prezzo e considerata in prospettiva una sorta di «liquidazione». Soprattutto per coloro che ne hanno acquisita una di recente, l’argomento è sensato. Se questo è il problema, però, meglio sarebbe tornare a una proposta che come Istituto Bruno Leoni avevamo avanzato alcuni anni fa (riprendendo un’idea di Franco Romani): ampliare l’offerta regalando una licenza, liberamente alienabile, a chi già ne avesse una. In questo modo, ai tassisti sarebbe stata lasciata virtualmente la possibilità di controllare l’offerta (la corporazione potrebbe «bloccare» l’aumento della concorrenza, se tutti compattamente si tenessero la seconda licenza in cassaforte), ma probabilmente un beneficio immediato (la vendita della seconda licenza, o il suo utilizzo da parte di un familiare) verrebbe preferito a uno lontano nel tempo e comunque incerto (la tenuta del valore della prima licenza). È agli atti una proposta dell’allora presidente della commissione Attività Produttive della Camera, Daniele Capezzone, per rendere possibile questo «scambio». Perché non si fece nulla? Probabilmente perché la proposta implicava la rinuncia dei Comuni a qualsiasi guadagno potenziale per le nuove licenze emesse. Decida il lettore se sono più dannosi i veti delle corporazioni, o l’avidità delle amministrazioni”.

Ok, è più dannosa l’avidità delle amministrazioni, Mingardi ci ha convinto. Ma in questo caso parliamo del Comune di Roma e di Gianni Alemanno, uomo di spicco del “partito liberale di massa”. Ci sarebbe agli atti la proposta fatta da un altro liberale alla Mingardi, l’ineffabile Capezzone. “Perché non si fece nulla?”, chiede Mingardi, ma perché non lo chiede a Capezzone?
Per quella presidenza della commissione Attività Produttive della Camera, per dare slancio ai 13 cantieri liberisti del suo network (si chiamava decidere.net, andate a guardare cosa è diventato il sito), Capezzone mise da parte le sue battaglie in favore delle libertà civili e si risolse a credere che si possa lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente. Si risolse a ritenere prioritaria la lotta contro l’asfissiante burocrazia statalista, ritenendo secondario, forse addirittura superfluo, spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, e per farlo fu costretto a chiudere un occhio sulla pretesa autoritaria del blocco sociale che gli offriva questa chance. Divenne cantore della libertà economica recidendo i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà. E propose una tassa piatta al 20%, senza più alcuna apparente preoccupazione per la pressione che intanto lo stato continuava a esercitare sempre più sul corpo e sulla mente dei suoi cittadini. Pensò che bastasse dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili, e non ebbe né l’una né l’altra cosa. “Perché non si fece nulla?”. Semplice: non era possibile, e continua a non esserlo. Separare la libertà economica dalle altre libertà è impossibile, salvo a sostituire il merito col privilegio. Anche così, però, non è detto: “grandi svolte e piccoli passi” possono rimanere agli atti. A scorno di ogni liberale che si limita a essere liberista.

Saprete com’è andata al Palasharp, suppongo


Saprete com’è andata al Palasharp, suppongo. Un bel po’ di bella gente – detto senza ironia – s’è data appuntamento per manifestare disagio.
Avevano argomenti a profusione: il presidente del consiglio è accusato di due reati (concussione e prostituzione minorile) e rifiuta di darne conto; mente palesemente e fidelizza sulla menzogna, senza alcun rispetto per la carica che riveste; aizza i suoi supporter contro i giudici; mette a rischio la sicurezza dello stato e la faccia del paese in sede internazionale; e mi pare possano bastare, ma qual è l’argomento che riscuote più applausi al Palasharp? Berlusconi è un vecchio porco, anche parecchio cafone.
Ditemi voi se un argomento del genere può scalfire un blocco sociale come quello che Berlusconi è riuscito a compattare e a modellare sulla sua follia. Della mostruosità antidemocratica e illiberale cui Berlusconi ha dato il volto, della catastrofe senza fondo nella quale ci ha precipitato, il Palasharp che vede? Il mucchio di puttane in quell’angoletto del delirio collettivo.

Mica solo bigottoni cattocomunisti, a Milano, c’erano pure fior fior di laici e ce ne fosse stato solo uno a dire forte e chiaro che tra adulti consenzienti si scopa come meglio pare. Diceva bene Stefano, che mi sono affrettato a sottoscrivere: “Pur di liberarci di Berlusconi, questi sono tornati a elogiare modelli di virtù ottocenteschi e a prendere a esempio i vecchi democristiani”.
E tuttavia Gians chiedeva: “Ma non si potrebbe fare che ognuno onora le manifestazioni sue evitando di schifare quelle altrui?”. Sì, ma il moralismo mai, sennò Berlusconi può trovare consenso anche dove non potrebbe mai sperare di trovarlo. Una prova? Basta leggere quanto torni facile a Giuliano Ferrara far leva sull’argomento moralistico per dipingerci l’Amor suo come vittima.

