lunedì 8 aprile 2013
L’«intrinsichezza»
Dell’editoriale
a firma di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì 8
aprile (Una periferica appartenenza) potremmo limitarci a segnalare solo l’orrido
strafalcione che sta nell’uso di «intrinsichezza» al posto di «intrinsecità»: «intrinsichezza»
(o «intrinsechezza») esiste, ma non sta a indicare quella stretta
coessenzialità che nel testo è palese s’intendesse rammentare esserci sempre
stata tra Chiesa italiana e Curia Romana, bensì profonda dimestichezza, intima familiarità
e simili. Di questi tempi, però, non conviene segnalare strafalcioni, perché ci
si guadagna fama di grammar nazi, temibile epiteto coniato da chi sostiene che
la lingua si evolva di refuso in refuso, grazie alla volenterosa opera di
cazzuti ignorantoni che finiscono sempre per aver la meglio su pedanti puristi, e allora ben venga la virgola tra soggetto e predicato.
Chiuderemo un occhio sull’«intrinsichezza», allora, e anzi la prenderemo per
buona, faremo finta che Ernesto Galli della Loggia volesse dire proprio quello
che ha scritto: tra Chiesa italiana e Curia romana c’è sempre stata – ma negli
ultimi tempi sarebbe venuta ad affievolirsi – una fraterna intimità, un’affettuosa
familiarità, un’amorevole reciprocità di premurose attenzione.
Bene, anche così
non funziona, perché tra Chiesa italiana e Curia romana sono sempre volati
coltelli, e l’unica differenza col passato è che oggi i colpi lasciano ferite
che sanguinano pubblicamente. Probabilmente Ernesto Galli della Loggia ignora
che tra Segreteria di Stato e Cei ci sono sempre stati screzi, a voler usare un
morbido eufemismo. Più in generale, e da ben prima che nascesse la Cei (1952), i
rapporti tra l’episcopato italiano e i dicasteri della Santa Sede hanno sempre avuto
momenti di notevole tensione, anche se rimanevano celati all’attenzione del
grande pubblico. Anche a voler prendere per buona l’«intrinsichezza», dunque,
ciò che Ernesto Galli della
Loggia scrive non regge: voleva dire «intrinsecità», non c’è dubbio. Se
è così che va letto ciò che scrive, dovremmo intendere che, a suo parere, «negli ultimi
decenni agli occhi dell’universo cattolico la Chiesa italiana [sarebbe] andata
perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male
possedeva, e invece [avrebbe] assunto un’immagine sempre più grigia,
addirittura dei tratti negativi [e che] decisiva, in questo senso, [sarebbe] stata la
sua perdurante [coessenzialità] con la Curia romana […] che, resa più
indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la
tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire – in non molti
casi, ma significativi – pressoché interamente fuori controllo».
Bene, anche così non regge. Si tratta di un’interpretazione dei fatti che risente pesantemente di quel pregiudizio lungamente accreditato in ambito storiografico da quanti hanno sostenuto che le sorti dell’Italia fossero ineluttabilmente legate in ambito internazionale a quelle della Santa Sede: per costoro, ad una crisi del cattolicesimo doveva necessariamente seguire un declino dell’Italia, sicché una collaborazione tra Stato e Chiesa che in ambito internazionale garantisse una sorta di identificazione tra Italia e Santa Sede non poteva che tornare di reciproca utilità. La tesi continua ad essere sostenuta da alcuni – ed Ernesto Galli della Loggia è evidentemente tra costoro – ma non tiene in alcun conto del fatto che i processi di globalizzazione hanno dimostrato che gli interessi dello Stato italiano e della Chiesa di Roma andavano già divaricandosi dal 1861 in poi, per diventare con sempre maggior frequenza confliggenti. Se poi si va più indietro, non si ha alcuna difficoltà a riconoscere che fin dal Rinascimento in poi, per acuirsi in massima misura col Risorgimento, gli interessi italiani sono sempre stati in attrito con quelli vaticani. Con questo o con quel signorotto di un ducato o di regno dell’Italia non ancora unita, certo. Con questo o quel notabile della Dc, di sicuro. Ma affermare, come fa Ernesto Galli della Loggia, che
«nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l’elemento italiano ha avuto un’evidente e ininterrotta centralità» significa identificare questo
«elemento italiano» nella particolarità dell’interesse che esprimeva in favore di chi trovasse utile il tornar utile alla Chiesa. Perfino
l’ultimo Arturo Carlo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia dal Risorgimento ad oggi, Einaudi 1955) sollevava seri dubbi su questa tesi.
«La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese»? Non proprio. Più corretto dire che entrambi pagano il prezzo di aver creduto nella tesi che fossero la stessa cosa o che tra essi avesse giocoforza da esservi, se non
«intrinsecità», «intrinsichezza». Si sono fatti male a vicenda, nell’illusione che gli interessi dei contraenti il patto fossero interessi della Chiesa e dello Stato. Il declino comune rivela che
l’illusione non poteva reggere in eterno.
