domenica 2 dicembre 2012

Quanto rimane di Croce


A sessant’anni dalla morte, di Benedetto Croce ci rimane solo il «carattere». La sua logica e la sua estetica sono ormai coperte da uno spesso strato di polvere sotto il quale vanno a curiosare solo pochi eccentrici. Dei suoi studi storici, tolto quanto oggi sarebbe improponibile perché guasto già nel metodo, ci resta appena qualche pagina felice. Del critico letterario, invece, conviene tacere: non aveva altri strumenti che il gusto, peraltro assai discutibile. Così per il politico, che, visto alla giusta distanza, ha già da tempo rivelato tutti i limiti che stavano nel «carattere»: è a lui che dobbiamo il liberalismo meno liberale dEuropa, un liberalismo tutto metafisico, politicamente inerte, perfino un po codino.

Giudizio ingeneroso? A me non pare. D’altra parte, se vi è capitato di porgere l’orecchio a quanto si è detto di Benedetto Croce in occasione di questo anniversario, non avrete fatto fatica a cogliere qualche imbarazzo anche in chi ne incensava la figura, perché a levare tutto quanto è irrimediabilmente superato in ciò che scrisse resta appena il necessario per riempire mezza paginetta di enciclopedia: neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa, idealista di ritorno, insinuò nella cultura del paese lo sciagurato scetticismo verso la scienza che ci è costato, e ancora ci costa, il gravissimo ritardo che abbiamo accumulato nei confronti dell’Europa. Antifascista della secondora, attraversò il Ventennio senza  grosse difficoltà, accettando di buon grado il ruolo tacitamente pattuito col Regime, quello del dissidente al quale non veniva torto neanche un capello. Intanto pontificava: la vera libertà – diceva – è quella teoretica, che costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, la quale, insieme all’intuizione, è espressione dello Spirito, che si manifesta nella Storia come ipostasi dell’Io trascendente. La tragedia è che due o tre generazioni di intellettuali si sono sciroppati questo beverone.

Tra i discorsi commemorativi vale la pena di segnalare quello di Giorgio Napolitano, che dà la misura di quanto Benedetto Croce sia davvero morto, morto del tutto. Il filosofo, lo storico e il letterato stavano sullo sfondo, meglio evitare di metterli in primo piano, sennò sarebbe giocoforza entrato in scena Antonio Gramsci: il commemorando si è dovuto accontentare di mostrarci il «carattere», per giunta affacciato alla finestrella temporale di otto mesi tra il 1942 e il 1943. Cadono le bombe su Napoli e il Padre della Patria scappa a Sorrento, però è tanto triste, perché può portarsi appresso solo qualche migliaio di libri. Poi Sorrento non si rivela tana sicura e gli Alleati lo portano in motoscafo a Capri. Anche lì don Benedetto è triste, dorme poco perché pensa all’Italia sventrata e riempie il suo taccuino di elevati concetti…
Insomma, sarà stato senza dubbio involontario, ma ne è uscito un bel gavettone.

Cosa rimane di Benedetto Croce, oggi, oltre il «carattere», oltre quella figura di madonna pellegrina portata a spalla da Badoglio e da De Nicola? Tutto sommato, rimane solo il suo Perché non possiamo non dirci cristiani. Più citato che letto, d’altronde, sicché per tanti è un libro, e invece si tratta solo di quindici paginette. Puzzano come l’autore e forse questa è la volta buona per leggerle e commentarle. L’occasione mi è data dall’ennesima citazione. Era su Il Foglio di giovedì 29 novembre: «I laicisti non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo: Perché non possiamo non dirci cristiani». Coraggioso e innovativo? Sorvoliamo su tutte le altre stronzate disseminate nel testo – una per tutte: «Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche» – e passiamo a contemplare il coraggio e l’innovazione che stanno in 



Prima osservazione: «cristiani» sta tra virgolette. Non possiamo non dirci cristiani, ma dando a «cristiano» un significato diverso da quello che ci suggerisce un termine che sta per «seguace di Cristo». Anche se non vogliamo, anche se non volessimo, siamo «cristiani»: lo siamo anche se non siamo «seguaci di Cristo». Dunque dobbiamo? No, sennò avremmo trovato Perché dobbiamo dirci «cristiani» (un salto qualitativo che toccherà a Marcello Pera, mezzo secolo dopo). Qui invece vuol essere rappresentata una tensione che va dal resistere al cedere: Croce ritiene di essere in grado di convincerci, e infatti non mette neanche un punto interrogativo. Nelle sue intenzioni non c’è quella di convertirci sul piano religioso, ma su quello dove «cristiano» piglia un’accezione – non tarderemo a scoprirlo – culturale, dove però «cultura» ha significato estensivo e assume valenza di stadio antropologico.
Ma leggiamo.


Cominciamo male, con una reticenza.  «L’oggetto di questo discorso», infatti, è proprio l’autocompiacenza:  anche qui – vedremo – «spirito cristiano» sta per rappresentazione (ypo-krisis). Infatti si tratta di un discorso...  


Il problema è che si tratta di una storia «cristianamente» intesa, di una verità che è il risultato di un processo di inveramento «cristianamente» perseguito: ci muoviamo in una tautologia. 


Siamo dinanzi a un esemplare saggio di idealismo: il cristianesimo non è un fatto nella storia, ma un pensiero che la penetra e la muove. Per crederlo non  c’è bisogno di essere cristiani (credere che Dio si sia incarnato), basta essere «cristiani» («crocianamente»   cristiani): dare per scontato che il pensiero sia qualcosa che non nasce nella materia biologica, ma la informa. Levento non si chiama Cristo  – può anche non chiamarsi Cristo – ma è comunque irruzione del trascendente nellimmanente: in premessa è assunto come dimostrato che lo spirito si manifesti nella storia come ipostasi di un io trascendente. In altri termini, siamo dinanzi alla spiegazione del cristianesimo grazie al dogma che lo fonda. La persuasione crociana si rivela espediente retorico da rubricare come fallacia. Da subito ci è chiaro che Croce sarebbe stato più onesto se avesse scelto un altro titolo: Perché non posso non dirmi cristiano. Prova del nove?