“«Niente per noi, tutto per tutti»: uno slogan riferito al trionfo liberale dello stato di diritto e della cittadinanza costituzionale, ma nella bocca di questi bardi delle intercettazioni e della magistratura militante, e in associazione con il cattolicesimo reazionario e sessuofobico di uno Scalfaro, un passaparola ideologicamente totalitario. No, miei cari: vogliamo qualcosa per noi e per gli altri, non abbiamo orrore dello scambio e del denaro, ci fa senso il vostro disgusto per la bigiotteria galante di Arcore, e ciò che è «tutto per tutti» sa di stato totalitario, sa di regime della virtù, sa di marcio” (Il Foglio, 7.2.2011).
Si tratta dell’ateo devoto che fino a ieri voleva che tutti vivessimo veluti si Deus daretur, ma oggi, se appena ci si distrae un po’, non risulta credibilissimo come libertario? Grazie al Palasharp, le orribili farfalline d’oro date in souvenir alle escort di passaggio per la corte del sultano rivendicano una loro dignità. Si riesce a far scivolare anche il principio che comprarsi una puttana, un Moffa o uno Scilipoti non fa differenza. Grazie al Palasharp.
Si dirà: vabbe’, ma uno mica si fa prendere per il culo da Ferrara? Io no, d’accordo, e forse neppure voi, ok, ma chi non ha gusti tanto raffinati da schifare le farfalline d’oro?


Pensate alle seghe


Sua Eccellenza non avrebbe mai il coraggio di affermare che il codice penale di uno stato laico dovrebbe recepire il magistero morale della Chiesa, però prova a rifilarcelo come non plus ultra: “Passa di qui la differenza tra reato e peccato. Il primo è un male «fuori», legato alla configurazione e prescrizione giuridica di esso a opera dello Stato e alla possibilità di questo di rilevarlo e denunciarlo. Il secondo è il male morale, la contraddizione di un valore umano, legato alla bontà e all’onestà della persona, che quella contraddizione inficia e svilisce. Con la differenza che il reato spinge alla rimozione, il peccato muove alla conversione. È solo a condizione di riconoscere il male compiuto e di attribuirselo come male, che scatta il pentimento e il proposito di superarlo. È ciò che fa la coscienza del peccato. Questa si fa giudicare dal bene conculcato e, da ultimo, dal Sommo Bene, ne assume le responsabilità e attiva un cammino di riconciliazione e di superamento. Diversamente il male si ripete, indifferentemente: finendo con l’aggiogare, dentro, le coscienze e, fuori, la società e le istituzioni. E invece assistiamo oggi a una rimozione culturale del peccato. Il peccato non è una categoria primariamente religiosa ma etica. Non esiste un’etica senza peccato, per la quale il bene e il male si equivalgono. Il peccato è il male morale, la negazione di fatto di un bene della persona; che nessuna dissimulazione può cancellare, ma solo la volontà di pentimento, di conversione e riconciliazione che la sua coscienza e confessione attivano. È per questo che la perdita di senso del peccato non rappresenta un fatto evolutivo, ma involutivo delle persone e della società” (Avvenire, 6.2.2011).

Pensate alle seghe: sono peccato, ma non reato. E gli uomini continuano a spararsele. Rimuovendo, invece di convertirsi, e perché? Perché la legge non le sanziona. E la società involve.
Certo, non possiamo mettere in galera chi si spara le seghe, ma guardate in quali condizioni sono le istituzioni.

domenica 6 febbraio 2011

La comunque


Posso fare a meno di scriverne, sottoscrivo Cadavrexquis.
 
 

