martedì 1 novembre 2011

Volesse il cielo fosse solo una faccia di cazzo


a Giovanni Fontana

Sul perché Matteo Renzi piaccia così tanto alla destra, e così poco alla sinistra, non è il caso di intrattenerci troppo, perché è impossibile arrivare a conclusioni esaurienti. Però possiamo almeno fare qualche ipotesi.
Può darsi sia davvero un uomo nuovo, quello finalmente che può liberare la sinistra dai suoi vizi psicologici, culturali e politici, tirandola via dalle secche in cui la storia l’ha portata ad incagliarsi, rendendola finalmente capace di riguadagnare motivazioni, entusiasmo e consensi, facendole trovare idee per governare e voglia di vincere. E allora è possibile che raccolga tante critiche fra quanti invece dovrebbero salutarlo come il leader che ci voleva, perché la sinistra è ottusamente conservatrice, fottutamente masochista, irrimediabilmente votata alla sconfitta. Non è da escludere, ma questo non ci dà garanzie che Matteo Renzi sia la soluzione. 
Al contrario, può darsi che le sue idee non appartengano affatto al patrimonio culturale e politico della sinistra, e che quindi a buon motivo sia sentito da gran parte della sinistra come un corpo estraneo, come un ex democristiano che abbia subìto, anche se in ritardo, la stessa mutazione genetica di tanti ex democristiani che dalla Dc passarono a Forza Italia. Mi par chiaro che in entrambi i casi la sinistra non meriti Matteo Renzi.
D’altro canto, le critiche che Matteo Renzi muove alla sinistra sono le stesse che da sempre le sono mosse dalla destra. Sarà per questo che piace così tanto a quanti dovrebbero essere i suoi avversari “naturali”? È molto probabile, anzi, a sentire le lodi che la destra rivolge a Matteo Renzi, parrebbe che le critiche che egli rivolge alla sinistra siano le stesse che la destra (in quanto destra) muove alla sinistra (in quanto sinistra). Parrebbe che, a raccogliere le critiche che Matteo Renzi le rivolge, e che egli si sforza di dimostrare siano costruttive, la sinistra non avrebbe da far altro che diventare un po’ più simile alla destra, per vincere. Pare, infatti, che per “costruttivo” debba intendersi tutto ciò che consente la vittoria. Ci troveremmo di fronte ad una mutazione della sinistra ancora più profonda: da avanguardia che guida le sorti del popolo a oligarchia che rincorre gli umori della gente. 
Non si capisce, in realtà, perché un elettore che abbia idee di destra dovrebbe essere conquistato da una sinistra così rifatta invece che rinnovare la propria fiducia ad una destra che rimane tale, dimostrando con ciò di aver vinto la sua lunga partita contro la sinistra, né si capisce perché un elettore che abbia idee di sinistra dovrebbe rinunciarvi perché solo così potrebbe veder vincere una sinistra che di fatto non lo sarebbe più. Parrebbe, insomma, che Matteo Renzi piaccia così tanto alla destra perché, consapevolmente o no, divide la sinistra: fra quanti la vorrebbero vincente anche a costo di vederla somigliare un po’ di più alla destra e quanti sarebbero disposti a vederla eternamente perdente purché fedele alle sue idee di sempre.
Ma forse tutto ciò che ho fin qui scritto ha un vizio di fondo, che è quello di far riferimento a due categorie che sono superate già da tempo, per reciproca contaminazione: probabilmente destra e sinistra sono inservibili ad un’analisi del renzismo, che forse altro non è che un mero epifenomeno di questa contaminazione, giunta con lui a un tal grado di mimetismo da essere presentabile come superamento delle due posizioni ideologiche in un metodo duttile e pleomorfo, pragmatico più che pragmatista. Probabilmente, caro Giovanni, la questione si pone in altri termini. Ho cercato di farlo nel post qui sotto, ma forse in modo troppo ellittico. Provo a farlo qui, augurandomi di essere più chiaro: la società che sta nel progetto di Matteo Renzi è liberaldemocratica?


Liberismo e liberalismo: o stanno insieme o degenerano. Stessa cosa per libertà e responsabilità: senza responsabilità la libertà diventa arbitrio, senza libertà la responsabilità diventa sudditanza. Se arbitrio e sudditanza sono termini relativamente ambigui, le degenerazioni di un sistema nel quale l’individuo goda della sola libertà economica, o di tutte le altre tranne quella, danno vita a società dai caratteri piuttosto precisi, peraltro tristemente noti, prima o poi invivibili, e dunque destinate ad essere messe in discussione da istanze reattive, spesso anche violente. Chi voglia costruire una società che sappia evitare queste derive non può fare a meno di guardare alle libertà come un corpo inscindibile, senza considerarne alcune prioritarie rispetto ad altre, e alla responsabilità come l’unico presidio che può garantirle tutte.
Di tutte le libertà, quella economica è quella che meglio si presta a saggiare questo assunto. Quand’anche un individuo la eserciti nel pieno rispetto di un sistema normativo che gli impedisca di farne strumento di arbitrio o causa di sudditanza, la ricchezza che ha pur legittimamente cumulato gli darà modo di godere illegittimamente di quelle libertà che eventualmente siano negate a quanti non dispongano dei suoi mezzi, oltre che a proteggersi dagli effetti delle sanzioni che potrebbero raggiungerlo per aver violato il divieto, se non addirittura a fuggirle.
È il caso di una società che riconosca all’individuo la libertà di intraprendere e di cumulare ricchezza, ma gli neghi altre libertà che pure sono nel corpo del diritto di autodeterminazione nella responsabilità verso gli altri individui: a costui non sarà difficile goderne comunque, creando di fatto, anche non di diritto, condizioni di disparità che inevitabilmente faranno dei suoi beni materiali, pur legittimamente cumulati, un elemento di ingiustizia sociale. Se la ricchezza assicura ad alcuni la piena e legittima “libertà da”, che però può facilmente tradursi in piena ma illegittima “libertà di”, è solo una piena e legittima “libertà di” che può garantire l’equità di diritti nella differenza che di fatto c’è tra individuo e individuo, e che può e deve avere modo di esprimersi anche sul piano economico. Perciò ripeto: se non stanno insieme, liberismo e liberalismo degenerano.