Tutto, pur di continuare ad illudersi
La tabella
riprodotta qui sopra è tratta da uno studio dell’Istituto Cattaneo che analizza
il flusso di voti che nel 2013 sono afferiti al M5S dagli schieramenti politici
che si erano presentati alle elezioni politiche del 2008 (l’indagine riguardava
9 città, ma ho modificato la tabella per mettere in risalto i dati relativi a
quelle con un maggior numero di aventi diritto al voto). In pratica, prendendo a
esempio il caso di Bologna, su 100 voti andati al M5S nel 2013, solo 10
venivano da quanti si erano astenuti nel 2008, mentre 65 venivano da quanti
avevano votato il Centrosinistra e 24 da quanti avevano votato il Centrodestra.
Ma è a scendere nel dettaglio relativo a quanti elettori del Pd nel 2008 abbiano
votato il M5S nel 2013 che si comprende che fine abbiano fatto gli oltre tre
milioni e mezzo di voti persi in 5 anni dal partito guidato da Bersani.
Almeno per le quattro città qui prese in considerazione è evidente che gli elettori del M5S siano ex elettori del Pd
per oltre il 45% (oltre il 35% per le 9 città prese in considerazione dall’Istituto Cattaneo: Torino, Brescia, Padova, Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, Reggio Calabria, Catania). Con un’approssimazione che non va troppo lontano dai dati reali potremmo concludere che almeno due milioni degli oltre sette raccolti dal M5S al Senato, e quasi tre degli oltre otto milioni e mezzo raccolti dal M5S alla Camera, siano stati di ex elettori del Pd. Voti che, almeno in parte, sarebbero affluiti al M5S nella speranza, poi rivelatasi vana, che tra Grillo e Bersani fosse inevitabile un’intesa di governo. In pratica, si sarebbe trattato di un voto che mirava a dare una lezione al Pd per spostarne il baricentro a sinistra, ma è stato proprio Grillo a definirlo un errore di calcolo: «Perché
hai votato il M5S? Per fare un governo con i vecchi partiti? […] Allora hai
sbagliato voto» (beppegrillo.it, 3.4.2013).
Un sondaggio di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 7.4.2013) rivela che di tale errore sarebbe pentito circa un quinto di quanti avrebbero votato il M5S il 27 febbraio (circa il 29%), sicché oggi lo voterebbe solo il 24% degli italiani: solo l’1% in meno di quanti
l’hanno realmente votato il 24 e il 25 febbraio. Ad essere pentiti di aver capito male, insomma, sarebbero più quanti avevano frainteso dopo il voto di quanti invece avessero frainteso prima, ammesso che avessero davvero frainteso (non più di 7-800.000 sui 2-2,5 milioni di ex elettori del Pd che hanno votato M5S).
Cosa dovrebbe dedurne, il Pd? In primo luogo, che
dall’indisponibilità di Grillo ad un’alleanza di governo può recuperare meno di un terzo degli oltre tre milioni e mezzo di elettori persi tra il 2008 e il 2013. In secondo luogo, che a far scelte che il suo elettorato fin qui fedele molto probabilmente giudicherebbe come uno sbilanciamento a destra (più di tutto, un inciucio col Pdl) ha solo da perdere altri voti. Infine, che dall’aver paura di tornare alle urne e dall’essere disposto a tutto pur di rimandare il voto può rimediare solo altre sonore batoste. Tuttavia pare che si disponga proprio a questo. Perché tornare alle urne significherebbe affrontare altre primarie e Bersani non è più sicuro di poterle rivincere. In sostanza, la scelta è di perdere altri elettori. Tutto, pur di non dichiarare il fallimento della classe dirigente che fin qui ha guidato il partito. Tutto, pur di continuare ad illudersi che il paese sia diverso da quello che è.
domenica 7 aprile 2013
Corrispondenze
Ricevo da Nane Cantatore un contributo che ritengo estremamente interessante:
Il
fallimento dei diversi tentativi di trovare una forma di mediazione con il
movimento cinque stelle ha una spiegazione assai semplice: tale movimento è
alieno da qualsiasi mediazione. Ciò trova una spiegazione ufficiale nelle
dichiarazioni del suo proprietario e dei suoi accoliti maggiormente fidelizzati
o fanatizzati, che consiste nella litania della diversità, dell'irriducibilità
e della superiorità: da ciò conseguirebbe la refrattarietà a qualsiasi alleanza
con soggetti diversi, e pertanto infidi.
Se questo
comportamento è spiegabile, nei termini della psicopatologia, come risultato di
una sindrome paranoica, […], qui interessa comprenderne le linee strategiche,
più che comprenderne i motivi. Ogni normale partito politico, infatti, dopo
aver conseguito un forte consenso elettorale, tende a capitalizzare tale
risultato (o, il che è lo stesso, a esercitare il mandato degli elettori
secondo le logiche della democrazia rappresentativa) per insediarsi al governo
o, per lo meno, per contribuire a indirizzarne le politiche. I pentastellati,
invece, si arroccano, si riuniscono in improbabili convegni a metà tra la
riunione segreta e la gita fuori porta, si limitano a ribadire la loro
estraneità tanto da cortocircuitare la loro (ampia) retorica e (limitata)
prassi della trasparenza, fino a utilizzare le due soluzioni estreme della
comunicazione pubblica: ribadire la propria purezza nella forma evangelica del
chi non è con me è contro di me, e parlare d'altro, per esempio del Monte dei
Paschi.
