A sessant’anni
dalla morte, di Benedetto Croce ci rimane solo il «carattere». La sua logica e
la sua estetica sono ormai coperte da uno spesso strato di polvere sotto
il quale vanno a curiosare solo pochi eccentrici. Dei suoi studi storici, tolto
quanto oggi sarebbe improponibile perché guasto già nel metodo, ci resta appena
qualche pagina felice. Del critico letterario, invece, conviene tacere: non aveva altri strumenti che il gusto, peraltro assai discutibile. Così per il politico, che, visto alla giusta distanza,
ha già da tempo rivelato tutti i limiti che stavano nel «carattere»: è a lui che dobbiamo il liberalismo meno liberale d’Europa, un liberalismo tutto metafisico, politicamente inerte, perfino un po’
codino.
Giudizio
ingeneroso? A me non pare. D’altra parte, se vi è capitato di porgere l’orecchio
a quanto si è detto di Benedetto Croce in occasione di questo anniversario,
non avrete fatto fatica a cogliere qualche imbarazzo anche in chi ne incensava la figura, perché a
levare tutto quanto è irrimediabilmente superato in ciò che scrisse resta
appena il necessario per riempire mezza paginetta di enciclopedia: neo-hegeliano
della scuola di Bertrando Spaventa, idealista di ritorno, insinuò
nella cultura del paese lo sciagurato scetticismo verso la scienza che ci è
costato, e ancora ci costa, il gravissimo ritardo che abbiamo accumulato nei
confronti dell’Europa. Antifascista della second’ora, attraversò il Ventennio senza grosse difficoltà, accettando di buon grado
il ruolo tacitamente pattuito col Regime, quello del dissidente al quale non
veniva torto neanche un capello. Intanto pontificava: la vera libertà – diceva –
è quella teoretica, che costruisce la
realtà a partire dalla conoscenza, la quale, insieme all’intuizione, è
espressione dello Spirito, che si manifesta nella Storia come ipostasi dell’Io trascendente. La tragedia è
che due o tre generazioni di intellettuali si sono sciroppati questo beverone.
Tra i
discorsi commemorativi vale la pena di segnalare quello di Giorgio Napolitano,
che dà la misura di quanto Benedetto Croce sia davvero morto, morto del tutto.
Il filosofo, lo storico e il letterato stavano sullo sfondo, meglio evitare di
metterli in primo piano, sennò sarebbe giocoforza entrato in scena Antonio
Gramsci: il commemorando si è dovuto accontentare di mostrarci il «carattere»,
per giunta affacciato alla finestrella temporale di otto mesi tra il 1942 e il
1943. Cadono le bombe su Napoli e il Padre della Patria scappa a Sorrento, però
è tanto triste, perché può portarsi appresso solo qualche migliaio di libri.
Poi Sorrento non si rivela tana sicura e gli Alleati lo portano in motoscafo a
Capri. Anche lì don Benedetto è triste, dorme poco perché pensa all’Italia sventrata e riempie il
suo taccuino di elevati concetti…
Insomma, sarà stato senza dubbio
involontario, ma ne è uscito un bel gavettone.
Cosa
rimane di Benedetto Croce, oggi, oltre il «carattere», oltre quella figura di madonna
pellegrina portata a spalla da Badoglio e da De Nicola? Tutto sommato, rimane solo il suo Perché
non possiamo non dirci cristiani. Più citato che letto, d’altronde, sicché per
tanti è un libro, e invece si tratta solo di quindici paginette. Puzzano come l’autore
e forse questa è la volta buona per leggerle e commentarle. L’occasione mi è
data dall’ennesima citazione. Era su Il Foglio di giovedì 29 novembre: «I laicisti
non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo: Perché non
possiamo non dirci cristiani». Coraggioso e innovativo? Sorvoliamo su tutte le
altre stronzate disseminate nel testo – una per tutte: «Amo vedere in lui il
più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche» – e passiamo a
contemplare il coraggio e l’innovazione che stanno in
Prima
osservazione: «cristiani» sta tra virgolette. Non possiamo non dirci cristiani,
ma dando a «cristiano» un significato diverso da quello che ci suggerisce un
termine che sta per «seguace di Cristo». Anche se non vogliamo, anche se non
volessimo, siamo «cristiani»: lo siamo anche se non siamo «seguaci di Cristo».
Dunque dobbiamo? No, sennò avremmo trovato Perché dobbiamo dirci «cristiani» (un salto qualitativo che toccherà a Marcello Pera, mezzo secolo dopo).
Qui invece vuol essere rappresentata una tensione che va dal resistere al
cedere: Croce ritiene di essere in grado di convincerci, e infatti non mette
neanche un punto interrogativo. Nelle sue intenzioni non c’è quella di
convertirci sul piano religioso, ma su quello dove «cristiano» piglia un’accezione
– non tarderemo a scoprirlo – culturale, dove però «cultura» ha significato
estensivo e assume valenza di stadio antropologico.
Ma leggiamo.
Cominciamo male, con una reticenza.
«L’oggetto di questo discorso», infatti, è proprio
l’autocompiacenza:
anche qui
– vedremo –
«spirito cristiano» sta per rappresentazione (ypo-krisis). Infatti si tratta di un discorso...
Il problema è che si tratta di una storia
«cristianamente»
intesa, di una verità che è il risultato di un processo di inveramento «cristianamente» perseguito: ci muoviamo in una tautologia.