Bene, caro Giovanni, se molte delle proposte uscite dalla Leopolda possono sembrare liberiste, non ve n’è traccia di liberali, eccezion fatta per la n. 89 (Una regolamentazione per le unioni civili), che sembra messa lì tanto per fare da bandierina nel campo dei diritti civili. Ve n’è, invece, qualcuna francamente illiberale e, ciliegina sulla torta, silenzio assoluto sul conflitto di interessi. Per Matteo Renzi, l’autodeterminazione dell’individuo è sacrosanta solo in campo economico ed è qui che il nostro si rivela liberale – scusami la bestemmia – quanto lo è Silvio Berlusconi. Nei fatti è filoclericale come lui, ma senza avere la fierezza di rivendicarlo come merito. Come lui, cerca di essere simpatico a tutti (cosa che dovrebbe sempre insospettire), e con risultati altrettanto tragicomici (cosa che dovrebbe sempre far riflettere). Tiene il palco con la stessa posa da uomo della provvidenza, che ha il sole in tasca e l’uovo di Colombo in testa. Quei 100 punti, che dovevano essere scritti in wiki e si sono accontentati della lingua di un ex Mediaset come Giorgio Gori, fanno il depliant di unofferta già sentita, appena camuffata da un volto che ancora non ha bisogno di cerone. Volesse il cielo fosse solo una faccia di cazzo. 

lunedì 31 ottobre 2011

Maremma maiala


L’impegno a mettere in discussione il regime concordatario, a provvedere alla drastica riduzione dei benefici di cui gode la Chiesa cattolica in Italia, a consentire il matrimonio ai gay, ad abrogare la legge 40/2004, a depenalizzare il consumo delle cosiddette droghe leggere e a sperimentare il regime di somministrazione controllata per quelle cosiddette pesanti, a facilitare il ricorso all’aborto farmacologico e l’accesso ai metodi contraccettivi, a istituire corsi di educazione sessuale nella scuola dell’obbligo, a consentire il testamento biologico e a favorire la libera e responsabile scelta eutanasica, alla regolamentazione e al controllo della prostituzione, a difendere e a sostenere la libertà di ricerca scientifica, all’abrogazione del reato di clandestinità: nessuno di questi impegni è fra i 100 di Matteo Renzi. Eppure sono gli unici che potrebbero essere condivisi da un elettore liberale e da un elettore di sinistra, ma sono pure gli unici che potrebbero allontanare gli elettori filoclericali e di destra. Che tipo di Pd voglia, il nostro, adesso è un po’ più chiaro. Aggiungiamoci che sul conflitto di interessi non si spende neanche un rigo e, oltre che chiaro, è tragico. 

“Totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità”

Forse è ingiusto liquidare Matteo Renzi per quello che sembra, anche se è quello che più conta in chi ha sempre messo la visibilità in cima alle proprie preoccupazioni: adesso che abbiamo a disposizione le 100 proposte uscite dalla Leopolda, l’onestà intellettuale ci impone di spostare l’attenzione su quelle, distogliendo lo sguardo da quella inemendabile faccia di cazzo.
Naturalmente l’onestà intellettuale ci impone di trascurare pure le proposte di franca ispirazione demagogica, per concentrarci solo su quelle che hanno il solo scopo di chiamare l’applauso. La prima è la n. 7, quella sul finanziamento pubblico ai partiti, che “va abolito o drasticamente ridotto”, favorendo quello privato, “sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità”.
Ecco, su una proposta come questa siamo costretti a rimodulare il nostro giudizio: anche una faccia di cazzo può spararne una giusta. E dunque, quanto è costato il Big Bang? Chi l’ha pagato? Perché non se n’è dato alcun conto, né prima, né durante, né dopo la tregiorni alla Leopolda? Totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità, prego.

C’è impresa e impresa



domenica 30 ottobre 2011

[...]




Una volta ho scritto: “D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni”. Coi loro succedanei direi il contrario: non sopporto Civati, ma Renzi me lo rende amabilissimo. Peggio di Renzi, nel Pd, nessuno. Renzi è la larva che il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd.

Avrò frainteso il Papa, Ciccio?

Il discorso che Benedetto XVI ha tenuto nella Basilica di Santa Maria degli Angeli di Assisi, giovedì 27 ottobre, è zeppo di bugie. Non meriterebbero alcuna attenzione, perché si tratta delle solite bugie, quelle che la Chiesa di Roma si ostina a ripetere, nella convinzione che così smettano d’esserlo, da quando non le è più consentito l’uso dell’intimidazione per imporre come vero il falso. Convinzione non del tutto infondata, perché è continuando a ripetere che il cristianesimo è religione contraria alla violenza che si finisce per dimenticare gli immensi stermini compiuti in nome di Cristo: questo è quanto Benedetto XVI ha ripetuto ad Assisi, come se le centinaia di milioni di morti disseminati dai cristiani lungo due millenni siano questione irrilevante, del tutto estranea all’insegnamento di chi affermava: «Chi non è con me è contro di me». Stessa faccia tosta di chi loda il comunismo chiudendo un occhio o entrambi sui crimini commessi in suo nome, trascurabili effetti collaterali della costruzione del paradiso in terra.
Un blogger di fresco pelo, un tal Gianfranco Ravasi, invita a leggere integralmente le parole del Papa senza travisarle. Da blogger a blogger: pensi di fargli un favore, Ciccio?

Il Papa ha detto che «la critica della religione, a partire dall’illuminismo, ha ripetutamente sostenuto che la religione fosse causa di violenza e con ciò ha fomentato l’ostilità contro le religioni». Era calunnia o semplice constatazione? Il Papa ammette: «Sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura». Ammesso e non concesso che sia vero, ma non è grazie a questa violenza che la fede cristiana ha potuto affermarsi? Senza questa violenza il cristianesimo non avrebbe potuto espandersi: ne dà prova il fatto che la Chiesa cattolica è tanto più forte, oggi, dove più ha potuto, in passato, esercitare la sua violenza; dove questa ha incontrato un’efficace resistenza, la Chiesa poco o niente. Sua Santità ci parla dalla cima del cumulo di crimini dei quali si vergogna.
Da lassù dice: «Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il “no” a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio».
Liberando il testo dalle perifrasi, esisterebbero solo due tipi di violenza: quella di chi attarda a far proselitismo come in passato l’hanno fatto i cristiani (rimprovero che Manuele II Paleologo rivolse al suo interlocutore musulmano dopo che il cristianesimo aveva già fatto almeno 80 milioni di morti e prima di farne almeno altri 140); e quella di chi non ha fede in alcun Dio, che per “reductio ad hitlerum” è nazista (Sua Santità è tedesco, ma non riesce a tradurre in latino “Gott mit uns”).