Povero Ferrara



Il povero Giuliano Ferrara andava sgolandosi da mesi. Già all’indomani del caso Noemi non vedeva altra via d’uscita: “O accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni” (Il Foglio, 18.6.2009). Ma Silvio Berlusconi pareva non volerne sapere e si arroccava in difesa. Da prenderlo a schiaffoni: “Avevo suggerito che non si può vivere un permanente 24 luglio. Un capo di governo intelligente deve sapere voltare pagina, mettersi sopra la mischia” (Il Foglio, 31.8.2009). Macché. Partito e governo, giornali e tv, tutti precettati a parargli il culo. E il povero Ferrara si disperava: “Semplicemente gli si chiede di riprendere in mano le sue idee sulla crescita, esposte nel discorso di apertura della legislatura e in mille altre occasioni, e di rilanciarle nella forma di decisioni e atti di riforma che incidano sul fisco, sulla concorrenza e sulla competitività […] Gli si chiede di varare una seria e profonda riforma della giustizia, […] di provvedere con lungimiranza al deficit energetico, […] di integrare le giuste misure di contrasto dell’immigrazione clandestina selvaggia […] Gli si chiede di occuparsi della cultura, dell’istruzione, della salute […] Gli si chiede di andare in Parlamento spesso, di dare il senso di una qualche considerazione istituzionale alla classe dirigente eletta, e di cambiare completamente registro con la stampa […] In televisione meglio andarci di rado” (Il Foglio, 28.9.2009).
Peggio che parlare a un sordo, per giunta chiuso dentro a un bunker: lodo Alfano, legittimo impedimento, processo breve, no alle intercettazioni, l’agenda di governo era inchiodata, il parlamento come non esistesse. Una tortura: “Da mesi ci sono due Berlusconi. Uno che riesce a imporre il suo passo: fa la politica estera, affronta le emergenze. L’altro è sempre sotto assedio mediatico: vita privata, scandali e indagini anche le più fumose, duelli rusticani nel partito di maggioranza, propalazioni sui programmi del governo, uscite individualiste, rivalità, voci sulle nomine che contano, fatterelli vari che creano imbarazzo […] Se Berlusconi non si dà una vera spinta per le riforme, se non decide di intaccare qualche stallo e non fa alcune scelte vere, che costano qualche forzatura ma alla fine rimettono in moto non solo l’immagine ma il ruolo, la funzione politica del leader, il rischio di una lunga degenerazione cortigiana della sua leadership può diventare il nostro penoso e surreale teatrino quotidiano” (Il Foglio, 22.2.2010). E ancora doveva consumarsi la rottura con Fini.
Anche lì il povero Ferrara fu costretto a sgolarsi invano: “Fini rivendica rispetto, uno spazio vitale, non essere umiliato e marginalizzato platealmente, vuole ossigeno per continuare a crescere sulla propria strada, costruendo il profilo di una conversione repubblicana che, tutto considerato, gli fa onore e fa onore al Cav. che l’ha resa possibile, al pari della conversione governativa e costituzionale della Lega di Bossi e Maroni. E allora, se chiede questo e non altro, che senso ha fargli la faccia feroce, caro Cavaliere?” (Il Foglio, 19.4.2010). Macché. “Che fai, mi cacci?”. E quello lo caccia sul serio. Povero Ferrara, disperato: “Che facciamo, presidente? Passiamo i prossimi tre anni a sparlare di Bocchino e a straparlare di Fini, a litigare, a guardarci in cagnesco? […] Anche la solitudine può far danni seri, e al Cav. capita da qualche tempo, ma sempre più spesso, di rimanere isolato, estraneo a sé stesso perché estraniato da gente che gli parli in modo non professionale, con un minimo di decente distanza, in perfetta autonomia, in privato”, pazzo o mal consigliato, ma basta: “Berlusconi deve restituirci se stesso per come lo abbiamo conosciuto” (Il Foglio, 3.5.2010). Rewind, play: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, ecc. Ci hanno creduto una volta, ci hanno creduto ancora, perché non potrebbero ricrederci?
Macché. Scajola, Cosentino, Bertolaso. Poi D’Addario e Spatuzza. Casini? Manco per niente. Come non detto: Berlusconi ancora a pararsi il culo, Ferrara ancora a lamentarsi, metà incazzato (“Mi spiace, presidente, ma questo atteggiamento imprenditoriale ed egotistico in politica è un difetto”Il Foglio, 12.7.2010), metà rassegnato (“Berlusconi ha giocato sé stesso nell’avventura, e quando si difende con le unghie e con i denti, fa semplicemente politica, la fa nel modo legittimato dal ruolo che ha interpretato nella storia italiana, dal consenso che riceve, e dalla giusta, sacrosanta resistenza alla trasformazione di questo paese in una caserma o in una dépendance delle procure della Repubblica. Gli affari dell’establishment – insider trading compreso – sono affari di famiglia. Gli affari del signor Berlusconi sono gli affari della nazione. Punto e basta”Il Foglio, 6.9.2010).