Siamo dinanzi a un esemplare saggio di idealismo: il cristianesimo non è un fatto nella storia, ma un pensiero che la penetra e la muove. Per crederlo non
c’è bisogno di essere cristiani (credere che Dio si sia incarnato), basta essere
«cristiani» («crocianamente»
cristiani): dare per scontato che il pensiero sia qualcosa che non nasce nella materia biologica, ma la informa. L’evento non si chiama Cristo
– può anche non chiamarsi Cristo – ma è comunque irruzione del trascendente nell’immanente: in premessa è assunto come dimostrato che
lo spirito si manifesti nella storia come ipostasi di un io trascendente. In altri termini, siamo dinanzi alla spiegazione del cristianesimo grazie al dogma che lo fonda. La persuasione crociana si rivela espediente retorico da rubricare come fallacia. Da subito ci è chiaro che Croce sarebbe stato più onesto se avesse scelto un altro titolo: Perché non posso non dirmi cristiano. Prova del nove?
Non può darsi ratio di una rivoluzione cristiana così sentita senza dare per scontato che l’anima nel cui centro essa operò stesse lì da tempo ad attenderla, inadeguata prima e finalmente pronta proprio quando Dio decise di incarnarsi. Un cristiano (senza virgolette) ci vedrebbe il progetto divino, il
«cristiano» di Croce ci vede il lavoro dello spirito. E infatti scrive:
Un cristianesimo che perde i suoi connotati teologici per diventare la cifra storicamente leggibile di un procedere umano mosso dallo spirito. C’è però da fare la dovuta distinzione tra spirito e Spirito Santo, sennò la tautologia sarebbe evidente in quanto tale. E allora Croce ci mette una toppa:
Fatto. La
«forza trascendente e straniera» è diventata «atto originale e creativo». Il fatto è che per Croce la creazione
– nel pensiero, nell’azione, nel linguaggio, nell’arte, nella storia –
è sempre «creazione spirituale». Lo vedremo più avanti, tra due capoversi, quando respinge l’obiezione (la
«parola di critica rampogna») che questo voglia dire «idealizzare» le dottrine e i fatti, facendo rientrare dalla finestra il trascendente fatto uscire dalla porta: afferma che in quell’«idealizzarli» è attiva l’«intelligenza» che li intende. In parole povere, lo spirito si intellige in ciò che ha creato.
Tutto il procedere di Croce sta in questo tentativo di fondare uno statuto dello
«spirituale»
come trascendente immanentizzato, sicché potremmo dire che tra cristiano e
«cristiano» la differenza sostanziale sta nel momento in cui si coglie l’ipostasi: nel cristiano si ha con
l’avvento di Cristo,
mentre nel «cristiano»
è antecedente, per cui l’avvento di Cristo realizza la possibilità, prima negata, che lo spirito si riconosca in ciò che ha creato. L’evento, che per il cristiano segna una rottura nella storia (al punto che tutto di lì in poi sarà a.C. o d.C.), per il «cristiano» segna il superamento di una tappa. Vediamo cosa accade.
La «creazione spirituale» è di fatto una scoperta: il trascendente opera nell’immanente un progresso che gli consente il ri-conoscersi.
Siamo dinanzi ad una interdizione che in qualche modo è analoga a quella della Pascendi di Pio X: lì vi era il divieto di leggere il cristianesimo come capitolo di storia, qui vi è il divieto di sottoporlo a critica. Altro che
«coerente prosecutore di Nietzsche»! Croce ci ingiunge di sospendere ogni giudizio addirittura sui mezzi coi quali il cristianesimo realizzò la conquista dell’occidente.
Quella che Karlheinz Deschner ha definito Kriminalgeschichte des Christentums trova in Croce una sistemazione nella naturale difficoltà che la verità incontra nel processo veritativo: cataste di morti come trascurabile effetto collaterale del progresso umano in tensione verso l’assoluto.
E qui – sia consentito il bisticcio –
incrociamo Croce in un luogo comune molto trafficato in tutto il Novecento.
Comincia a farsi chiaro perché non possiamo non dirci cristiani: significherebbe perdere centralità, egemonia, primato antropologico, significherebbe svendere l’occidente. Siamo ad una elaborazione neanche troppo sofisticata del cristianesimo come instrumentum regni: Croce si fa apologeta del patrimomio di famiglia e ci invita a chiudere un occhio su come lo abbiamo accumulato.
Sembra di scorrere le pagine nelle quali Karl Marx elogia le virtù della borghesia, ma almeno in quelle le presenti condizioni dello stato borghese non sono affatto estranee al discorso, anzi. Croce, invece, tronca.
Sospeso ogni giudizio su come siamo all’apice del progresso umano, seduti sul groppone dei barbari che a buon diritto possono non dirsi cristiani, concediamo un occhio benevolo all’album di famiglia e riscriviamo la storia degli antichi dissapori: il cugino accoltellò lo zio, il nonno azzoppò il babbo, ma in fondo, via, eravamo e siamo sangue dello stesso sangue.
Di fatto e di diritto siamo cristiani quanto il papa, forse anche di più.
Non se ne voglia, il papa, ma sappia che in Gesù era preannunciato Croce.
Non fosse chiaro:
Sicché:
Come dire: Santità, abbia pazienza, ché Croce ci sta lavorando.
E qui, se siete veramente liberali, d’istinto vi dovrebbe scappare un «amen». Andate in pace, il discorso è finito.
* * *
Questo è quanto rimane di Croce. Andrebbe seppellito insieme al resto.