E dunque «la negazione di Dio corrompe l’uomo e lo conduce alla violenza»? Non necessariamente. Al contrario, non c’è una sola religione che abbia rinunciato a usare la violenza. Ma il Papa dice pure che «l’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo». Ma cos’è l’umanesimo, se non il primo passo per dare centralità all’uomo togliendola a Dio? Non è l’umanesimo ad aver chiuso la stagione del Medioevo, apice della cristianità, età dell’oro per ogni buon cristiano? Probabilmente il Papa intende far riferimento a quella distinzione tra umanesimo cristiano e umanesimo ateo, diventata necessaria da quando la condanna dellumanesimo tout court fatta dai suoi predecessori è diventata insostenibile? È per questo che parla di «decadimento dell’umanesimo»? Ci spieghi, allora, perché fu condannato prima che decadesse.

Ma questo è ancora niente, perché poi il Papa dice:  «Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: “Non esiste alcun Dio”. Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui». Non si tratta di tutti gli agnostici, dunque, ma di alcune persone che tra gli agnostici cercano Dio cercando il vero e il buono. Ma chi potrà mai dire che avranno trovato il vero e il buono solo quando avranno trovato Dio? E quale Dio fra i tanti? Sua Santità non vorrà mica farci credere che l’uno valga l’altro?
Alla fin fine, è pur sempre quello che ha scritto la Dominus Iesus: «Deve essere fermamente creduta l’affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, si dà la rivelazione della pienezza della verità divina» (5); «Deve essere, quindi, fermamente ritenuta la distinzione tra la fede teologale e la credenza nelle altre religioni […] che è esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e priva ancora dell’assenso a Dio che si rivela» (7); «Similmente, deve essere fermamente creduta la dottrina di fede circa l’unicità dell’economia salvifica voluta da Dio Uno e Trino, alla cui fonte e al cui centro c’è il mistero dell’incarnazione del Verbo, mediatore della grazia divina sul piano della creazione e della redenzione, ricapitolatore di ogni cosa, diventato per noi, sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (11).
Par chiaro che l’agnostico cerca il buono e il vero, ma li trova solo se e quando arriva a dirsi cattolico apostolico romano: la sua sofferenza potrà trovar termine solo quando e se finirà in ginocchio davanti al Papa. Sennò gli restano due sole alternative: una credenza religiosa imperfetta, non immune dalla tentazione alla violenza, oppure l’umanesimo ateo, intrinsecamente violento, nazista o quasi.
Avrò frainteso il Papa, Ciccio? Digli di spiegarsi meglio.  

sabato 29 ottobre 2011

LBS

Leggo dallo Statuto della Bce che i membri del Comitato esecutivo “sono nominati tra persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario, di comune accordo dai governi degli Stati membri, a livello di capi di Stato o di governo, su raccomandazione del Consiglio previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo”. Così è stato per Lorenzo Bini Smaghi e, a scorrerne il curriculum, direi che le condizioni ci fossero.
Leggo, inoltre, che un membro del Comitato esecutivo non risponde ad alcuna autorità nazionale, ma solo al Consiglio direttivo della Bce, e che può essere rimosso dalla sua carica solo dalla Corte di giustizia dell’Ue e solo nel caso in cui “abbia commesso una colpa grave” o “non risponda più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni”. Non è il caso di Lorenzo Bini Smaghi, e infatti anche chi gli chiede di dimettersi non ne mette in discussione i meriti, né l’operato.
Stando a quanto leggo, insomma, Lorenzo Bini Smaghi ha il pieno diritto di non rimettere il suo mandato, che scade nel 2013. Potrebbe farlo, volendo, ma ha il diritto di non farlo. Non glielo chiede il Consiglio direttivo della Bce, ma le autorità nazionali di Italia e Francia, che peraltro non ne fanno istanza alla Corte di giustizia, ma richiesta privata, per ragioni di opportunità non contemplate dallo Statuto della Bce. Un membro del suo Comitato esecutivo non è più considerato italiano o francese, e Italia e Francia chiedono a Lorenzo Bini Smaghi di dimettersi perché è un italiano di troppo che deve lasciar posto a un francese: mera logica spartitoria per appartenenza nazionale in seno a un organismo che per definizione dovrebbe essere sovranazionale.
Se queste sono le premesse, siamo di fronte a una richiesta illegittima. Cosa impedisce, dunque, a Lorenzo Bini Smaghi di porre condizioni alla eventuale rinuncia di un suo diritto? E allora come si può pretendere che egli si dimetta, senza contrattare una contropartita, e in nome di una superiore ragion di Stato? Resista, metta un prezzo altissimo alle sue dimissioni e soprattutto non ceda al ricatto morale che lo addita a pietra dello scandalo. Lo scandalo sta nell’aver fatto mercato delle vacche in sede europea. Lorenzo Bini Smaghi ha pieno diritto di rifiutarsi di essere trattato come merce. Oppure di darsi il prezzo che ritiene giusto.    