Non può darsi ratio di una rivoluzione cristiana così sentita senza dare per scontato che lanima nel cui centro essa operò stesse lì da tempo ad attenderla, inadeguata prima e finalmente pronta proprio quando Dio decise di incarnarsi. Un cristiano (senza virgolette) ci vedrebbe il progetto divino, il «cristiano» di Croce ci vede il lavoro dello spirito. E infatti scrive:


Un cristianesimo che perde i suoi connotati teologici per diventare la cifra storicamente leggibile di un procedere umano mosso dallo spirito. Cè però da fare la dovuta distinzione tra spirito e Spirito Santo, sennò la tautologia sarebbe evidente in quanto tale. E allora Croce ci mette una toppa:


Fatto. La «forza trascendente e straniera» è diventata «atto originale e creativo». Il fatto è che per Croce la creazione – nel pensiero, nellazione, nel linguaggio, nellarte, nella storia – è sempre «creazione spirituale». Lo vedremo più avanti, tra due capoversi, quando respinge lobiezione (la «parola di critica rampogna») che questo voglia dire «idealizzare» le dottrine e i fatti, facendo rientrare dalla finestra il trascendente fatto uscire dalla porta: afferma che in quell«idealizzarli» è attiva l’«intelligenza» che li intende. In parole povere, lo spirito si intellige in ciò che ha creato.
Tutto il procedere di Croce sta in questo tentativo di fondare uno statuto dello  «spiritual come trascendente immanentizzato, sicché potremmo dire che tra cristiano e «cristiano» la differenza sostanziale sta nel momento in cui si coglie l’ipostasi: nel cristiano si ha con  l’avvento di Cristo, mentre nel «cristiano» è antecedente, per cui l’avvento di Cristo realizza la possibilità, prima negata, che lo spirito si riconosca in ciò che ha creato. L’evento, che per il cristiano segna una rottura nella storia (al punto che tutto di lì in poi sarà a.C. o d.C.), per il «cristiano» segna il superamento di una tappa. Vediamo cosa accade.    


La «creazione spirituale» è di fatto una scoperta: il trascendente opera nell’immanente un progresso che gli consente il ri-conoscersi. 


Siamo dinanzi ad una interdizione che in qualche modo è analoga a quella della Pascendi di Pio X: lì vi era il divieto di leggere il cristianesimo come capitolo di storia, qui vi è il divieto di sottoporlo a critica. Altro che «coerente prosecutore di Nietzsche»! Croce ci ingiunge di sospendere ogni giudizio addirittura sui mezzi coi quali il cristianesimo realizzò la conquista dell’occidente. 


Quella che Karlheinz Deschner ha definito Kriminalgeschichte des Christentums trova in Croce una sistemazione nella naturale difficoltà che la verità incontra nel processo veritativo: cataste di morti come trascurabile effetto collaterale del progresso umano in tensione verso lassoluto. E qui – sia consentito il bisticcio incrociamo Croce in un luogo comune molto trafficato in tutto il Novecento.  


Comincia a farsi chiaro perché non possiamo non dirci cristiani: significherebbe perdere centralità, egemonia, primato antropologico, significherebbe svendere loccidente. Siamo ad una elaborazione neanche troppo sofisticata del cristianesimo come instrumentum regni: Croce si fa apologeta del patrimomio di famiglia e ci invita a chiudere un occhio su come lo abbiamo accumulato.


Sembra di scorrere le pagine nelle quali Karl Marx elogia le virtù della borghesia, ma almeno in quelle le presenti condizioni dello stato borghese non sono affatto estranee al discorso, anzi. Croce, invece, tronca.  


Sospeso ogni giudizio su come siamo allapice del progresso umano, seduti sul groppone dei barbari che a buon diritto possono non dirsi cristiani, concediamo un occhio benevolo allalbum di famiglia e riscriviamo la storia degli antichi dissapori: il cugino accoltellò lo zio, il nonno azzoppò il babbo, ma in fondo, via, eravamo e siamo sangue dello stesso sangue.


Di fatto e di diritto siamo cristiani quanto il papa, forse anche di più. 


Non se ne voglia, il papa, ma sappia che in Gesù era preannunciato Croce. 


Non fosse chiaro:


Sicché: 


Come dire: Santità, abbia pazienza, ché Croce ci sta lavorando.


E qui, se siete veramente liberali, distinto vi dovrebbe scappare un «amen». Andate in pace, il discorso è finito. 

*       *       *

Questo è quanto rimane di Croce. Andrebbe seppellito insieme al resto. 



venerdì 30 novembre 2012

Toh!

È da qualche tempo che in Nigeria i musulmani ammazzano i cristiani e i cristiani ammazzano i musulmani: netta prevalenza degli ammazzamenti ad opera dei musulmani, che nel paese sono la maggioranza, sicché nel lamentare vittime non c’è gara e stravincono i cristiani. Martiri della fede? Per i più autorevoli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, Benedetto XVI in testa, parrebbe non esserci ombra di dubbio e dunque non ve n’è neppure per gli organi di informazione che controllano, mentre per quelli che diffondono in modo acritico le loro dichiarazioni sollevare obiezioni è peggio che bestemmiare: in Nigeria i cristiani sarebbero fatti oggetto di persecuzione a causa della loro fede, della quale si fanno testimoni fino al sacrificio della vita.
Davvero pochi a mettere in discussione questa tesi. Tra quei pochi, io. Ho sempre sostenuto che bastasse leggere le notizie che arrivavano dalla Nigeria, bastasse liberarle dal bozzolo retorico in cui erano avvolte dai nostri vaticanisti, pappagallini appollaiati sui capitelli del colonnato di Bernini e che vivono delle croste di pane che cadono dalla tavola dei porporati della Curia.
Non starò qui a ripetere il già detto, mi limiterò a farlo dire da un nigeriano, cattolico per giunta, incidentalmente vescovo, e di una diocesi calda. Monsignor Matthew Hassan Kukah dice: «Personalmente ho serie riserve sul fatto che si possa classificare quello che sta accedendo in Nigeria come persecuzione contro i cristiani. Per di più, sembra essere troppo frettoloso attribuire il martirio alle vittime» (Agenzia Fides, 30.11.2012). Nessuna persecuzione, nessun martirio, toh!   