Il dato
interessante, a cui non mi pare si faccia sufficiente attenzione, è che questo
comportamento è del tutto opposto a quello adottato in Sicilia, dove il M5S è,
di fatto, parte della maggioranza di governo, e dove tale partecipazione viene
rivendicata, nelle parole del proprietario del movimento e dei suoi più
illustri fiancheggiatori. In altre parole, e mi sembra chiaro che questo debba
essere stato il pensiero dei vertici del PD, il modello siciliano poteva essere
visto come il precedente a cui rifarsi, se non come l'incubatore di un
possibile governo nazionale.
Se non
è accaduto così non è, credo, per una forma di schizofrenia da parte di un
soggetto politico che pensa in un modo a Palermo e in un altro a Roma, o perché
con il 15 per cento ci si comporta in un modo e con il 25 in un altro: la prima
interpretazione mi pare troppo psicologica, la seconda troppo politica. Credo
che si tratti di una questione di egemonia, sulla scena politica e,
soprattutto, all'interno del M5S, che proprio per i suoi risultati elettorali
si sta trasformando, di necessità, da aggregato eterogeneo tenuto insieme da un
leader carismatico in soggetto politico a tutti gli effetti. La caratteristica
primaria di un soggetto politico, infatti, anche quando esso sia maggiormente
caratterizzato dal leaderismo e dal culto della personalità, è proprio la sua
pluralità: per quanto sia importante il leader, in esso esistono altre
personalità, diverse specializzazioni e diverse opzioni tattiche e persino
strategiche. Accade oggi nel PDL, per esempio, come è accaduto nel PCUS
staliniano o nella NSDAP, per quanto tutte queste formazioni fossero
indubbiamente dominate da un leader carismatico.
In
altre parole, un M5S coinvolto nel governo a livello nazionale dovrebbe fare i
conti con istanze, modalità e tempi decisionali diversi da quelli interni, il
che renderebbe necessario lo sviluppo di strutture e di deleghe personali tali
da trasformare la natura profonda del movimento stesso, verso una maggiore
pluralità, una più ampia e visibile dialettica e, persino, un diverso rapporto
con i media. Se già i due improbabili capigruppo parlamentari stanno esprimendo
differenze e disagi, ci si può immaginare cosa accadrebbe con un ministro o un
rappresentante in una commissione governativa.
L'arroccamento
del movimento, la sua litania di intransigenza e le continue scomuniche del
proprietario verso chi si distanzia dalla linea ufficiale rispondono, insomma,
essenzialmente a esigenze di controllo interno, per bloccare l'evoluzione del
M5S verso la forma di soggetto politico plurale. A queste condizioni, una forte
riduzione del consenso elettorale non sarebbe vista come una sconfitta ma come
un necessario passaggio di depurazione, per ribadire la litania di alterità ed
estraneità e consolidare l'assetto monolitico del movimento.
Qui, se
si vuole, si può misurare la pochezza delle capacità strategiche del
proprietario, che si preclude di fatto ogni possibilità di accesso al potere, o
di azione concreta sulle cose, pur di conservare il proprio predominio. Se è
possibile governare in Sicilia, ciò avviene perché il livello locale non
interessa al proprietario, che comunica direttamente con le masse per via
diretta, con i suoi comizi nelle piazze e sul suo similblog, o per via indiretta,
attraverso le televisioni che riportano i suoi slogan e la sua estetica.
Partecipare al governo del Paese creerebbe, necessariamente, una
moltiplicazione dei canali di comunicazione e dei soggetti che vi avrebbero
accesso, mettendo in crisi un modello di leadership che si definisce, più che
secondo le categorie classiche della politica, secondo quelle del marketing, e
nemmeno di quello più moderno: l'importante è controllare il brand e
trasmetterlo, impedendo a chiunque di contribuire a determinarlo.
Tipologie di leadership carismatica
Abbiamo
visto perché il carisma non debba essere inteso come una sorta di grazia della
quale un leader possa essere dotato o meno, ma come quella sorta di disgrazia
nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità
severamente disturbata (Il cosiddetto carisma – Malvino, 13.12.2012) e quindi abbiamo preso
a esempio un caso clinico che illustrasse eloquentemente l’assunto (Uno spaccato clinico – Malvino, 30.1.2013). Poi, abbiamo spiegato perché occorre che una
leadership di tipo carismatico debba giocoforza assumere un carattere
messianico per fidelizzare seguaci (Formazione a vocazione settaria – Malvino,
29.12013) e perché a tal fine le torni estremamente utile una dimensione relazionale prepolitica e una struttura comunitaria di tipo organico (Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia
– Malvino, 19.2.2013).