venerdì 28 ottobre 2011

Patria


Tra governance e government

Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, un titolo che potrebbe essere uscito dalla penna di un epigono di Kant o di un precursore di Marx, forse massone, e invece sta in capo a 12 paginette del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Avrebbe dovuto fare un gran rumore, dunque, e invece è scivolato nel più irriverente disinteresse: il web lo ha snobbato e la stampa gli ha dedicato pochissimi commenti, quasi tutti scettici, perfino perplessi. Documento tanto ambizioso da sembrare velleitario, forse. Senza dubbio, innovativo. E qui sorge il problema. Perché un documento ufficiale della Chiesa di Roma può essere innovativo solo senza tradire il passato, soprattutto quello prossimo, e in questo caso, in più d’un punto e nell’assunto generale, il tradimento c’è. In poche parole, l’utopia di “un’autorità pubblica a competenza universale” non scivola liscia sulla dottrina sociale, e fa qualche attrito perfino sulla superficie della Caritas in veritate, che pure è sommamente ambigua. C’è un motivo, e questo spiega perché questo documento avrà vita breve e tormentata. Vediamo perché.
La gestazione della prima enciclica sociale di Benedetto XVI fu lunga quasi quanto quella di un elefante: nell’autunno del 2007 circolò voce che avesse preso a lavorarvi da alcuni mesi, ne fu annunciata la pubblicazione nel febbraio e poi nel settembre del 2008, per veder luce solo nel giugno del 2009. Sua Santità sembrava non essere mai contento del testo, che pare abbia avuto non meno di sei profonde revisioni e innumerevoli limature. Nell’attesa che fosse infine data alle stampe mi sono trattenuto molte volte sul perché di quel lungo indugio e ho scritto che proporre macrosoluzioni a macroproblemi è sempre un azzardo, anche per chi è ispirato dallo Spirito Santo, più che mai quando si tratta di affidarle alla prova dei fatti, da subito, e al giudizio del mondo, per sempre. Anche la Caritas in veritate doveva prendere la forma adeguatamente ambigua di tutte le encicliche sociali dalla Rerum novarum in poi per sembrare una ricetta insuperabile, ma per essere poi superabile, quando superata, senza dover essere manifestamente ritirata. Per non dover fare i conti con la fluidità dell’immanenza che inesorabilmente rimaneggia le dimensioni della conoscenza e della sensibilità umane, al magistero morale non resta che farsi nitido e intransigente, nel costante richiamo alla natura creaturale dell’uomo, nella quale sarebbe impressa una norma eterna, primigenia e immutabile. Al magistero sociale non conviene, perché l’arroccamento si tradurrebbe in autoemarginazione. Con la perdita del suo potere temporale, la Chiesa di Roma è costretta a fuggire la modernità sul piano morale, mentre su quello sociale è costretta a rincorrerla.
Cominciò con Leone XIII. Il socialismo ateo minacciava il primato della Chiesa nella cura dei disgraziati, e le encicliche sociali rilanciarono quel primato aprendo al mercato e alla libera impresa, però temperati dal solidarismo, inteso come emanazione attiva e permanente dei corpi sociali intermedi: una terza posizione tra socialismo e capitalismo che la Chiesa dichiarava antecedente ad essi, e che sembrò a tutti, ai cattolici innanzitutto, più aperta al capitalismo che disponibile verso il socialismo. Fino all’involuzione e alla crisi del socialismo, la Chiesa fu attivamente schierata in favore dell’economia di mercato, ma ribadiva che la “mano invisibile” non bastava, e che il capitalismo doveva farsi compassionevole, cioè informare i suoi meccanismi interni di una esterna e superiore logica dalla cifra morale. Era con ciò ribadito che Dio è carità, e che le forme della carità efficace non possono essere altro che momenti della sua incarnazione: la sovranità sociale di Cristo, politicamente sempre meno evidente, ribadiva la sua pretesa nel dichiarare che la dottrina sociale della Chiesa è necessità morale del gregge cristiano. È questo il solo assunto costante in tutte le encicliche sociali.
Ogni posizione intermedia tra la pura economia di Stato (l’abolizione della proprietà privata) e la pura economia di mercato (l’avido egoismo del cosiddetto liberismo selvaggio) diventava posizione in qualche modo accettabile dalla Chiesa, se prevedeva che ad essa fosse consentito di dettare le regole della solidarietà, con il suo ruolo diretto (associazionismo) o indiretto (ispirare le politiche sociali dei governi). Bisognava aspettare che il socialismo fallisse e che il capitalismo entrasse in una delle cicliche crisi di crescita perché la dottrina sociale della Chiesa riprendesse i connotati della pretesa della sovranità sociale di Cristo, cioè nella riaffermazione di una legge antecedente e superiore all’uomo, di cui i chierici sono custodi per mandato divino. Il fatto è che presto si sarebbe fatta viva la tentazione al socialismo, e ancora una volta la Chiesa sarebbe stata costretta a rincorrerlo. Siamo a questo punto e il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace prende un pericolo abbrivio, e lo scavalca.
Com’è potuto accadere? Scandalizzerà gli ingenui, ma nulla è più simile al socialismo quanto il cattolicesimo, anzi, prendendo a prestito le parole di Giovanni Spadolini, «si potrebbe dire che la Chiesa ha elaborato una sua dottrina “socialista” per sfuggire al pericolo del liberalismo. Il socialismo è, in sé, una tecnica di equilibrio e di sicurezza sociale, che non può contrastare coi fini della Chiesa. L’antitesi insanabile del pensiero cattolico è, al contrario, con l’economia liberale, che abolì l’obbligo di sostenersi a vicenda, svuotando l’idea stessa della solidarietà. [...] Per il cristianesimo, tale posizione è inaccettabile: l’iniziativa del singolo ha dei limiti, a cui ripara in ogni caso la carità» (Il papato socialista, Longanesi, 1969). Si avesse qualche dubbio, basti la illuminante lettura de Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato (Rizzoli, 2009 - soprattutto le pagine finali [287-299]) di monsignor Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco. E tuttavia il documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace va oltre: «Nel cammino della costituzione di un’Autorità politica mondiale non si possono disgiungere le questioni della governance (ossia di un sistema di semplice coordinamento orizzontale senza un’Autorità super partes) da quelle di un shared government (ossia di un sistema che, oltre al coordinamento orizzontale, stabilisca un’Autorità super partes) funzionale e proporzionato al graduale sviluppo di una società politica mondiale. La costituzione di un’Autorità politica mondiale non può essere raggiunta senza la previa pratica del multilateralismo, non solo a livello diplomatico, ma anche e soprattutto nell’ambito dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace. A un Governo mondiale non si può pervenire se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni [3] Un sano realismo richiederebbe il tempo necessario per costruire consensi ampi, ma l’orizzonte del bene comune universale è sempre presente con le sue esigenze ineludibili. È pertanto auspicabile che tutti coloro che, nelle Università e nei vari Istituti, sono chiamati a formare le classi dirigenti di domani si dedichino a prepararle alle loro responsabilità di discernere e di servire il bene pubblico globale in un mondo in costante cambiamento. È necessario colmare il divario presente tra formazione etica e preparazione tecnica, evidenziando in particolar modo l’ineludibile sinergia tra i due piani della praxis e della poièsis [4]». Tra governance e government, senza la rivoluzione, cosa?  