«Sembra una “smoking gun”…»


Il diagramma riprodotto qui sopra è quello che Associated Press ha diffuso due o tre giorni fa con un commento a firma di George Jahn dal titolo Graph Suggests Iran Working On Bomb e che Il Foglio ha ripreso ieri con un articolo a firma di Giulio Meotti dal titolo Ecco la bomba iraniana.
A lungo si potrebbe disquisire su come Meotti abbia letto Jahn, d’altronde, già nel titolo, tutta la prudenza espressa con «suggest» va a farsi fottere per diventare «ecco», mentre i tre o quattro condizionali presenti nell’articolo di Jahn vengono liquidati con gran disinvoltura in quello di Meotti, e fin dall’incipit: «Sembra una “smoking gun”…».
Un velo di pietà cada sull’aver reso «microsecond» (che sarebbe un milionesimo di secondo) con «millisecondo» (che invece è un millesimo di secondo), tanto i lettori de Il Foglio sono allergici alle scienze esatte, che è roba da senzadio, e non ci avranno fatto neanche caso.
Imperdonabile, invece, infinocchiarli scrivendo: «Secondo David Albright, il documento è autentico», mentre invece quello, stando a quanto riferisce Jahn, ha detto che «the diagram looks genuine but seems to be designed more “to understand the process” than as part of a blueprint for an actual weapon in the making», tenendo a precisare che «the yield is too big».
Ma lasciamo perdere Il Foglio, che già abbiamo pizzicato mille volte in questo addomesticamento della stampa estera ai comodi porci propri, e passiamo all’articolo di Associated Press.

Jahn scrive che a passargli il diagramma sarebbero stati degli «officials from a country critical of Iran’s atomic program to bolster their arguments that Iran’s nuclear program must be halted before it produces a weapon», l’avrebbero fatto «only on condition that they and their country not be named». Diamo per certo che così sia, anche se è lui stesso a segnalare qualche incongruenza nel tessuto narrativo. Ma è normale che prima di pubblicarlo quelli di Associated Press non gli abbiano dato un’occhiata?
Certo, «the diagram has a caption in farsi: “Changes in output and in energy released as a function of time through power pulse”», ma esisteranno bignamini di fisica in lingua iraniana? Sì, perché una curva più o meno uguale correda ogni capitolo di bignamino di fisica dedicato alle reazioni termonucleari. Dice niente, poi, che la didascalia sia in iraniano e tutto il resto (power, energy, time) sia in inglese? Bignamino scritto in farsi, ma tabelle rubacchiate da un bignamino scritto in inglese. Sennò bisogna dedurre che gli scienziati iraniani usano la lingua del Grande Satana.
Quel 5 tra parentesi che sta nella didascalia, poi. «The number 5 is part of the title, suggesting it is part of a series», certo, ma «series» di cosa? Delle tabelle di un bignamino di fisica.
Via, per costruire quella curva non c’è bisogno di avere uranio e centrifughe, che in ogni caso è già abbondantemente dimostrato non mancano agli ayatollah, basta scopiazzare da nuclearweaponarchive.org.   

giovedì 29 novembre 2012

Cosa è successo?


Non sono mai riuscito a farmi prendere dal pathos che allo stesso tempo nutre e divora chi tifa per questa o quella squadra di calcio, ma devo ammettere che forse non mi sono mai impegnato come sarebbe stato necessario. Non è che ne abbia sentito la mancanza, devo dire. Al contrario, le folle che si esaltano o si disperano per un pallone che entra in rete o meno mi hanno sempre procurato un misto di fastidio e pena, che peraltro non ho mai dissimulato bene, nemmeno quando a consigliarlo era la buona creanza. È che certe manie fanno fatica ad attecchire, se non si pigliano in tenera età. Te le attaccano gli adulti che ti si offrono come modelli, e a me è mancato quello del tifoso: nonni, genitori, zii, insegnanti, non ne ho mai visto uno scaldarsi a un goal di Sivori o Mazzola, tiepidi perfino alle vittorie e alle sconfitte della Nazionale. Tutti malati di politica, invece, ma malati di brutto.
Tutti comunisti, per giunta, o comunque di sinistra, ma d’una sinistra seria, tosta, per nulla incline al sentimentalismo, anzi anche troppo pragmatica, dunque perfino un po’ cinica. Lares familiares che più a sinistra di Ingrao c’erano solo velleitari e più a destra di Amendola solo fascisti o criptofascisti. Per dare un’idea: ho imparato a leggere a quattro anni sillabando con mio padre i titoli degli articoli su l’Unità. Mio nonno – ricordo come fosse ieri – mi portava a passeggiare, ma si finiva sempre al tavolino di un bar, io a leccare un gelato e lui a battibeccare col primo democristiano che gli capitasse a tiro. Un pranzo di Natale, un picnic di Pasquetta, un Ferragosto sotto l’ombrellone, di regola, erano occasione per discutere di politica, ma si legga il discutere come eufemismo. Così tutta l’infanzia, poi lezioni di letteratura, storia e filosofia che sembrava di stare alle Frattocchie: sarà stato un caso, ma fatta eccezione per un fascistissimo prof di matematica alle medie, una prof di italiano che al liceo ci indorava Benedetto Croce e le ridicole macchiette dell’ora di religione, ho avuto solo insegnanti che dell’insegnamento avevano un’idea militante, e suppongo sia superfluo dire di quale milizia. Tra tutti giganteggiava il mitico Salzano, baffi spioventi, lieve strabismo divergente che gli dava un’area perennemente assorta in cose alte, d’un marxismo tanto scientifico che potevi saggiarlo all’oscilloscopio. Il calcio? Per tutti, senza appello:  l’oppio dei popoli. «Roba da sottoproletariato o da piccola borghesia»
E allora perché queste primarie mi sembrano una partita di pallone? Non si tratta – quest’è il giudizio unanime – di una prova di «buona politica»? Perché non riesco a vedere altro che polpacci e urla? Perché tanta brava gente in fila per votare Renzi o Bersani mi sembra in tutto uguale a quella in fila per entrare allo stadio e tifare Milan o Inter? Com’è che tutto questo gran discutere mi lascia indifferente? Il nuovo che ci voleva proprio, l’usato sicuro che certo non si può buttar via – l’uno o l’altro, anzi no, l’uno e l’altro, perché i muscoli freschi, sì, ma pure l’esperienza conta – com’è che questa Tribuna Politica mi sembra una Domenica Sportiva? Li guardavo l’altra sera, su Raiuno. Si stringevano la mano e sorridevano: mi sembravano in pantaloncini e coi gagliardetti in mano, pochi istanti prima del lancio della monetina. Chi accidenti ha ridotto a derby quello che un tempo avrei seguito come uno scontro politico? Ripenso ai congressi del Pci e della Dc e questa qui mi pare una partita tra le Coop e la Compagnia delle Opere. Lì il fair play era un obbligo pesante e non se ne dissimulava il peso, qui sembra quasi faccia punteggio.
D’istinto mi domando: cosa è successo? Prima la politica era merda e sangue, poi è diventata solo merda, vorranno mica farla diventare pubblicità comparativa tra marche di carta igienica che si contendono il primato del rotolo più lungo e più morbido? Subito arrossisco e umilmente mi correggo: cosa mi è successo? 