Ma il governo appare sempre più isolato, Berlusconi pare sempre più alle corde e il povero Ferrara torna alla carica: “Vendere e liberalizzare, autorizzare, creare condizioni di business, far circolare i capitali privati, agganciarli a una strategia della ripresa” (Il Foglio, 18.10.2010). Niente, Berlusconi è sordo, e scoppia il caso Ruby.
Tutto sembra appeso al 14 dicembre, e parte la campagna acquisti, ma Ferrara guarda a dopo: “Se tra qualche anno diventeremo un paese in cui non dico si lavora, ma si lavoricchia in modo sensato e con qualche prospettiva per il cosiddetto precariato che non sia un posto improduttivo, e in cui si guadagna e si consuma in modo proporzionale alla ricchezza sociale prodotta, con uno scambio utile tra capitale e lavoro, e una crescita di cui beneficeranno la ricerca, la cultura, l’istruzione, la formazione e l’industriosità nazionale, ecco, non dipende tanto dal 14 dicembre, dipende dall’ipotesi che il modello americano di relazioni sociali spazzi via la nostra apparentemente comoda bardatura di convenienze e armonie prestabilite. Questa è politica, queste sono le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno” (Il Foglio, 13.12.2010). Ma neanche il modello Marchionne riesce a distrarre Berlusconi dalla esclusiva cura dei cazzi propri, e Ferrara torna a lamentarsi: “Il governo perde il filo da tirare nella matassa della rivoluzione di Mirafiori” (Il Foglio, 10.1.2011).
La sfiducia non passa, ma Berlusconi rimane inchiodato in difesa, e Ferrara soffre, si deprime, manda a dire che volentieri tornerebbe in tv, se solo qualcuno glielo proponesse. Poi Amato parla di patrimoniale, e le opposizioni non raccolgono, ma Ferrara coglie al volo l’occasione per prodursi, in nome e per conto di Berlusconi, in un tentativo di revival del 1994: “Dal momento che il segretario del Pd è stato in passato sensibile al tema delle liberalizzazioni e, nonostante qualche sua inappropriata associazione al coro strillato dei moralisti un tanto al chilo, ha la cultura pragmatica di un emiliano, propongo a Bersani di agire insieme in Parlamento, in forme da concordare, per discutere senza pregiudizi ed esclusivismi un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana; un piano del governo il cui fulcro è la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani” (Corriere della Sera, 31.1.2011).
La risposta è negativa. Bersani dice che Berlusconi non è credibile e Casini dice che è troppo tardi, ma erano risposte prevedibili, sicché il rifiuto può essere usato per rivestirsi da rivoluzionario: o col Cav. contro le tasse o col centrosinistra che ti mette le mani in tasca. Il Paese è fesso e può ricascarci. Se bisogna andare alle urne, andarci promettendo è la regola, non importa se si tratta di promesse vecchie di quasi vent’anni, e mai mantenute: un milione di posti di lavoro, rivoluzione liberale, abbasso le tasse, perché non dovrebbero crederci ancora?
Passi che le opposizioni non raccolgano, anzi, questo torna a fagiolo, ma gli imprenditori? Puttana Eva, la Confindustria è tiepida: “A parte una timida e formale dichiarazione, in questi sette giorni la Marcegaglia si è distratta […] Secondo Berlusconi bisogna agire per portare l’incremento della ricchezza al 3-4 per cento in cinque anni. Mi dicono che nel governo c’è chi ride della cosa e che il Cav si è già messo paura della propria audacia: ma, se si irride un obiettivo così evidentemente necessario, e per giunta possibile, è meglio affidare il Paese a Giuliano Amato e a Pellegrino Capaldo, impazienti di mettere le mani in tasca ai ceti medi e di porre una bella ipoteca di Stato sulle loro abitazioni. Sia come sia, questo obiettivo di crescita la Confindustria lo condivide? È interessata agli stati generali dell’economia promessi e promossi da Berlusconi entro la fine di febbraio? Piace agli imprenditori edili il piano casa il cui obiettivo è di attivare cinquanta miliardi di euro di investimenti? Gli imprenditori del Sud, che si sono associati con coraggio alla campagna contro le mafie e per la sicurezza fatta dal governo e da Maroni, non sarebbero contenti di raccoglierne i frutti? Deregolamentare l’economia con una riforma costituzionale che elimini la parte sovietica della Costituzione non è interesse generale e anche interesse dei buoni borghesi del XXI secolo? La Confindustria è un’associazione per lo sviluppo di un capitalismo liberale di mercato o è diventata un pigro centro di spesa improduttiva e di mediazione corporativa? Secondo me gli imprenditori che pagano le quote e lavorano nelle loro aziende questa domanda se la fanno. E la risposta?” (il Giornale, 6.2.2011).
Un messaggio alla Marcegaglia dalle pagine de il Giornale è più che un messaggio: è un ultimatum. Povero Ferrara, partito per la rivoluzione liberale bis e subito ridimensionato a un qualsiasi cane da guardia, poco più di un Porro (“Adesso ci divertiamo, attaccheremo la Marcegaglia come pochi al mondo”), neanche troppo divertito, però divertente.