mercoledì 26 ottobre 2011

Monsieur fa bene a ridere dell’Italia



Qual è il giornale che più s’è speso in elogi a Nicolas Sarkozy, prima, durante e dopo la campagna elettorale che lo ha portato all’Eliseo? Un aiutino? Si tratta di un giornale del centrodestra. Non ci arrivate? Si tratta del giornale che per il discorso che tenne nella Basilica di San Giovanni in Laterano, nel 2007, gli fece un pompino di quelli indimenticabili. Ci siete? Bravi, si tratta proprio del giornale diretto da quel patetico pagliaccio che ieri si esibiva su un palco in piazza Farnese in favore di cinquanta astanti e duecento telecamere.
Monsieur fa bene a ridere dell’Italia. A me è sempre stato sul cazzo, ma ne ha tutto il diritto. Per dirne una: in Francia, con una popolazione di poco superiore a quella italiana, circolano solo 65.000 auto blu, poco più di un decimo di quante ne circolano in Italia. L’anno scorso erano 629.120, 21.000 in più dell’anno prima, 400.000 in più che nel 2005: il costo complessivo di questa enorme vergogna non è inferiore ai 21 miliardi di euro (i dati sono stati resi pubblici da Giulio Tremonti nel marzo del 2010). Pensate che nell’infinita serie di manovre e manovrine cogitate da questo governo di merda vi sia traccia di qualche taglio a questo sterminato parco macchine? Niente. 

martedì 25 ottobre 2011

Sennò non eravamo a questo punto

La bravura di chi riesce a venderti uno scampolo di moquette in poliestere e viscosa come tappeto persiano di pregio sopraffino sta tutta nel convincerti del fatto che, da grande intenditore qual sei, non puoi farti sfuggire l’affarone: quando ti capiterà più, e a un prezzo tanto conveniente, un parsibaft tanto omogeneo da sembrare quasi un axminster? Il patriottismo che Silvio Berlusconi è riuscito a suscitare in alcuni di voi è dovuto a questo tipo di bravura, che è del piazzista dalle doti eccelse.
Alla fine di un vertice dei capi di stato dellUnione europea, nel corso di una conferenza stampa, un giornalista chiede ad Angela Merkel e a Nicolas Sarcozy: «Silvio Berlusconi vi ha rassicurato circa le riforme che la Bce ha chiesto all’Italia?». È fin troppo evidente che il premier italiano non abbia potuto farlo, e qui a due scappa un sorriso imbarazzato, perché a dover essere sinceri, la risposta sarebbe: «No». L’imbarazzo dura quattro lunghissimi secondi, poi riescono a trovare una risposta: «Abbiamo fiducia nell’insieme delle autorità italiane, nelle istituzioni politiche, economiche e finanziarie del paese...». Come a dire: contiamo sull’Italia, ma, via, contare su Silvio Berlusconi è da sprovveduti.


Anche troppo buoni. Chi non conosce Silvio Berlusconi? Uno che fa il premier a tempo perso, che non schioda da Palazzo Chigi solo lì dentro può dirsi al sicuro, che fa fronte alle drammatiche emergenze del paese con un «qualcosa ci inventeremo», che amici e nemici danno ormai finito da mesi... Che garanzie può offrire, uno così? Anche troppo buoni, Merkel e Sarkozy. Ma se, come si è detto, i loro sorrisi imbarazzati sono stati uno schiaffo, questo schiaffo a chi è andato? All’Italia o a Berlusconi? «Abbiamo fiducia nell’insieme delle autorità italiane, nelle istituzioni politiche, economiche e finanziarie del paese...».  Nell’insieme, sì, ma non ci imbarazzate chiedendoci se Berlusconi gode della nostra fiducia: non gode più nemmeno di quella che gli italiani gli hanno dato nel 2008.
E dunque che senso ha questa isterica levata di patriottismo che dalle pance dei lacché di corte sale come un rutto e nei cretini che cercano un attestato di italiani super partes rumoreggia come un borborigma? Nessuno, se non quello di accettare, di ritorno, quella equivalenza tra paese e premier, tra Italia e Berlusconi, che può trovare senso solo in qualche residuale forma di simpatia per la monarchia assoluta. Siamo ben oltre pure al «right or wrong its my country», a meno che non valga l’equazione Italia = Berlusconi. Ma è come pagare uno scampolo di moquette in poliestere e viscosa al prezzo di un tappeto persiano di pregio sopraffino.


E allora comè che il piazzista si azzarda a tentare la sua truffa? Semplice. Abbiamo perso la capacità di capire la differenza tra tappeto e moquette. O non labbiamo mai avuta. Sennò non eravamo a questo punto.    
       

lunedì 24 ottobre 2011

Al diavolo!