domenica 25 novembre 2012

Il compromesso

L’amabile colloquio tenuto qualche giorno fa da Giuseppe Vacca e Francesco D’Agostino (Bioetica, stop alle «doppie morali»Avvenire, 21.11.2012) mi ha fatto tornare con la memoria agli ultimi mesi del 1973.
A quei tempi ero poco più di un ragazzino ed ero iscritto alla Fgci. I quattro articoli coi quali Enrico Berlinguer annunciava su Rinascita la svolta del compromesso storico portarono bufera nella sezione del Pci che frequentavo con grande assiduità. C’era chi era favorevole a prescindere, perché «le decisioni del Partito non si discutono», e chi più o meno efficacemente provava ad argomentarle, quelle decisioni, per lo più riprendendo gli argomenti di Enrico Berlinguer, e mettendoci del suo, secondo le possibilità. Questo era il donde di un Partito con la p maiuscola: una comunità che si fa chiesa non regge che sullobbedienza, puoi chiamarlo Spirito Santo o centralismo democratico. Poi, ovviamente, c’era chi era contrario, ma quello era il Pci ed essere contrari alle decisioni del Partito significava per lo più mugugnare un po’, per poi accettarle, oppure andarsene. E infatti alcuni andarono via, e io con quelli.

Furono mesi di un gran discutere, la passione faceva volare le sedie, insomma, tesi e antitesi cercavano la sintesi. Non voglio tirarla troppo per le lunghe, dal quel gran discutere traggo solo una battuta che in quei mesi fu assai ricorrente: «È solo tattica». In pratica, sì, il Pci si offriva al dialogo e alla collaborazione col mondo cattolico (sineddoche di Dc) ma rimaneva il Pci di sempre. Era proprio quello che affermavano i cattolici (sineddoche di democristiani) contrari all’ipotesi di compromesso storico (non tutti, ma la maggioranza, sì). Era un modo di leggere la posizione del Pci sulla «questione cattolica» che era tornata comodo a Pio XII e a Palmiro Togliatti, ma era davvero quello il punto? In altri termini: le due culture erano poi così inconciliabili? C’era davvero antitesi irriducibile tra i due modelli di individuo – anzi, di persona – che proponevano?
Be’, io non l’ho mai creduto. Anzi, per dir meglio, ho cominciato proprio allora – una quarantina d’anni fa – a credere che le innegabili differenze tra un cattolico e un comunista siano tutte di superficie: nel fondo, lì dove le dottrine si riducono a un umore, a un atteggiamento, a una postura psicologica, un comunista e cattolico – un Giuseppe Vacca e un Francesco D’Agostino, per tornare all’incipit – si somigliano più di quanto sembrerebbe lecito supporre.

Qualche esempio? «Nella vita concreta e nell’evoluzione della orale comune hanno un’influenza esorbitante i processi di secolarizzazione a prospettiva nichilistica», chi può averlo detto? Il «vecchio comunista italiano di impronta togliattiana», come si autodefinisce Giuseppe Vacca.
«Invochiamo una nuova alleanza tra credenti e non credenti che ci pare la premessa fondamentale per evitare il bipolarismo etico e cercare di rompere la spirale secolarizzazione-nichilismo facendo crescere un umanesimo condiviso», chi può averlo detto? Sempre lui, Giuseppe Vacca.
«È difficile affermare che la disponibilità sulla mia vita sia un diritto individuale, poiché non mi sono autogenerato», chi può averlo detto? Sempre lui, Giuseppe Vacca.
«L’amore l’affetto, la solidarità sono importanti, ma quello che definisce la famiglia o la generazione», l’avrà detto Francesco D’Agostino? Macché, l’ha detto Giuseppe Vacca. Francesco D’Agostino si limita a chiosare, comprensibilmente soddisfatto: «Sono affermazioni molto impegnative queste di Vacca… Apprezzo moltissimo quanto ha detto Vacca…».
Comune umore, comune atteggiamento, comune postura psicologica – dicevo. Poi, certo, può darsi che l’art. 7 della Costituzione sia stata una furbata di Togliatti, può darsi che l’elogio di santa Maria Goretti fatto da Berlinguer sia stato un strizzar d’occhio, può darsi, insomma, che si sia consumato anche del tatticismo. Ma quanto Vacca dice a colloquio con D’Agostino rivela affinità profonde che hanno in solido lo stesso modello di persona e di società.

«È giunto il tempo che cattolici e no capiscano che bisogna rimboccarsi insieme le maniche, perché il bene umano non è né confessionale, ne meno che mai ideologico: semplicemente è il bene di tutti», auspica D’Agostino: è la sua offerta di compromesso storico. Ora che i comunisti non sono più pericolosi – lo dimostra il fatto che a loro nome parla uno spelacchiato togliattiano che la storia ha chiuso in una stanza piena di libri – il compromesso è possibile: in nome del «bene comune», che poi è l’unico bene valido per tutti, quello che a tutti può e deve essere imposto – per il loro bene, appunto – e quale sia ce lo faremo spiegare da chi ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Tutt’altra cosa del bene di ciascuno nel rispetto del bene altrui – quello, si sa, è nichilismo.