[cfr. Aronne]

Colpa vostra. E di Luisa.


L’ultimo spam di Marco Pannella meriterebbe due o tre considerazioni prima di essere eliminato definitivamente. Per ciascuna, purtroppo, sarebbe necessaria una lunga premessa. Insomma, potrebbero volerci ore ed ore, tediando i più e affaticando i pochi interessati. L’ho fatto, in passato, ma mi pento. Se oggi ritento e perché mi pare – e penso di averlo già scritto da qualche parte – di aver trovato una chiave per commentare Pannella: Il labirinto femminile di Alfonso Luigi Marra. Nel pensiero e nell’azione di Pannella c’è il Paolo del Marra, ma in Paolo è tutto più esplicito. Mi spiego con qualche esempio.

Pannella: “Caro Luigi, dinanzi alla consueta valanga di disperazioni, di incomprensioni e di strazianti insulti, non solamente per aver ascoltato da me, ma per quel che mi si attribuiva da quella parte d’Italia rabbiosa, perché per nostra colpa non si riesce ad avere l’alibi: «tutto ma proprio tutto il mondo è sporco», ed è quanto meno menzogna, dando così a se stessi e agli altri la giustificazione – come posso oppormi e resistere solo io?”.
Marra: “Devo scriverti, cara Luisa, per motivi di chiarezza e di amor proprio… E questo non per semplice suscettibilità, ma perché la pur così ben recitata indifferenza del mondo verso me, non è riuscita a farmi perdere la consapevolezza di chi io sia, per cui non posso che reagire adeguatamente verso chi, anche solo per un momento, lo dimentichi... Insomma, questo «nulla» che pur intercorre tra noi ti delegittima ad avere con me atteggiamenti tipo colei che, avendo subito imprevedibilmente che taluno le pizzichi il sedere, sbalordisca e lo rimproveri” (pag. 12).

Pannella: “Siccome dialogavamo perfino con il Berlusca, i tapini che avevano «capito tutto» reagivano freneticamente per impedirci di votare la fiducia, mentre avevamo già deciso di votare contro, come Berlusconi stesso, allora come ora, aveva perfettamente compreso esser la nostra scelta”.
Marra: “A parte che le tue semplificazioni su di me non tengono conto di troppe cose, non ho difficoltà ad assumermi tutte le responsabilità di questo mondo. Ma questo non risolve niente, perché il problema non sono mai stato io. Il problema sei tu” (pag. 126). “Sono molto dispiaciuto, ma capisco di aver fatto una cosa grave con questo messaggio a Veronica, e di aver creato una situazione antipatica. Trattami dunque male, ma non esagerare, ed evita se puoi di condannarmi al silenzio” (pag. 137).

Pannella: “Dinanzi alle tante risposte mi sembra importante tornare a chiederti un po’ di attenzione e, spero, eventualmente una tua reazione a quanto segue, che abbiamo ieri immesso su Facebook e vari siti radicali”.
Marra: “L’unica situazione in cui sono disposto a parlare con te è che vieni con me e ti fai fare tutto quello che voglio. Quanto al fatto che anche questo «sarebbe inutile», non ti preoccupare: lascia decidere a me quello che voglio” (pag. 59).

Pannella: “Omnia immunda immundis. Tutto immondo a occhi immondi; e se non riesce loro di mostrare solo immondizie, sgomenti impazziscono.  Così, sperando di legittimare probabilmente la propria condizione sul presupposto che tutto il mondo, non solo loro, sia immondo, hanno urgenza assoluta di affermare che, dietro l’apparenza rara del «pulito», non ci sia altro che l’inganno dello sporco. Così s’illudono di legittimarsi, di ripulire potenzialmente anche se stessi”.
Marra: “Tu sfrutti quella che chiami «pazienza» per cercare di rubare la mia dignità, e pretendi di darmi tu stessa la forza per sottostare a questa mortificazione mediante il suscitare in me la presunzione che mi ami. Io però ho ormai costantemente il dubbio che tutto dipenda invece dal fatto che non mi ami abbastanza, e questo mi scatena un altrettanto costante malessere e ribellione per il tuo abuso della mia disponibilità” (pag. 189). “Forse con «quella» avrei persino potuto fare lo sforzo di andarci, ma solo se avesse potuto essere utile per giungere a te. Sarebbe stato però necessario che esistesse, mentre era solo una mia creazione. Non ti perderò per motivi così assurdi” (pag. 165). “In ogni modo, non so se è questo che vuoi, ma se vuoi, possiamo fare come se nulla fosse accaduto” (pag. 57).