«Un Pd dove ci si appassiona e ci si diverte»



«Ti vergogni se ti chiamo Pippo?»
Massimo Troisi

«Saramago, che era un rottamatore, diceva: “Non si deve avere fretta, ma non si deve perdere tempo”. È questo, il nostro tempo e, se fosse per me, se fosse per noi, il Pd sarebbe sempre così, quello che abbiamo visto in questa piazza: sarebbe il Pd, quello nostro, che fa incontrare il Palazzo e la Piazza, quello che si confronta alla pari con la società civile (noi la chiamiamo “civilissima”), che si spende con coraggio sulle battaglie che sono i suoi elettori i primi a sentire. Un Pd che non perde tempo, che alza il livello e però scende dal piedistallo. Un Pd che non si chiede, come Nanni Moretti, se “mi si nota di più se vengo o non vengo o se vengo e, soprattutto, mi metto in disparte”. Quello che coltiva le relazioni, che spiega le cose, che si muove senza imbarazzo, che dice a tutti la stessa cosa, dappertutto, sia che si trovi a parlare con l’operaio di Mirafiori, sia con l’imprenditore di Vicenza, nella piana di Gioia Tauro o in quella che non è più Padania (i leghisti, come sapete, sono in fuga) ma non sa ancora cosa fare davvero. Un Pd che si rivolga, come chiede Catarella al commissario Montalbano, “di persona personalmente” ai cittadini, indicando la soluzione per loro e non le nostre teorie sulle loro vite. “Dev’essere questo il posto”, dice un altro film molto recente: il posto che cerchiamo da tempo, il posto che molti sognavano nel 1996 e poi nel 2008. Dove fare un politica nuova, però, senza nostalgia se non le cose giuste da dire e quelle soprattutto da fare, con uno sguardo lucido verso il futuro. Un Pd dove ci si appassiona e ci si diverte, come abbiamo fatto noi in questi due giorni, dove credere che le cose si possono cambiare, perché le cose cambiano, però dobbiamo essere noi a farlo. Le nostre non proposte che ci siamo inventati, sono risposte. Sono risposte che muovo dal basso verso l’alto. Dobbiamo finalmente rovesciare il quadro della politica italiana…».

Qui – confesso – ho smesso di seguire con attenzione. Tuttavia mi è parso di capire: primarie pure per i parlamentari, lotta all’evasione, tutela del paesaggio, ritocchi al sistema pensionistico, patrimoniale giusta e intelligente, largo ai giovani – poi più nulla. Solida vaghezza, fumoso manifesto, tutto però confezionato in morbida velina. Una cover di Veltroni, il Pippo. D’altra parte, è già pronta la cover del cinico D’Alema, il Renzi.
Come Veltroni, il Pippo è cinefilo e sfoggia le letture giuste, in più ha pure lui il vezzo della w al posto della v (Veltroni nasce Valter, ma è poi all’anagrafe che si fa anglosassone). Il Renzi, invece, si compiace della scaltrezza e del cinismo che gli antipatizzanti gli stanno cucendo addosso: gli manca ancora un po’ di cattiveria, ma poi è pronto. Dei due prototipi si dice che galeotta fu la Fgci, qui diremo: “Tutto nacque al tempo de iMille”. 
E questo – detto senza ironia – pare sia meglio che il Pd può offrire, sennò restano Bersani e Bindi, Fioroni e Castagnetti,  Franceschini e Letta, e ancora, su tutto e sopra tutto, D’Alema e Veltroni, il primo carogna comme il faut, il secondo pop come si può. Al posto di Goffredo Bettini avremo Luca Sofri, il posto di Giuliano Amato sarà di chissà chi. 

[...]



domenica 23 ottobre 2011

Pierluigi Bersani non ha ritenuto necessario obiettare

Giovedì 20 ottobre, a Roma, si è tenuto un dibattito pubblico su “Vangelo e laicità”, organizzato dagli “Eventi di Elea”, al quale hanno partecipato monsignor Rino Fisichella e l’onorevole Pierluigi Bersani.
Forse è opportuno delineare meglio il contesto. Dal sito web della Elea S.p.A apprendiamo che si tratta dello «storico istituto di formazione fondato da Adriano Olivetti e acquisito dalla Chiesa tramite i Padri Concezionisti», per farne la «risposta cattolica» a Cernobbio, con «una speciale attenzione ai temi della geopolitica e dell’economia internazionale», su ispirazione del Segretario di Stato Vaticano, il cardinal Tarcisio Bertone. In pratica, Adriano Olivetti muore, l’istituto Elea si trova in difficoltà economica, la Chiesa lo rileva perché l’ottopermille non va tutto in ciotole di minestra per i poveri, ne dà la direzione a un genuflesso e ne fa un «foro di confronto sul magistero di Benedetto XVI, con l’intervento di personalità della Chiesa e delle Istituzioni, ai più alti livelli rappresentativi»: un altro “Cortile dei Gentili”, diciamo, ma rammentando che il cortile, come sempre, è quello del Tempio, solo che qui i laici non sono chiamati a confrontarsi sulla fede in Dio, ma sulla dottrina sociale della Chiesa.
Stavolta, dicevamo, è stata la volta di Pierluigi Bersani; l’ultima volta – sempre con monsignor Rino Fisichella – c’era Massimo D’Alema: «Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi». Il segretario del Pd non è stato altrettanto sfacciato, anzi, ha perfino fatto un tentativo di negoziare sui valori non negoziabili. Possiamo archiviare il suo intervento fra quelli da dimenticare, ma quello di Fisichella merita qualche attenzione.

L’Osservatore Romano di sabato 22 ottobre ne riportava ampi stralci, ma è su un passaggio saggiamente espunto, recuperabile on line, che vale la pena soffermarsi. Lo reinserisco dov’era originariamente, tra le parentesi: «Lo Stato afferma che in quanto laico non pone la religione a fondamento legislativo dei propri atti, perché riconosce la dovuta separazione tra i due ambiti. Nello stesso tempo, tuttavia, in forza del richiamo alla propria identità laica, non può negare né archiviare la religione; al contrario, è obbligato a riconoscerne la presenza e la funzione perché essa è preesistente al suo stesso affermarsi e organizzarsi come Stato. [Se la religione, quindi, viene riconosciuta dallo Stato laico come un fenomeno presente nella società, è ovvio che essa, nelle forme in cui dispone, si organizzi in modo tale da esercitare e incrementare il proprio influsso nella configurazione e nell’ordinamento della convivenza civile e di farlo contestualmente ai singoli processi di formazione del consenso politico, nonché in ragione della costitutiva capacità di fornire ai suoi fedeli determinati orientamenti nel rapporto tra i cittadini e lo Stato stesso.] Prescindere da questa considerazione equivarrebbe a non poter spiegare di fatto, ad esempio, la formazione dei partiti all’interno dello Stato democratico che si sono richiamati direttamente ai principi del cristianesimo».