Questo percorso non aveva alcuna pretesa sistematica, anzi, era intenzionalmente frammentario perché prendeva il passo dall’analisi di alcuni elementi della leadership carismatica colti in uno specifico precipitato, che, se poteva essere esemplare, aveva tuttavia i limiti del caso empiricamente trattato. Anche per questo
– soprattutto per questo
–
non si è potuto fare a meno di fare un largo uso del rimando ai lavori scientifici che negli ultimi decenni hanno trattato il tema in ordine ai problemi posti in ambito psicologico e sociologico, senza fare mistero che i risultati più convincenti in tali ambiti ci sembravano quelli ottenuti, rispettivamente, da Otto Kernberg e da Neil Smelser. Superfluo rammentare al lettore abituale di questo blog che gli spunti di riflessione sono stati offerti dalla cosiddetta galassia radicale che ruota attorno a Marco Pannella e dal cosiddetto non-partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Ora, se vogliamo approfondire la questione, ci tocca operare una distinzione tra i due più frequenti stili
di leadership carismatica – quella di tipo narcisistico e quella di tipo
paranoideo – che trovano corrispettivo in due diverse forme di settarismo e in
due diversi quadri di psicopatologia di gruppo, ma prima occorre fare due importanti premesse. In primo luogo, non di rado l’esperienza ci offre quadri
psicopatologici misti, anzi, è assai frequente che in uno stesso leader
carismatico siano sensibilmente rappresentati, seppur in varia misura, aspetti
narcisistici e aspetti paranoidei, che in ogni caso trovano espressione
strettamente conseguente nei moduli relazionali che caratterizzano il legame
tra leader e seguaci, e quello tra i membri del gruppo. In secondo luogo, si avrà modo di cogliere il tenore emozionale che sostiene il piano sul quale si strutturano le relazioni in oggetto, se si tiene conto del fatto che, proprio come i gruppi a
leadership carismatica di impronta religiosa hanno forte caratterizzazione
politica, quelli a impronta politica hanno forte caratterizzazione religiosa.
Per l’elemento di discrimine che qui si prenderà in oggetto ci tornerà utile il lavoro di Otto Kernberg che qui è estratto da più contesti (Internal World and External World, 1980; Severe Personality Disoders, 1984; Ideology, Conflicts and Leadership in Groups and Organizations, 1998).
Perché sia conservata l’uniformità di percorso dell’analisi come fin qui condotta nei post cui ho fatto cenno all’inizio, consiglio di leggere queste pagine pensando ai radicali, quando il discorso è centrato sul modello di leadership carismatica a impronta narcisistica (a), e ai grillini, quando l’impronta è di tipo paranoideo (b). Ma senza dimenticare quanto si è già detto: non di rado l’esperienza ci offre quadri
psicopatologici misti.
(a)
(b)
giovedì 4 aprile 2013
14 agosto 2054
Non so
se già sia stato segnalato, io me ne sono accorto solo ieri: Gaia, la
visionaria congettura di Gianroberto Casaleggio sul futuro del nostro pianeta,
dovrebbe prender corpo il 14 agosto 2054. Ciò che mi ha dato da pensare è stato
il fatto che il visionario abbia fissato una data precisa per la nascita di
Gaia, mentre per lo scoppio della III Guerra Mondiale (2020) e la sua fine
(2040), per lo sviluppo di comunità collegate in rete (2043) e l’istituzione
della cittadinanza mondiale in social network (2047), per la creazione dell’intelligenza
collettiva on demand (2050) e per le prime elezioni a suffragio planetario
(2054) si sia limitato a indicare l’anno. Non mi ci è voluto molto per scoprire
che quella data non era scelta a caso: Gianroberto Casaleggio è nato il 14
agosto 1954, giusto un secolo prima. Troppo poco per dedurre che Gaia non sia
una previsione, ma una proiezione fottutamente paranoica?
mercoledì 3 aprile 2013
[...]
La storia insegna che questo sarebbe il momento buono per un attentato, di quelli che poi stai lì per trent’anni a discutere su chi possa esserne stato il mandante, senza riuscire neppure ad acchiapparne gli esecutori, tutt’al più a individuare gli immancabili depistatori. Uno di quegli attentati, dico, che in apparenza sembrerebbero voler dare il colpo di grazia a una nazione già in ginocchio, o almeno a esasperarla fino all’inverosimile, e che invece servono ad accelerare processi che fanno fatica a maturare nei loro esiti finali, peraltro ineluttabili. La strage come il pugno sull’elettrodomestico guasto, che – non si sa perché – funziona, e lo fa ripartire. Si tratta della soluzione che conta sulla disperazione come riserva di energie per rimuovere uno stallo. Probabilmente, tuttavia, stavolta il botto non ci sarà. Manca il demiurgo.
domenica 31 marzo 2013
[...]
E pensare che stavo a un passo dal fare la cosa giusta. Stavolta non vado a votare, mi dicevo, al diavolo le fanfaluche dei tromboni che «chi non va a votare perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà, e acquisisce il dovere di tacere e subire, perché ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni» (Michele Serra – la Repubblica, 30.10.2012). L’avevo sempre pensato anch’io, robe che ti ficcano in testa da bambino, e poi un meno peggio l’avevo sempre trovato. Stavolta non lo vedevo, non lo vedevo proprio.
Poi, non dico l’imprevedibile, ma l’inimmaginabile, e tutt’assieme. Quel fesso di Monti, che aveva già mezzo culo seduto al Quirinale, sale in politica. Grillo comincia a salire nei sondaggi come il mercurio nel termometro quando arriva la quartana. Il cadavere di Berlusconi resuscita, si spruzza un po’ di lavanda sotto le ascelle e ritrova la sua Italietta pronta a levarlo ancora sugli scudi. A ripensarci, dev’essere stata la Nemesi. «Volevi disertare le urne, eh? Adesso ti sistemo io. Un meno peggio? Eccoti Bersani, così impari».