Nota
Mi accorgo solo adesso che Sandro Magister commenta il dialogo tra Vacca e  D’Agostino, titolando Da Gramsci a Ratzinger. Ecco, perfetto.

sabato 24 novembre 2012

[...]


Ho sognato che a sorpresa vinceva Tabacci e che molti analisti si suicidavano. Delle due, mi pareva più strana la seconda.


Chiamate un’ambulanza


Volevo commentare un articolo che è apparso l’altrieri sul giornale della Cei (Il teologo sale sul disco volanteAvvenire, 22.11.2012) e nel quale le questioni teologiche poste dall’eventualità di una vita intelligente extraterrestre erano in gran parte eluse e per il resto affrontate con strabiliante superficialità. L’intenzione era quella di segnalare il penoso stato in cui versa la teologia cattolica, da tempo ridotta a mero esercizio di sofistica, ormai incapace di piegare la ragione alle mirabili tautologie dei suoi tempi d’oro, ma volevo tenermi sul leggero, così ho deciso di aprire il post con un cenno all’ufo avvistato da Roberto Formigoni nel cielo di Parigi: «Un mistico avrebbe ipotizzato altro…».
Lì, però, m’è venuto in mente che avevo già trattato l’argomento (Funes – Malvino, 12.11.2009) e così ho lasciato perdere. Avrei cestinato le due righe su Roberto Formigoni, se non fosse che tutto ciò che avevo letto a commento del suo tweet aveva – a buon motivo, ovviamente – il piglio ironico o quello sarcastico: nessuno che spendesse mezza parolina sul fatto che la prima ipotesi venuta ad un ciellino dinanzi a quell’evento fosse quella del disco volante, non dell’arcangelo Gabriele con la sua spada fiammeggiante in pugno. 
Poi è capitato che con una email Luca Massaro mi segnalasse il post nel quale Roberto Formigoni faceva il «bilancio» delle reazioni alla sua «iniziativa» che ha rivelato avesse «carattere volutamente ironico»: «La risposta della rete – ha scritto – è stata straordinaria: oltre 5000 tweets, con tantissimi retweets per oltre 1,6 milioni di visualizzazioni. La rete ha capito subito l’ironia e moltissime sono state le risposte di fantasia e simpatia. C’è stata la solita cinquantina di twittatori critici o sarcastici, ma la stessa ripresa della notizia da parte delle 20 principali testate giornalistiche online, per non dire della ripresa da parte di tantissime altre testate, meno note ma non per questo meno attente e interessanti, ha evidenziato la “novità” dell’iniziativa: il fatto che un cittadino posti un’immagine su Twitter non è una novità, nuovo invece è il fatto che un politico posti un’immagine curiosa scattata con un cellulare o con una macchina fotografica. Nuovo, cioè, è il fatto che un politico non stia sul piedistallo ma utilizzi i nuovi media con ironia e sguardo critico postando foto curiose»
Be’, devo confessare che questo mi ha scosso profondamente. Nel commiserare il ciellino orribilmente sfigurato dalla rogna del secolarismo pensavo di aver visto troppo, e invece avevo visto troppo poco: quello che fotte Roberto Formigoni non è la mondanizzazione, ma una grave patologia. L’uomo è malato, ma davvero tanto. Non siamo di fronte ad un disturbo del carattere, siamo di fronte a un quadro clinico che configura con estrema nitidezza un caso di psicosi, e bella grossa.
Non ho mai dedicato troppa attenzione a Roberto Formigoni. L’eco delle sue bizzarrie mi raggiungeva dalla stampa e dal web lasciandomi perplesso, ma incapace di lasciarmi andare a una battuta: mi sembrava fosse troppo facile, come sparare sulla Croce Rossa. Meno male non l’ho fatto, sennò adesso sarei afflitto dal rimorso di aver preso per il culo un povero matto. Al quale è dovuto tutto il rispetto che si deve a un malato, ma che ovviamente è bisognoso di cure. Urgenti, direi, sennò arriviamo al punto che una di queste volte ce lo ritroviamo accoccolato a cagare in Piazza del Duomo e a pretendere, il giorno dopo, gli applausi degli storici dellarte.
Ecco, con questo post intendo lanciare un appello: smettete di sfottere il Celeste, mostrate senso civico, chiamate un’ambulanza. 

venerdì 23 novembre 2012

[...]


Un mistico avrebbe ipotizzato altro, ma qui non ci si poteva aspettare di più. Povero Formigoni, mondan(izzat)o senza speranze, e del peggior mondo.

giovedì 22 novembre 2012

Bimbi e babbi


Bisogna piangere due volte per i bambini palestinesi, quando muoiono e quando no. Nel primo caso, infatti, muoiono da scudi umani. Anche i barbari dall’indole più beluina provvedono a proteggere i propri figli quando sono in guerra, anteponendo a tutto la loro sicurezza. Non i palestinesi, che a piangere i loro figli morti sono bravi come tutti i padri, ma a lasciarli per le strade quando piovono pietre e pallottole, a nascondere terroristi in condomini affollati di bambini, a piazzare un mortaio sul tetto di un asilo, be’, sono insuperabili. Prim’ancora dell’ammazzare una presunta spia senza concedergli la difesa in un processo, per appenderne il cadavere dietro un motorino e trascinarlo sull’asfalto delle vie di Gaza tra urla e sghignazzi, questo c’è di disgustoso nei palestinesi: usano i figli come materiale bellico, per lo più come sacchetti di sabbia accatastati attorno alla santabarbara, sennò tornano buoni coi loro corpicini straziati, dopo, per la propaganda. 
Piangerli quando muoiono, dunque, ma anche quando non muoiono, perché verranno educati per diventare uguali ai loro padri, e a loro volta padri, e dello stesso genere. Stringere in mano una pistola, a sei anni, sarà motivo di orgoglio, per il babbo e dunque per il bimbo, per il bimbo e dunque per il babbo. A entrambi andrà il sorriso compiaciuto di un capo di Hamas, che pure deve essere stato bimbo, pure deve aver avuto un babbo.