Nella versione cartacea, dunque, un partito che si ispiri ai principi cristiani trae la sua legittimità dal fatto che la religione è preesistente allo Stato: in quanto credenti, i cittadini di fede cristiana hanno diritto di farsi partito per far valere i loro principi. Nella versione originale, però, è fatto chiaro che essi sono tenuti a trarre questi principi da un magistero che è quello della Chiesa di Roma, che dunque fa proprio questo diritto insieme a quello di orientare la linea politica di quello che così, a tutti gli effetti, diventa il suo partito.
Nel primo caso, abbiamo una versione opportunamente edulcorata: la religione è intesa come credo. Nel secondo, che correttamente esprime la pretesa dell’ingerenza clericale nella vita pubblica, la religione è intesa come confessione. I principi sono diventati orientamenti e in realtà non c’è grande differenza, trattandosi di una religione come quella cattolica: l’obbedienza al magistero della Chiesa di Roma è premessa indispensabile perché un cristiano possa dirsi cattolico.
Quanto di fatto è nella pretesa delle gerarchie ecclesiastiche viene significativamente attenuato da L’Osservatore Romano col taglio del passaggio nel quale Fisichella riafferma che per “cristiano” debba necessariamente intendersi “cattolico” (alla faccia di tutti i cristiani italiani che non sono cattolici) e per “cattolico” debba necessariamente intendersi “obbediente alle gerarchie ecclesiastiche” (alla faccia del dirsi cattolico per mera affiliazione ad una tradizione culturale), chiarendo in modo inequivocabile che il diritto dei cristiani di essere presenti in quanto tali nella vita pubblica debba necessariamente intendersi come diritto di ingerenza della Chiesa di Roma.
Dove Fisichella lasciava intravvedere le ragioni che fondano questa pretesa, L’Osservatore Romano le attenua e “religione” diventa un concetto sterilizzato. Chi si sognerebbe mai di negare a qualcuno di credere? Su quanto sarebbe normale ne segua, il giornale del Papa preferisce glissare.

Quanto segue nell’intervento di Fisichella sembra, così, riferirsi a un diritto del singolo cittadino di fede cristiana, ma in realtà si tratta di un diritto che le gerarchie ecclesiastiche rivendicano attraverso di lui: «Questo stato di cose – dice – mostra con evidenza quanto la concezione della laicità dello Stato presupponga che all’interno della società vi sia una presenza religiosa che svolga un legittimo impegno politico quando vuole perseguire delle finalità che sono espressione della propria fede, senza per questo dover essere accusata di ingerenza negli affari dello Stato o, al contrario, vedere emarginata e discriminata la sua azione. Uno Stato che dovesse perseguire una simile politica nei confronti della religione si porrebbe immediatamente fuori dal sistema di laicità a cui intende richiamarsi e negherebbe la sua stessa storia democratica».
Per potersi dire veramente laico, lo Stato dovrebbe considerare legittima l’ingerenza. Per potersi dire veramente democratico, lo Stato dovrebbe consentire che gli strumenti di una monarchia assoluta agiscano nei propri apparati per consentirle di perseguire fini che essa garantisce essere comuni. Se questa garanzia non è ritenuta valida, lo Stato non è più laico, non è più democratico. Pierluigi Bersani non ha ritenuto necessario obiettare. 

venerdì 21 ottobre 2011

Una morte postdatata



Non faceva la tintura da almeno due mesi.
 

giovedì 20 ottobre 2011

L’unico bandolo

Andarsi a rifugiare nel luogo in cui si è nati quando non si ha più alcuna via di scampo mi richiama alla mente, in due soli passaggi, la sepoltura del cadavere in posizione fetale presso tante civiltà primitive, che per i più sarebbe da interpretare come il desiderio del ritorno al grembo della terra che ha dato la vita e per altri – uno per tutti, Mircea Eliade – indicherebbe il predisporsi ad una rinascita. Non so quanta importanza possa aver avuto questo istinto per la Sirte di Muammar Gheddafi o la Tikrit di Saddam Hussein, anzi, penso che molto probabilmente la scelta sarà stata motivata da ragioni tutte pratiche e d’altra parte facilmente comprensibili. Tuttavia non è per le stesse ragioni – se ridotte all’essenziale – che il nostro profondo immagina l’utero materno come il luogo più sicuro?
Ecco, forse questo è l’unico bandolo di compassione che possiamo tirare dal groviglio di orrore nel quale un tiranno avvolge la sua vita, che ha sempre giusta soluzione nella morte violenta, checché si dica per buona educazione: si tratta pur sempre di un uomo e, pur avendo voluto farsi nemico dei suoi simili, fino a farsi disumano, spesso con determinazione bestiale, non ha potuto tradire fino in fondo la sua specie. Anche quando il delirio lo ha portato a sentirsi un dio, infine gli scappa sempre un “mamma!”.

“Sic”


“Sic transit gloria mundi”, e per il “sic” basta pigliare a esempio quel tale che avrebbe avuto un futuro assicurato come maestro di sci per miliardarie in menopausa e invece si è accontentato di diventare il più ridicolo ministro degli esteri italiano di tutti i tempi: “modello di democrazia per tutto il mondo arabo”, a febbraio, Gheddafi diventa il morto necessario, otto mesi dopo, alla “grande vittoria del popolo libico”.   

“Non è casuale”