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho scritto pure, e non me lo dicevo per scaramanzia. Chi non lo conosce, il Pd? Manco doveva nascere, poverino, il patrimonio genetico era zeppo di tare. Ma la natura è cieca, l’aborto non c’è stato ed è venuto al mondo solo per mendicare tenerezza e sbattere il testone dappertutto, con predilezione per gli spigoli. Non ne ha indovinata una, il Pd di Bersani, e per sbagliarle tutte si è concentrato al massimo, ha cominciato con l’appoggio a Monti ed è finito a rincorrere Grillo. Si vedeva già a Palazzo Chigi, l’unico ostacolo gli pareva solo Renzi, e ora non riesce a farsene una ragione. Si trattasse di cazzi esclusivamente suoi, non gli si potrebbe negare compassione. Neanche capace di comprarsele, due dozzine di grillini.
Al confronto, il Pds di Occhetto e la Dc di Martinazzoli giganteggiano. Due sfigati nati, quelli, ma almeno avevano quei tre etti di cultura politica per stare davanti agli eventi, per tentare di guidarli, a costo di farsene travolgere, piuttosto che arrancarvi dietro in affanno, e senza mai essere in grado di intravvederne altro che il culo. Due bidoni, ma sul fondo rimaneva qualche traccia di Gramsci e di Dossetti. Che il M5S sia merdaccia fascista spalmata sulla più becera versione del New Age, insomma, l’avrebbero capito. Bersani, no.
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho detto, ma almeno ho guadagnato il diritto di lamentarmi, tanto ormai votare pare serva solo a questo. Francamente, però, costa troppo. La prossima volta mi lamento a scrocco.
lunedì 25 marzo 2013
«Povertà, pene, insulti, fatiche, mischie ed offese»
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[tratto da: Gianna Preda, il "Chi è" del Borghese, Le Edizioni del Borghese 1961 - pagg. 455-460]
Nulla accade due volte nello stesso modo
Il Popolo d’Italia va in edicola il 9 dicembre 1926 dando notizia che il fascio littorio, simbolo prima dei Fasci di combattimento (1919) e poi del Partito nazionale fascista (1921), è adottato come «emblema statale». È il segno tangibile che il fascismo mira all’identificazione tra partito e nazione, com’è in ogni progetto di Stato organico. Perché ciò si realizzi, tuttavia, occorre un partito unico. Della nazione, infatti, e fin dall’etimo, un «partito» è solo una «parte». Trova espressione in un’organizzazione che si candida alla gestione del potere politico, è vero, ma non può tollerare concorrenti se ha per fine l’identificazione con la nazione nella sua interezza: ogni altra «parte» diversa da quella che «legittimamente» aspira a rappresentare il tutto è da considerare superflua, per la sua sostanziale irrilevanza, o dannosa, per la minaccia posta all’unità di intenti che nello Stato organico trovano il corrispettivo che l’Io ha in un corpo vivente. È quello che troverà realizzazione nel 1928, quando il Partito nazionale fascista è dichiarato partito unico. Lo rimarrà fino al 1943, cercando – e in buona parte riuscendo – ad assorbire gli interessi delle categorie sociali nel sistema corporativista enunciato con la Carta del Lavoro del 1927.
Nulla accade due volte nello stesso modo, sta di fatto che per Beppe Grillo tutti i partiti sarebbero inutili, tranne il suo, che si candida a rappresentare il 100% del paese, anzi pare già lo rappresenti, anche se a votarlo è stato solo il 25%. In realtà, per Beppe Grillo, tutti gli altri partiti non sarebbero soltanto inutili, ma anche dannosi perché costituirebbero una minaccia per gli interessi del popolo italiano, che invece solo il M5S sarebbe in grado di esprimere legittimamente. Cosa devono fare gli altri partiti? «Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano… Arrendetevi, e io vi prometto che non useremo nessuna violenza su di voi… Andatevene finché siete in tempo…». Sulla promessa fa fede il fatto che si dichiara in grado di trattenere la violenza del popolo italiano: «Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade». Si tratta – e l’ho già scritto – del presentarsi come forza d’ordine che ha incorporato la violenza che ha cavalcato e fomentato, facendosene forte, con tratto demiurgico, per promettere di neutralizzarla, ma in cambio del potere. È la tecnica del colpo di stato senza spargimento di sangue. E il partito che si candida a riassorbire in sé i conflitti sociali si fa garante pure del sistema che sul piano economico li riconduce al sistema corporativistico del partito-nazione: «Arrivano le categorie da me… I notai, i farmacisti, i commercialisti… Dicono: “Siamo 20.000, ci dica cosa fa per noi, così poi le vediamo se darle il voto”… Guardate che avete sbagliato la domanda… Voi venite nel movimento, vi iscrivete, vi mettete così [indica i candidati del M5S che stanno in piedi alle sue spalle ad ogni tappa dello Tsunami Tour], vi votano, andate in Parlamento e portate avanti voi gli interessi della vostra corporazione…».