Pannella: “A 81 anni il massimo di pubbliche responsabilità che nella mia vita ho ricoperto - università a parte - sono stati cento giorni da Presidente della Circoscrizione di Ostia. Per il resto, non sono nemmeno semplice Cav. della Repubblica; e resto soldato semplice da 57 anni, in congedo nemmeno come caporale. Sono nullatenente. Da poco, ma lo sono! Ho venduto tutto, cioè le eredità. Poiché adoro la (mia) vita, ritenendomi in vacanza dal 1° gennaio al 31 dicembre, non sono stato così cretino da mettermi in vacanza dalle vacanze! Da decenni vivo come e perché questa mia vita da radicale mi colma, m’appassiona, e riconosco nella gente comune la stessa mia cifra di persona comune. Come Radicali, nel frattempo, abbiamo anche ricoperto, con grande onore e merito, qualche alta responsabilità istituzionale. Non io, perché ho ritenuto finora che mie responsabilità di «partito» mi e ci fossero più ambiziose, utili e opportune per tutti”.
Marra: “Tranquillizzati perché mi sono ormai tranquillizzato anch’io. Ho capito che ti frena: che ti sembra di essere abbastanza giovane e bella da poter sperare in un uomo giovane, intelligente, colto, bello, ricco eccetera, e che pertanto io non ti convengo. Quanto al fatto che non troverai mai un genio come me, non ti interessa, perché pensi che la genialità, l’ideologia, la rivoluzione culturale, siano per te cose prive di significato, anche se, consentimi, forse sottovaluti che se uno è genio lo è sempre, anche nelle cose del quotidiano. Ma scrivo solo perché ho il vizio dell’analisi. Non vorrei ora dover scrivere uno studio per farti fare in virtù dell’analisi quello che richiederebbe sentimenti che a quanto pare non hai” (pag. 137). “Quanto ai miei anni, non saranno pochi, ma sono stati unici, e ho raggiunto attraverso essi talmente tanti risultati che il vero motivo per il quale ti consento di farmi quei discorsi è che li considero come una richiesta di aiuto a scrostare la tua intelligenza dai luoghi comuni che la soffocano” (pag. 76).

Pannella: “Nel periodo 1994/96 Berlusconi ci è stato alleato. Non avendo noi accettato responsabilità di governo (pur da lui offerte) l’alleanza fu sempre basata esclusivamente sulle tante nostre grandi iniziative referendarie e specifici obiettivi politici del momento. Poi sostanziale allontanamento e, infine, rottura. Non da noi, ma da Berlusconi legittimamente operata e reiterata. Anche oggi come ieri, con tutti, alleanze o intese (ad esempio, la Rosa nel Pugno) si sono avute con il convergere su obiettivi innanzitutto notoriamente radicali, «nostri». Radicale riforma anglosassone-americana, radicale riforma della giustizia, diritti umani e nonviolenza le nostre linee portanti. Su questa base, alleanze strategiche o incontri tattici, chiunque – volendolo – ci ha incontrato e ci incontrerà, per altri importantissimi obiettivi di congiunture storiche. Una volta raggiunti, arrivederci, con affetto; e nulla più”.
Marra“Sai già che non aspiro a essere semplicemente buono. Che sono buono con i buoni, cattivo con i cattivi, feroce con i feroci, strategico con gli strategici, infido con gli infidi, e così via. Posso essere l’aria che ti circonda e il terreno sul quale cammini usando in tutta lealtà la mia forza per cercare di rendere felice ogni tuo respiro e ogni tuo passo, ma non ti ho mai detto di voler offrire la mia vita a chi non sa che farsene. Ciò premesso…” (pag. 107). “Non sono un mago, sono un genio” (pag. 22).

Pannella: “Il 1° gennaio 1981 m’accadde di fare un intervento, una sorta di discorso su un mio «Lo Stato dell’Unione». Dichiaravo di essere consapevole che la vita sembrava potermi mettere in condizioni di «riserva della Repubblica»; precisavo che proprio l’impegno storico di «parte radicale» poteva portarmi a dovermi candidare anche a  massime responsabilità esecutive dello Stato. Da federalista anti-nazionalista quale convintamente ero e sempre più sono, nel disastro non solo italiano ma anche europeo e «occidentale», continuo – anzi, ancor meglio, torno a sentirmi, nella eventuale necessità, a ciò disponibile, pronto. Oggi m’appare comunque probabile che potrò concludere la mia già lunga esistenza, da militante e esponente storico del Partito Radicale; e ne sono colmo, commosso, felice, vivo”.
Marra: “Un paio di anni fa i miei due figli piccoli, Caterina, allora dodicenne, e Marco, quattordicenne, entrambi ben consci delle mie concezioni, mi chiesero se era possibile che la televisione mostrasse dei dissidenti come me. Risposi che poteva accadere solo se fossero sfuggiti ai controlli, com’è accaduto a volte anche per me, ma che, fin quando la società non avrà cessato l’attuale «rivoluzione per non cambiare», i mezzi d’informazione saranno inaccessibili a qualsiasi tipo d’informazione o persona non coerente al regime. E raccontai loro cosa accadde nel 1994 nel Parlamento Europeo con la legge sugli imballaggi, mirante a rendere obbligatoria la sostituzione, negli imballaggi, del polistirolo con un «polistirolo» fatto di cereali: una legge di cui si entusiasmarono tutti, e che avrebbe risolto una grossa parte dei problemi di inquinamento. Per un paio di mesi non si parlò d’altro, ed erano tutti favorevoli. Poi iniziarono a capire che quella legge avrebbe aperto gli occhi del mondo sulla sostituibilità della plastica con materiali biodegradabili, al punto che sarebbe venuta forse meno, in tutto o in parte, l’esigenza degli inceneritori, perché solo la plastica richiede quel tipo di smaltimento. Il risultato fu che, dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per i verdi, dopo un po’ ammutolì l’intero Parlamento, e in quindici anni non c’è stato verso di far riprendere il discorso a nessuno. Se non è univocità questa!” (pag. 48).