Stamane, nel corso della sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha sollevato una interessante questione. Prendendo spunto dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea che di recente ha accolto un ricorso Greenpeace contro la brevettabilità dei procedimenti che utilizzano cellule staminali embrionali, ha rilevato che i cattolici non sono soli nell’ostinata difesa del principio di trascendenza che i conservatori di ogni risma intravvedono nella cosiddetta Natura – difesa tanto strenua che arriva inevitabilmente a immaginare come eticamente fondati i freni alla ricerca scientifica – ma spesso trovano alleati nelle frange più estremiste del movimento ambientalista. “Non è casuale”, ha detto Bordin, e infatti non lo è. Anche quello di certi “verdi” è fondamentalismo religioso. Sarà una religione che identifica il suo Dio nella Natura, e dunque il Creatore nel Creato, ma senza dubbio arriva a dichiarare sacro, e dunque intangibile, ciò che è “naturale”, e con analoga o pressoché simile argomentazione a quella che è opposta al progresso scientifico da quasi tutte le confessioni religiose.
Ne abbiamo un esempio nell’elogio che Benedetto XVI ha di recente tributato al movimento ecologista: “Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare… Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va, che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni… L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé” (Discorso al Bundestag, 22.9.2011).
In questa occasione non si è toccato il nervo scoperto che farebbe saltare il tavolo sul piano teologico tra teisti e deisti, che poi è proprio quello della distinzione tra Creatore e Creato, ma è evidente che tutte le alleanze costringono a mettere in secondo piano le questioni che caratterizzano lo specifico degli alleati. Questo asse tra i settori più integralisti del movimento ambientalista e quelli più retrivi del mondo religioso non è affatto nuovo. Qualche anno fa, su queste pagine, per gioco, spacciai il testamento di Unabomber per un’enciclica di Giovanni Paolo II: le ragioni contro il progresso scientifico, la globalizzazione e il capitalismo erano interscambiabili, sicché ritengo che il gioco reggesse a meraviglia.
In quanto alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, c’è poco da dire: troverà smentita in meno di 5 o 6 anni. Come fanno notare i filoclericali, pur con le immancabili forzature, essa introduce un principio di equiparazione giuridica tra persona e non-ancora-persona che alla prova della legislazione corrente non ha alcuna speranza di reggere. Una vittoria di Pirro che potrà frenare la ricerca scientifica per qualche anno, ma non di più. Come più volte la storia ha dimostrato, un papa col morbo di Parkinson non rinuncerà a curarsi con le cellule staminali embrionali, previo arzigogolo. Si dovrebbe partorire con dolore, ma si finisce per dir di sì allanalgesia da parto. E abbiamo avuto papi ferocemente ostili all’istruzione di massa, alla libertà di stampa, al suffragio universale... Poi non più. 

Ora basta con Il Foglio


 

Il Foglio è sempre stato un tag di questo blog. Con molta più assiduità negli anni passati, sempre meno negli ultimi due o tre, il giornale di Giuliano Ferrara mi ha dato molto materiale sul quale esercitare il mio hobby preferito: la decostruzione delle mistificazioni nei suoi moventi psicopatologici. Se l’esercizio s’è prolungato più del dovuto, è stato perché la malattia mentale che ispira Il Foglio è del tipo che Otto F. Kernberg ha magistralmente descritto nelle pagine dedicate al disturbo istrionico di personalità (Raffaello Cortina Editore, 1993), tanto pleomorfa negli strumenti mistificatori da offrire indubbiamente numerosi spunti di riflessione in ordine a questioni relative alla logica e alla retorica. E tuttavia è già da tempo che Il Foglio sembra aver esaurito il repertorio dei suoi trucchetti più sofisticati e non riesce che a produrne di meschini, tanto meschini che neanche vale più la pena di segnalarli. Insomma, almeno per il modo in cui l’ho sempre letto io, almeno per lo scopo che mi sono sempre dato nel leggerlo, la lettura del giornale di Giuliano Ferrara mi è diventata noiosa. Nemmeno più riesco ad incazzarmi, che pure può essere un buon motivo per continuare a leggere un giornale: prevale una sensazione di fastidio mista a pena.
Ma poi c’è un altro motivo che mi muove al passo che annuncio con questo post: se Il Foglio aveva un’autorevolezza nel panorama nella stampa clericofascista, che gli era data dal saper conferire una veste decente, talvolta addirittura elegante, al becerume degli argomenti cari ai reazionari e ai baciapile italiani, be’, a me pare che quell’autorevolezza non l’abbia più. Sarà che l’avrà persa nel mentre il centrodestra perdeva i suoi consensi, sarà che gliela conferivo io e a torto, non so. Un fatto è certo: Il Foglio ha perso più della metà dei lettori che aveva sette o otto anni fa, riceve sempre meno attenzione da osservatori seri che pure non gliela negavano e il suo direttore ormai è sempre più una patetica macchietta, sicché quellaria da pensatore che si era cucita addosso suscita più ilarità che ammirazione. In me, devo confessare, anche una puntina di disprezzo, ma del genere che non guasta l’appetito. Insomma, per dirla come deve essere detta, è da un po’ di tempo che commentare un articolo de Il Foglio o un editoriale di Giuliano Ferrara mi fa sentire un po’ ridicolo, come se si trattasse di un post di Pontifex o un corsivo di Marcello Veneziani, un sermoncino di don Livio Fanzaga o un saggio di Ida Magli. E se fino a qualche tempo fa leggere Il Foglio mi faceva sibilare un “che stronzo!” e mi spingeva a un commento, almeno da un anno, forse due, riesco solo a scuotere la testa pensando “madonna mia, che palle!”.
Per questo considero una felice coincidenza il fatto che l’ennesimo “che palle!” – stavolta davanti alla pagina che riproduco qui sopra  cade proprio nel giorno in cui scade il mio abbonamento al giornale di Giuliano Ferrara. Non lo rinnoverò e questo valga pure come avvertenza a quelle due o tre dozzine di conoscenti e amici che lo leggevano grazie alla password che avevo fornito loro. Da qualche tempo, peraltro, Il Foglio è leggibile solo dalle 3,00, anche se tra le condizioni di abbonamento resta detto che la copia è a disposizione dalle 24,00 in poi: non bastassero le ragioni fin qui esposte, mi manca il tempo per conservare unabitudine che non mi dà più alcuna soddisfazione. Se qualcuno dei miei lettori mi invierà qualcosa pubblicato su Il Foglio sollecitandomi un commento, può darsi che vi butterò uno sguardo, ma non si offenda se non risponderò in pubblico o in privato: vi dedicherò attenzione solo se davvero dovesse valere la pena, ma ho già detto perché lo ritengo difficile.
Poi cè unultima ragione: sta per nascermi un figlio, il terzo, e penso che sarebbe un vero sacrilegio sprecare anche un poco del poco tempo che mi resterà per scrivere su questo blog per estenuarmi nellormai logora polemica che ho tante volte opposto alle ragioni di un antiabortista che di figli ne ha abortiti proprio tre. Di uno che rompe il cazzo da anni sulla crisi demografica italiana e non è stato capace di dare altro contributo personale alla soluzione del problema se non con vuote quanto roboanti scacazzate di retorica.