Il «fascio»
diventa forma di movimento politico ben prima del 1919. Benito Mussolini è nato
da meno di un mese – siamo nel 1883 – quando Felice Cavallotti, Andrea Costa e
Giovanni Bovio danno vita a un fronte che va a raccogliere e coordinare un
variegato numero di organizzazioni contadine e operaie di sinistra in
opposizione al governo Depretis. Si chiama Fascio della democrazia e ha per emblema un fascio littorio, che
per espressa intenzione dei suoi fondatori sta a rappresentare la convergenza di
forze diverse (socialisti, anarchici, radicali, ecc.) in un’unità di fine, ma è
al contempo anche l’esplicita evocazione del simbolo che il popolo della Roma
repubblicana conferisce ai propri eletti alla carica di console e pretore. Il
fascismo tenderà a sottolineare questa valenza simbolica nell’ambito di una più
ampia ripresa del mito dell’antica Roma, che non di rado toccherà il
tragicomico, ma allo stato nascente, quando aduna i suoi uomini sotto le
insegne dei Fasci di combattimento, il fascio littorio è innanzitutto la metafora
della confluenza di
spezzoni provenienti dalle più svariate esperienze culturali e politiche che in
quel momento storico si agitano in Italia. L’orgoglio del raccogliticcio,
potremmo dire. Ai suoi esordi sulla scena politica italiana, il fascismo è questo reclutare delusi, frustrati e arrabbiati da ogni contrada. D’altronde, anche sul piano delle idee, l’eclettismo sarà uno dei tratti distintivi del fascismo lungo tutta la
sua parabola. Come è stato osservato da numerosi autori (Mosse,
Sternhell, Griffin, Eatwell, Paxton), Mussolini non costruisce un’ideologia ex
novo, ma attinge a piene mani dagli umori che si levano da un paese in tumulto, e senza curarsi troppo delle patenti
contraddizioni tra ciò che mette assieme. Solo in questo modo è possibile «comprendere come lo Stato
fascista abbia potuto sottomettere e assorbire senza troppe dilacerazioni l’intera
società civile» (Zunino). Nulla di monolitico, nulla di sistematico, nella cosiddetta dottrina fascista dello Stato. Il lavoro che compirà Giovanni Gentile, più che da architetto, sarà da stuccatore.
Certo, nulla accade due volte nello stesso modo. Così, quando si afferma che il grillismo ha stretta analogia col fascismo del 1919, non si intende dire che ne sia la copia o la ripetizione: si vuole solo sottolineare la coincidenza di elementi sostanziali e formali di due esperienze lontane nel tempo, senza dubbio, ma che consentono un parallelismo. E anche se gli elementi formali sembrano prevalenti, quelli sostanziali non sono affatto irrilevanti. Basti la comparazione tra il programma del M5S e quello di Casa Pound Italia, la formazione politica che molto più che implicitamente si richiama al fascismo. Non viene meno la lezione di Popper (Miseria dello storicismo), sia chiaro. Nulla, qui, si dà per prevedibile riguardo al grillismo sulla base di ciò che è stato lo sviluppo storico del fascismo: ci si limita verificare le analogie tra due fenomeni che in entrambi i casi sono la reazione patologica ad una situazione critica (la crisi dello Stato Liberale e il declino della Seconda Repubblica). Per ciò che attiene alla capacità di raccogliere in «fascio» il peggio da ogni dove, fa fede l’orgogliosa dichiarazione del leader del M5S che mena vanto di essere riuscito a fidelizzare «estremisti
di destra ed estremisti di sinistra, insieme, a gridare in piazza». Al momento, pare non siano intenzionati a bastonare e a purgare chi si oppone all’onda, si accontentano di dar sfogo a quel misto di vittimismo e di aggressività che è caratteristico dei movimenti settari.
[segue]
sabato 23 marzo 2013
[...]
Niente di meglio, quando si vuole analizzare i termini di una polemica, che stare ai fatti. In un’intervista concessa ad Anshel Pfeffer (Haaretz, 22.3.2013), il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha affermato quanto segue:
Cos’è che non risponde alla realtà in ciò che afferma Riccardo Pacifici e rende legittimo il risentimento di Beppe Grillo e dei suoi? Non corrisponde al vero che il leader del M5S «has made
anti-Semitic comments in the past and is exhibiting worrisome fascist
tendencies»? Non corrisponde al vero che «Grillo says that political parties are not important, and that is exactly what Hitler was saying before he came to power»? Si può sostenere che i grillini abbiano una
«clear platform» politica? Del fatto che il movimento sia il raccogliticcio pure di «extremists from both left and right» non si è vantato lo stesso Grillo
in un’intervista concessa ad una tv turca e andata in onda nell’ultima puntata di Servizio Pubblico?
E non è forse vero che, «a few weeks ago, the party’s parliamentary leader, Roberta Lombardi, said that some elements of the ideology of Italy’s pre-World War II fascism were positive»? Non generalizza, Pacifici, e tiene a precisare che
«he does not believe that 25 percent of all Italians [che hanno votato M5S] are anti-Semitic», anzi, si dice certo che
«ninety-five percent of Five Star voters do not share Grillo’s views on Jews and Israel». E allora cos’è che autorizza
l’arruffapopolo
a strepitare
«Basta insulti e falsità contro il M5S»? Ma, soprattutto, non sono proprio i commenti al suo post (e si tratta dei commenti più votati) a dare ragione a Pacifici?