[...]

Probabilmente, anche cimentandoli, rimarranno oscuri gli argomenti di Pannella e quelli di Marra. Ma soltanto a rimanere indietro, mentre entrambi vanno avanti. Chiaro è, in questo caso, che la colpa è solo vostra. E di Luisa.


Sogno numero due


“… e se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge...”

Fabrizio De Andrè, 1973 

Rapivano la Santanchè, le amputavano i medi e la liberavano.


Un'aria che manca l'aria



Editorialisti di riferimento




venerdì 4 febbraio 2011

Fratello musulmano, ciucciati il calzino!


Coi ciambellani dietro


“Montarono due telai, fecero finta di lavorare, ma non avevano assolutamente niente sul telaio”. Non si fa fatica a immaginare quanta serietà e quanto impegno: l’imperatore avrebbe avuto dei vestiti nuovi da lasciare tutti a bocca aperta. Bene, sappiamo come va finire: “«Ma non ha niente addosso!», gridò un bambino. «Signore Iddio, è la voce dell’innocenza!», disse il padre, e cominciò il passaparola di quello che aveva detto il bambino: «Non ha niente addosso, un bambino dice che non ha niente addosso!». «Non ha proprio niente indosso!», urlò infine tutta la gente. E l’imperatore rabbrividì pensando che potessero aver ragione, ma pensò: «Ormai devo guidare questo corteo fino alla fine». Gonfiò fiero il petto e proseguì, coi ciambellani dietro a reggergli lo strascico inesistente”.
Non c’è alcuna sollevazione popolare, anzi, non è escluso che nel corso della sfilata l’imperatore possa riconvincere i suoi sudditi di essere vestito, e assai elegantemente. Potrebbe addirittura esserci un bambino sculacciato a chiudere la storia. Rammentavate che l’imperatore fosse fatto a pezzi dalla piazza? Facevate confusione tra la favola di Hans Christian Andersen e quella dell’anarchico incoronato di Antonin Artaud.
Tutt’è non farsi prendere dal panico, mettere convinzione nel gonfiare il petto, avere dei ciambellani dai nervi saldi e dalla faccia tosta professionale.

Prendete Antonio Martino. È da un bel pezzo che gli italiani sanno che la «rivoluzione liberale» di Silvio Berlusconi è una crudele presa per il culo, ma Antonio Martino si presta alla parte. Era solo uno strappo nell’abito, dice, ma bastano due punti di filo e Silvio Berlusconi mi ritorna il liberale del 1994: “Il passato non può essere riscritto ma possiamo ancora influire sul futuro; non possiamo lasciare incompiuta una rivoluzione che gli italiani fortemente vogliono. Le condizioni potrebbero non apparire ideali, data l’esiguità della maggioranza ma, sia che la legislatura venga interrotta sia che giunga al suo termine naturale, soltanto se ritroveremo l’ispirazione del 1994 e sapremo tradurla in proposte concrete seguite da risultati potremo ritenere di aver fatto il nostro dovere per il bene dell’Italia” (Il Foglio, 4.2.2011).
Tutt’è avere la faccia tosta professionale di riuscire a parlare ancora del “bene dell’Italia” in nome e per conto del monumento vivente alla cura dei cazzi propri. Ed eccolo, Antonio Martino, serio e impegnato, a reggere lo strascico.

giovedì 3 febbraio 2011

Il berretto nel fango


“Una volta, per dimostrarmi quanto migliore del suo fosse
il tempo in cui ero venuto al mondo io, [mio padre] mi fece
questo racconto. «Quand’ero un giovanotto – disse –
un sabato  andavo a passeggio per le vie del paese.
Ero ben visto, e avevo in testa un berretto di pelliccia nuovo.
Passò un cristiano e con un colpo mi buttò il berretto nel fango
urlando: ‘Giù dal marciapiede, ebreo!’. ‘E tu cosa facesti?’,
domandai io. ‘Andai in mezzo la via e raccolsi il berretto’,
fu la sua pacata risposta. Ciò non mi sembrò eroico da parte
di quell’uomo grande e grosso che mi teneva per mano”


Sigmund Freud mostra una pietas filiale assai ambivalente. Proviamo, però, a immaginare lo stesso episodio raccontato dal figlio di quel cristiano, e avremo la negativa di quellambivalenza. Non è mai facile decidere, in questi casi. Tuttavia, essendo costretti a scegliere, di chi vorreste essere figlio? Voglio dire: dovendo essere indulgente con vostro padre, perché è pur sempre vostro padre (tutto fuorché un eroe, in entrambi i casi), ne preferireste uno troppo gradasso o uno troppo mite? In altri termini: di quale padre preferireste essere costretti a vergognarvi un poco?