mercoledì 21 novembre 2012

In difesa di don Alberto Barin


Il cappellano del carcere di San Vittore è accusato di violenza sessuale e concussione. Pare che le prove raccolte dagli inquirenti siano schiaccianti, ma è meglio aspettare il processo e la sentenza. Fosse assolto, d’altronde, non ci stupiremmo. È arcinoto, infatti, che il clero cattolico è sempre più frequentemente fatto oggetto di aggressione da potenti lobby anticristiane, abilissime nel confezionare calunnie per screditare nel singolo sacerdote l’intera istituzione ecclesiastica, infiltrando negli oratori bambine ninfomani o ragazzini estremamente provocanti che lo farebbero venir duro pure a un santo. Non ci stupiremmo neppure se don Alberto Barin fosse condannato, però. La convinzione di stare un palmo sopra al laico, da pastore cui è affidato un gregge, è instillata nel chierico fin dal seminario. Si tratta di un retaggio che un tempo valeva per tutti i chierici su tutti i laici, ma che oggi il prete può sfogare solo sui i minori, i minorati e i deboli in generale, non esclusi i carcerati. Che facciamo, vogliamo chiudere i seminari?
La questione, a ben vedere, è di contesto e potrebbe essere posta in questi termini: che cazzo ci stanno a fare i preti in carcere? Assistono spiritualmente il detenuto, si dice. Anche quando il detenuto è musulmano o ateo, pare. Sul piano logico la cosa è un poco traballante, ma va avanti così da un pezzo, perché cambiare? Lasciamo perdere. Non è tutto, però, perché forniscono anche assistenza materiale, pare. Vestiti, saponette, carta igienica, dentifricio, cose così. D’altra parte, è su questo genere di carità a basso costo ed alto ricavato che il cattolicesimo ha costruito la sua fortuna. Ma forse qui sono ingeneroso. Diciamo che l’ha costruita sul dentifricio ai carcerati e la minestra ai barboni, ma anche sulla bellezza della Cappella Sistina.
Mica è tutto, però. Il cappellano carcerario fa parte della commissione che redige il regolamento interno dell’istituto di pena e concorre alla formazione del giudizio che il magistrato di sorveglianza dà del detenuto al fine di decidere dei benefici, dei permessi, ecc. D’altronde, l’art. 15 del regolamento penitenziario nazionale recita che «il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive…». Visto? C’è pure la religione. Lo Stato è laico, ma la contempla tra i trattamenti. E allora – dite – perché non chiudere un occhio su don Alberto Barin? Può darsi – dico: può darsi – abbia abusato un pochino, ma è l’occasione che fa l’uomo ladro, e poi la carne è debole… Insomma, considerate le attenuanti.
Prima di tutto, però, garantismo. In mano agli inquirenti ci sono i video in cui il cappellano di San Vittore riscuote favori sessuali in cambio di un rotolo di carta igienica, di un tubetto di dentifricio, della promessa di mettere una parola buona con il direttore del carcere o con il magistrato di sorveglianza, ma fino a quando non ci sarà il processo, ed eventualmente la condanna, gli sia dovuto il massimo rispetto, si eviti la gogna mediatica, qualcuno ne prenda le difese.
I radicali, per esempio, non foss’altro perché don Alberto Barin si è sempre espresso in favore di un’amnistia. Ecco, questo getta un dubbio sulle accuse, l’intellettuale collettivo di Via di Torre Argentina non dovrebbe faticare a trovarvi il punto debole: con l’amnistia non ci sarebbe andato a perdere? Sentitelo nell’intervista che diede l’anno scorso a Radio Radicale: «La settimana scorsa un ragazzo è venuto a messa non solo per pregare, ma per chiedere un rotolo di carta igienica» (*). Uno che probabilmente con l’amnistia sarebbe fuori e potrebbe fare a meno della messa, cioè della carta igienica, insomma, una scopata persa, e tuttavia... Vuoi vedere che si tratta di un altro caso Tortora?  

martedì 20 novembre 2012

Sei sfessati


Immaginate di essere in possesso della prova che dietro la sentenza costata 560 milioni a Mediaset ci sia stato un imbroglio: volete venderla a Berlusconi, come vi muovete? Fate una telefonata a Ghedini per aprire la trattativa o accroccate una banda di sfessati, tutti schedati, per sequestrare Spinelli e usarlo come intermediario? Se davvero avete in mano quella prova, che bisogno avete di complicare le cose, col rischio che qualcosa giri storto, e tutto vada a rotoli? No, non regge.
Proviamo, allora, a fare un’altra ipotesi. In mano non avete niente, ma sapete che, se esistesse, quella prova sarebbe assai appetibile a Berlusconi. Allora decidete di tentare il colpo gobbo con un bluff. Cominciate col rendere ancora più appetibile il paccotto. Dite che l’imbroglio dietro la sentenza è stato orchestrato da uno che, potendo, Berlusconi strozzerebbe con le sue mani. Di più, se esistesse, la prova dell’imbroglio comprometterebbe il giudice che lo ha salassato, sarebbe una mazzata terribile per tutta la magistratura e smerderebbe il rivale in affari col quale è in guerra da decenni. Con un piccione piglierebbe tre fave: potete sparare una cifra grossa. Però avete bisogno di rendere incalzante la richiesta per evitare che la controparte sospetti la truffa e prenda tempo: con la vita di un ostaggio in gioco la chiusura delle trattative si renderebbe urgente.
Regge? Non regge. Avete deciso di truffare Berlusconi, mica un fesso. Potrà essere preoccupato per Spinelli, forse, ma sa che a farlo fuori non ci guadagnereste niente. D’altronde non lo state ricattando con una seria minaccia di inguiarlo, gli state solo proponendo un affare, ed è un affare che puzza di bluff. No, non regge proprio.