Adesso capisco perché gli ebrei fanno di tutto per farsi odiare dalla maggior parte dei popoli della terra, si piangono sempre addosso e fanno apparire che hanno sofferto solamente loro gli orrori della guerra. Se non gli leccano il culo o li commiserano, tacciano di “fascista” a chi non la pensa come loro. Questo “signor” Pacifici è davvero squallido, disinformato e fomentatore di odio tra la gente. Se ne andasse lui in Israele e la smettesse di rompere le scatole ai grillini e a chi in Italia li ha votati. Siamo noi italiani che dobbiamo autodeterminarci e votiamo chi ci pare e piace. I consigli deve darli a casa sua, ammesso che riesca a darli.
Matteo P. 22.03.13 - 19:30|
Il movimento è chiaramente contro lo strapotere delle banche e delle lobby finanziarie le quali, dopo la caduta dello spettro sovietico-comunista, senza più vincoli stanno affamando il pianeta. E negli ultimi anni i nodi sono venuti al pettine e quando si sono fatte lo sgambetto fra di loro, hanno iniziato a rimborsarsi a scapito delle popolazioni. E indovina che c’è ai vertici delle maggior banche d’affari? Questo attacco è il minimo, aspettiamocene altri ben peggiori!!!
Lor C., Milano 22.03.13 - 19:41|
Gli elementi più distintivi dell’antisemitismo ci sono tutti: sono gli stessi ebrei ad essere la causa dell’odio dei loro confronti; sono un corpo estraneo, se ne andassero in Israele ché questa non è casa loro; sono a capo di lobby finanziarie che affamano i popoli; a lasciarli fare, perfidi come sono per natura...
venerdì 22 marzo 2013
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Quando non è cieco, il patriottismo è strabico. Solitamente, in questi casi, si tratta di strabismo convergente: gli occhi, per esempio, convergono dal 15 febbraio dell’anno scorso su Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, lasciando fuori campo Justine Valentine e Ajeesh Binki, che non erano pirati, com’era parso ai due marò, ma pescatori, però indiani. Voglio dire: si fosse trattato di un peschereccio di Mazara del Vallo, fossero morti Turi Sgarlata e Tano Calopizzo, i colpi fossero partiti da una motovedetta libica ai tempi in cui a Tripoli c’era ancora Gheddafi, beh, sarebbe stato tutto un altro affare. Qui, però, a sparare sono stati due italiani e a morire sono stati due indiani: il patriottismo impone che l’affare sia trattato in modo diverso. Sia, ma resta la questione: chi dovrebbe render conto della morte di Justine Valentine e Ajeesh Binki?
[...]
Passò la gioventù tra gli agi e i piaceri, poi scoprì che esistevano la vecchiaia, la malattia e la morte, e allora scelse di privarsi di tutti gli averi, abbandonò la casa paterna, raccolse attorno a sé una cerchia di discepoli e predicò la rinuncia… Si chiamava Siddhartha Gautama, e accaddeva 17 secoli prima che ad Assisi lo facesse pure Francesco, d’altronde il cristianesimo non è mai riuscito ad inventarsi niente di nuovo. Non occorrono 12 secoli perché la promessa del regno dei cieli che Cristo fa ai pauperes sia presa alla lettera, basta leggere Clemente Alessandrino, Giovanni Crisostomo, Basilio il Grande, Salviano di Marsiglia: prima che il cristianesimo si faccia impero c’è chi ci crede, poi la pauperitas fa un corso sotterraneo dal VI al XI secolo, poi riaffiora, ed ecco catari, valdesi, umiliati, patarini, apostolici, dolciniani...
Non è un caso isolato, Francesco, ma non sarà trattato da eretico come gli altri, anzi, gli sarà concesso ciò che vuole, perché non pretende che a spogliarsi di ogni bene sia la Chiesa. Di più, ammonisce chi lo pretende: «Beato il servo di Dio che ha fiducia nei chierici
[…]
e guai a quelli che li disprezzano, perché, anche se sono peccatori, tuttavia nessuno li deve giudicare, giacché spetta solo al Signore. Infatti, tanto è alto il loro ministero […], tanto è grave la colpa di quanti peccano contro di essi, ben più che peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo» (Verba admonitionis, XXVI). Rassicurato, Innocenzo III gli concede di fondare l’ordine. Gli altri fanatici della pauperitas, prima e dopo Francesco, saranno tutti sterminati.
Se mai il francescanesimo fosse nato come rivoluzione religiosa, qui sta il riflusso. Ma si tratta di un fraintendimento che è venuto molto a posteriori, perché la pauperitas di Francesco nasce fin da subito per essere disciplinata da un «corrector et protector».
martedì 19 marzo 2013
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Se riduciamo il cattolicesimo a immagini che risultino commestibili all’ingenuo, la più appetibile risulterà senza dubbio quella del Papa Buono, che è cara pure ai miscredenti, mentre la più vomitevole risulterà probabilmente quella dei preti che hanno commesso abusi sessuali a danno dei minori affidati alle loro cure, che disgusta e indigna anche i più devoti tra i credenti. Bene, la dimostrazione che il cattolicesimo non può essere ridotto a questo genere di immagini sta nella controfirma di Giovanni XXIII in calce alla Crimen sollicitationis, che a beneficio di chi ha memoria corta giova rammentare coprì per decenni migliaia di pedofili in tonaca, insabbiandone gli stupri e riducendo al silenzio gli stuprati. L’ingenuo si chiederà com’è possibile che una pasta d’uomo come il Roncalli abbia dato il suo avallo a una mostruosità del genere, ma l’ingenuità ha un antidoto per ogni perplessità: gliel’avrà messa sotto il naso un cardinale di quelli che hanno una fogna al posto dell’anima – sarà la risposta – e lui, il Papa Buono, l’avrà controfirmata senza nemmeno leggerla.