Forse è il caso di fare un altro esempio. Su Lespresso della scorsa settimana (5/LVII - pag. 154) Eugenio Scalfari chiamava Giuliano Ferrara e i foglianti alle loro responsabilità: “Voi, spiriti sottili, atei ma devoti, allineati ma irriverenti, libertari ma snob, irruenti ma ricercati, voi non vedete con orrore o almeno con disgusto lo squallore e la disperazione in cui lAmor vostro è precipitato portandosi dietro un pezzo del Paese? [...] Vi dovrebbe venire un po di rossore sul volto, ma se non vi viene spontaneamente fatevelo pennellare sulle gote dal truccatore di scena, in modo che noi lo si possa vedere e perdonare la vostra vergogna”. Bisogna convenire che il tono poteva risultare insultante a Ferrara come tempo fa lo era a un cristiano la vista di un ebreo ben vestito. Via, cappello nel fango: “Scalfari sull’Espresso civetta un po’ con me e poi mi dice che devo provare vergogna. Mi sono sforzato ma non ci riesco, mi spiace. Se però lui o il suo Peppe D’Avanzo volessero farsi una bella chiacchierata in televisione con me, evitando naturalmente postriboli televisivi e fumerie d’oppio, sono disponibile. Vediamo chi arrossisce e, se mi è permessa una innocente guasconata, glielo do io il bunga bunga” (il Giornale, 30.1.2011). Al momento, il cappello di Scalfari rimane nel fango e nessuno ha dato due schiaffoni a Ferrara, tanto meno Scalfari. Anzi, come quasi sempre accade quando li si lascia fare, i gradassi insistono: 


Stessa domanda di prima: di chi preferireste essere figlio? Di quale ambivalenza preferireste dover rendere conto?

  

Rap



Dinanzi all’attualità politica, quando è cronaca di fine regime e la passione civile è una variabile impazzita, c’è un diritto inalienabile dell’uomo, che è quello di chiudere gli occhi, lasciar volare l’immaginazione, pensare al repulisti. Quanto più è esecrabile piazzare quattro dolly a Piazzale Loreto per dare la miglior resa cinematografica ai cadaveri appesi, tanto più è nobile prendere dal frigo una birra e stare a sognare. Non si becca mai, ma è proprio quello il bello: il bruto che è in ciascuno di noi si eleva e si edifica. Un esempio.

Esterno, sera. Bettino esce dal Raphael, pioggia di monetine, plebe che ulula.
Stacco su Intini. Fa in fretta una valigia, quando bussano alla porta. Trasale, va ad aprire. “Chi è?”. “Lettura del gas”. Si fida, apre ed è la fine: di Intini rimane poco o niente. Povero Intini.

Un sogno a cazzo di cane. Tutti odiavano Intini, ma si finì col riconoscergli onestà e buona fede, la sua forfora al congresso fondativo della Rosa nel Pugno mi fece una struggente tenerezza. E dire che nel 1992 l’avrei fatto sbranare dai cani della Brigata Violante. E piano, dunque, piano con le sceneggiature. Chissà cosa fareste alla Santanché, chissà che fareste a Gasparri e a La Russa, chissà quali violenze alla povera Roccella, chissà che rimarrebbe del povero Sallusti e del povero Signorini – piano, che poi siete proprio voi a doverli calare dalla pensilina, rianimarli e riciclarli per il prossimo regime.

Certo, sognare film di fantapolitica è molto meglio che linciare quel tal sottosegretario, impalare l’architetto caro all’autocrate, rapare a zero delle povere puttane, comunque non abusate del diritto: è inalienabile, ma attenti a non alienarvi e, se vi è possibile, risparmiate i nani e le ballerine. Lasciate stare Ferrara, non c’è sfizio, tanto ve lo ritrovate in tv prima o poi, change or not: filmate la scena della cattura di Gianni Letta, se ci riuscite. Filmate la scena di quando l’oscuro pm finalmente trova la quadra e capisce il ruolo di Bisignani, il filo tra Dagospia e il Velino…

Se guardate e riguardate la scena del plotone di esecuzione che fucila il Papa ne La via lattea di Buñuel, il vostro anticlericalismo si ammansisce. Provate.