E allora come vanno sistemati i pezzi perché tutto torni? Solo in un modo, vediamo quale. Siete sei sfessati. Avete saputo dai giornali che ogni lunedì Spinelli è imbottito di contanti e avete deciso di alleggerirlo. Non gli trovate addosso quanto speravate. Decidete di cambiare il piano in corso d’opera e la rapina diventa un rapimento. Vi mettete in contatto con Ghedini e chiedete un riscatto. E qui vi viene fatta la controproposta.
Pigliatevi 8 milioni, liberate Spinelli e impegnatevi a non smentire la versione che gli faremo dare di tutta la vicenda. Diremo che eravate in possesso della prova che dietro la sentenza costata 560 milioni a Mediaset c’è stato un imbroglio o che almeno questo è quanto sostenevate di poter provare: certe cose non importa se sono vere o meno, basta siano possibili per poter essere presentate come verosimili, ci penseranno Sallusti e Ferrara.
Diremo che non vi abbiamo creduto e non vi abbiamo dato un euro, sicché avete liberato Spinelli e siete scappati via. Per voi l’importante sarà averci guadagnato, per noi dare da scrivere a Sallusti e Ferrara in attesa della sentenza in Cassazione. Vi verseremo il denaro su un conto sicuro, così se vi beccheranno lo preleverete a fine pena, con gli interessi. La pena, in ogni caso, non sarà troppo pesante. In fondo a Spinelli non avete torto un pelo. E lo avete liberato senza prendere un euro: non era una rapina, non era un rapimento, era un tentativo di truffa. 


Buio fondo

La statua di Giovanni Paolo II faceva così schifo che era inimmaginabile potesse fare ancor più schifo dopo le correzioni che si erano rese necessarie a fronte dell’unanime raccapriccio che aveva provocato la sua vista quando le fu tolto il velo alla Stazione Termini di Roma, nel settembre dello scorso anno. Bene, Oliviero Rainaldi ha impiegato un anno, ma è riuscito nell’inimmaginabile: se prima la sua statua sembrava un vespasiano con la porta socchiusa, adesso sembra un vespasiano con la porta lasciata spalancata. Ciò che lascia sgomenti, tuttavia, è il risultato del rifacimento della testa. Per vederci una somiglianza a Karol Wojtyla, prima, c’era da sforzarsi, e non di poco. Ora ci si può sforzare pure fino a cagare sangue, ma riesce più somigliante a un Pio XI senza occhiali o a un Paolo VI gonfio di cortisone che a un Giovanni Paolo II pur se tenuto per sette anni in formalina. Viviamo tempi bui, è vero, nessuno si aspettava un Michelangelo per la prima versione, né un Bodini per la seconda, ma qui il buio è buio fondo: tengono banco temi futili come le primarie del Pd, il solito masochismo dei palestinesi,  l’ennesimo burlesque di Berlusconi, ma sul peggiore insulto a Roma da quanto fu spianato Borgo Pio per farci Via della Conciliazione, niente, neanche un sampietrino, neanche un lacrimogeno.      

domenica 18 novembre 2012

[...]

Giusto un mese fa, su Twitter, Gaia Carretta confessava la fatica: «In questi giorni vorrei essere la portavoce del presidente della provincia cinese di Shanghai» (*). Immagino la scena. Han Zheng la guarda e dice: «我看了你的简历...» («Ho letto il suo curriculum vitae...»). Antonio Di Pietro, Claudio Velardi, Roberto Formigoni... «对不起,我是一个好人...» («Spiacente, io sono una persona perbene...»).

venerdì 16 novembre 2012

Eliminated


Nell’auto c’era Ahmed Jaabari, leader dell’ala militare di Hamas, un eroe per la sua gente, un gran pezzo di merda per i civili israeliani sui quali lanciava i suoi qassam da qualche tempo in qua. Del filmato colpisce la sensibilità di chi aspetta che il bersaglio sia a debita distanza da altre autovetture prima di premere il grilletto, probabilmente per evitare di far vittime innocenti, poi nient’altro, il video è in tutto simile alla schermata di un wargame. Ci si metta per un istante nei panni dei palestinesi, che ora hanno un altro martire da piangere e da indicare come fulgido esempio ai loro ragazzini. Poi ci si metta nei panni degli israeliani, per i quali adesso al mondo c’è uno stronzo in meno. Fatta questa rapida operazione, si troverà del tutto naturale che a Gaza si strepiti di rabbia e si mediti vendetta, e che a Tel Aviv si tiri un mezzo sospiro di sollievo, preparandosi a parare un’eventuale azione ritorsiva: nulla di strano che a Gaza qualcuno stia ritoccando il ritratto di Ahmed Jaabari ovattandolo della luce che si respira in paradiso e vergandogli alle spalle un bel versetto del Corano, ma che c’è di strano che a Tel Aviv qualcuno abbia ritoccato una sua foto in questo modo?


A Massimo Mantellini non piace, dice che gli «sembra la brutta copia della pubblicità di uno sparatutto». E grazie al cazzo, si tratta dell’annuncio che un nemico del popolo israeliano è stato fatto fuori, voleva i puttini alati come nei santini? «Da solo racconta qualcosa degli israeliani che in fondo sapevamo già», aggiunge, raffrenandosi in una reticenza, tanto più fastidiosa quanto più gratuitamente allusiva. Cosa sapevamo già degli israeliani che renda questa foto un oltraggio al buongusto? Si può solo andare per ipotesi: gli israeliani trattano il pericolo da pericolo, e quando lo hanno eliminato dicono che lo hanno eliminato. E questo dovrebbe sembrarci orribile?     

giovedì 15 novembre 2012

Säkularisation

Carl Schmitt vede «il passaggio decisivo dal diritto internazionale medioevale a quello moderno, da un sistema di pensiero ecclesiastico-teologico a uno giuridico-statale» (Il nomos della terra, Adelphi 1991 - pag. 134) nell’ingiunzione che Alberico Gentili (1552-1608) rivolge ai chierici nelle sue Commentationes de jure belli (1588): «Silete, theologi, in munere alieno!» (I, XII), che con un po’ di libertà nel tradurre sarebbe: «Chiudi il becco su ciò che non ti compete, prete!».
È qui, secondo molti (Lübbe, Rèmond, Borghesi, ecc.), che si rompe l’egemonia culturale che il clero ha detenuto per quasi un millennio e prende avvio quel processo che è detto «secolarizzazione». E tuttavia il termine compare per la prima volta solo due secoli più tardi, col Reichsdeputationshauptschluss del 1803, nel quale Säkularisation sta a significare confisca dei beni ecclesiastici. Il processo di emancipazione dall’egemonia culturale del clero, insomma, riesce a trovare un nome solo quando al prete vengono strappati i privilegi che gli hanno consentito di esercitarla.
Ormai di ciò rimane traccia solo nei dizionari, dove la «secolarizzazione» è innanzitutto «il passaggio di beni, oggetti, cose, istituzioni, valori dalla dipendenza del potere ecclesiastico a quella del potere civile» (Treccani), mentre il suo significato corrente sta esclusivamente negli effetti di questa spoliazione: il trascendente non è più fonte del diritto, l’uomo ha perso la sua dimensione creaturale, il divino è stato estromesso dal sociale, l’autorità morale della Chiesa collassa.
Si è appena chiuso un Sinodo dei Vescovi nel quale il termine è stato usato di sovente, mai per rammentare che in origine apparteneva esclusivamente al lemmario giuridico: «secolarizzazione»  ha significato esclusivamente «scristianizzazione». Il paradosso sta nel fatto che la Chiesa si dichiara Spirito incarnato, ma sembra aver perso la faccia tosta per pretendere, com’è stato per secoli, che Dio abbia tanto più spazio nel sociale quanto più grassa sia la pancia dei propri ministri. Insomma, pare presa dal pudore di ammettere che il «ritorno del sacro» altro non sia che una richiesta di risarcimento fuori tempo massimo.      

martedì 13 novembre 2012

Verosimilmente, per effetto analogico


Democrazia è termine ambiguo, tutto sta nel significato che si dà a demos, che a volte è plethos, a volte è ochlos, a volte non si sa cosa accidente sia. Quando poi a democrazia si dà un aggettivo, le cose si complicano, e di molto: anche kratos si fa elastico nei suoi sinonimi e tra un sistema democratico ed un altro può arrivare ad esserci più differenza che tra una tigre e un gattino, che pure sono tutte e due felini. Parafrasando quel furbastro di Agostino, potremmo liquidare la questione dicendo che la democrazia è quella cosa che, se non mi chiedi cos’è, so bene cosa sia, ma smetto di saperlo appena me lo chiedi. Di certo, tuttavia, c’è che oggi avremmo seria difficoltà nel definire democratica la democrazia che vide luce nell’antica Grecia, dunque siamo dinanzi a uno di quei tanti termini che non trovano piena ragione nella loro etimologia e che hanno avuto sorte travagliata col dissolversi del contesto nel quale hanno visto la luce.
Qui, per inciso, metto un mea culpa. Un giorno, sul Riformista, Antonio Polito scrisse che la democrazia era nata nell’Inghilterra del diciottesimo secolo. «Come no, basta pensare alla sua etimologia – gli scrissi – Come tutti sanno, “democrazia” viene dall’inglese “team of crazies”». Battuta scema, aveva ragione lui, ma La democrazia di Luciano Canfora (Editori Laterza, 2004) sarebbe uscita solo alcuni mesi dopo.
Chiusa parentesi: la democrazia o è liberale o non è. E questa era la premessa.

Oggi, su Avvenire, a pag. 23, c’era un bel titolone: «La democrazia? È nata nel Medioevo». Sommario: «Chi ha detto che i “secoli bui” non furono democratici? Anzi, proprio grazie ai meccanismi elettivi degli abati benedettini e dei grandi ordini monastici poté svilupparsi “l’arte di governare senza che nessuno possa aggrapparsi al potere”. Parla il medievista francese Dalarun».
Prim’ancora di leggere l’intervista, ho capito che doveva trattarsi del solito bislacco apologizzare di un Antonio Socci o di un Francesco Agnoli che da anni cercano di convincersi che dobbiamo tutto al cristianesimo, anche ciò che il cristianesimo ha strenuamente combattuto. È il tentativo di nuotare nella secolarizzazione come se fosse il brodo del cristianesimo e non il sangue del suo svenamento. Si arriva anche al ridicolo, e c’è riesce a trovare il messaggio cristiano nei Simpson e nei Beatles (memorabili certi contorcimenti de L’Osservatore Romano, che con Gian Maria Vian è diventato una imitazione de Il Foglio, dacché Il Foglio cercava di imitare L’Osservatore Romano di Mario Agnes), chi riesce a trovare il larvato cattolico nell’ateo dichiarato (operazione che riesce meglio con l’ateo famoso e defunto), perfino chi prova a trovare la femminista in Teresa di Lisieux e Gioacchino da Fiore in Occupy Wall Street. Niente di male, ovviamente, se si trattasse di un gioco da salotto, fatto sta che queste operazioncine pretendono l’attenzione dovuta allo scoop culturale. Così il Dalarun, non nuovo al tentativo di illustrarci quelli medievali come Secoli dei Lumi.

L’intervista scorre e, di prove che i benedettini confetturassero democrazia, neanche l’ombra. Sicché il povero intervistatore, che dovrà pur giustificare il titolo che già è stato deciso in redazione, è in affanno: «Ma fu vera democrazia?», chiede. E qui si resta a bocca aperta, perché il «noto medievista» risponde: «Ho avanzato un interrogativo e un’idea che possono sembrare fragili, ma ai quali tengo molto: in tali comunità, non si è forse inventato qualcosa che assomiglia alla democrazia? Certo, il medioevo non è stato affatto il regno della democrazia come sistema di governo, ma ha conosciuto abbozzi ed esperimenti di questo tipo». Roba fragile, ma ci si è affezionato al punto che democrazia, no, ma abbozzi, volendo… E lui vuole.
E quali sarebbero, questi abbozzi? «Certe assemblee locali in Scandinavia», «certe regole di funzionamento dei Comuni italiani». Sì, ma i monaci? In quale Regola monastica ha intravisto i germi della democrazia? Non lo dice. Però, «visto che i francescani furono pure archivisti nei Comuni…». Collegamento esile come il prepuzio di un cherubino, senza uno straccio di argomentazione a supporto, ma tant’è: «L’influenza non fu immediata, certo, ma verosimilmente giocò un effetto analogico…», voilà, la democrazia è nata nel Medioevo: «verosimilmente», per «effetto analogico», il Dalarun vuole vederci l«abbozzo»