Funziona così, l’antidoto: se non voglio complicarmi troppo la lettura della realtà e non voglio rendermi inservibile il santino dal quale il Roncalli mi sorride col suo simpatico faccione da curato di campagna col chiedermi com’è che in lui potessero coesistere la bonomia di chi dalla finestra mandava una carezza ai bambini e il cinismo di chi alla scrivania vistava la Crimen sollicitationis, ho bisogno di proteggerlo con l’immaginetta di un cattivone. È così che all’ingenuo la storia della Chiesa torna semplice: Gesù che carezza l’agnellino e Torquemada che scortica un ebreo, come se tra i due vi fosse un abisso, e allora va’ a capire chi tra i due può aver detto: «Chi non è con me è contro di me», senza dubbio deve averlo detto Torquemada.
La ricerca della povertà
La desinenza in -ismo suggerisce che il pauperismo sia categorizzazione ideologica della pauperitas come modello di vita moralmente superiore. Così è, ma solo in parte, perché l’-ismo qui categorizza innanzitutto una condizione di stato: prima di essere «ideale di povertà professato da alcune comunità cristiane», infatti, il pauperismo è «fenomeno economico e sociale per cui in determinati periodi larghi strati della popolazione sono colpiti dalla miseria in conseguenza di un complesso di fattori di varia natura (penuria di risorse naturali e di capitali, scarso spirito di intraprendenza, cattiva distribuzione della ricchezza, ecc.) o anche di fatti eccezionali (guerra, carestia, crisi economica, inflazione acuta, ecc.)» (Treccani). In questa accezione, ovviamente, il pauperismo non implica alcuna tensione ideale verso un modello: alla miseria, qui, non si arriva nel perseguimento di una virtù.
E tuttavia l’esperienza insegna che anche nei casi in cui sia sollevata a ideale – da un singolo, da un ordine religioso, da un movimento politico – la pauperitas è sempre un fare de necessitate virtutem, dove la necessitas è posta da un’irrinunciabile istanza penitenziale, dall’esigenza di affermare una priorità spirituale su ogni bene materiale che sia di ostacolo al suo raggiungimento, da una dottrina economica che rigetta il fine della crescita come insostenibile. In pratica, la necessitas è posta da condizioni in cui la ricerca del benessere materiale oltre una certa misura viene ad essere sentita ingiusta nel senso etimologico del termine, cioè contraria alla legge che stabilisce quella misura come sostenibile in relazione a un fine.
E tuttavia l’esperienza insegna che anche nei casi in cui sia sollevata a ideale – da un singolo, da un ordine religioso, da un movimento politico – la pauperitas è sempre un fare de necessitate virtutem, dove la necessitas è posta da un’irrinunciabile istanza penitenziale, dall’esigenza di affermare una priorità spirituale su ogni bene materiale che sia di ostacolo al suo raggiungimento, da una dottrina economica che rigetta il fine della crescita come insostenibile. In pratica, la necessitas è posta da condizioni in cui la ricerca del benessere materiale oltre una certa misura viene ad essere sentita ingiusta nel senso etimologico del termine, cioè contraria alla legge che stabilisce quella misura come sostenibile in relazione a un fine.
Non si tratta, però, di una misura fissa, perché il fine varia al variare della necessitas.
Così, nell’istanza penitenziale del singolo la misura è estremamente bassa, nella regola dell’ordine religioso che fa della povertà un ideale di vita è invariabilmente più alta, e ancor di più lo è nella dottrina economica che mette in discussione il principio della crescita. Anche quando si professa tale, dunque, la pauperitas non è mai un valore che trae senso da se stessa: la legge che ne esprime la necessitas risponde ad esigenze che variano all’interno dello stesso contesto storico, e in funzione del fine posto in ciascuno dei differenti modelli di virtus da perseguire. Potremmo concludere che la pauperitas non è mai fine a se stessa, ma è sempre un mezzo, che nell’accezione del pauperismo come modello di vita moralmente superiore trova il migliore occultamento di una condizione di stato. Non è un caso, infatti, che i movimenti pauperistici nascano sempre in momenti di profonda crisi, quando all’accumulo di grandi ricchezze nelle mani di pochi corrisponde la miseria di molti.
Se saggiamo queste considerazioni d’ordine generale sulle esperienze dell’ideale pauperistico che abbiamo incontrato lungo la storia, sembra costante il richiamo a una pauperitas che troverebbe fondamento nelle Scritture della tradizione giudaico-cristiana. Bene, occorre dire che tale fondamento è assai malcerto per ciò che attiene al Vecchio Testamento. Qui, Dio ricompensa chi gli è caro proprio con l’abbondanza di beni materiali (per esempio, in Gen 17, 6-8, in 2 Sam 7, 9-16, in 1 Re 3, 13, in Gb 42, 10-12, ecc.), e solo relativamente tardi inizia a farsi strada l’idea di una misura oltre la quale i beni materiali possano diventare un ostacolo al rispetto della Legge: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio» (Pr 30, 7-9). Tardiva, infine, la condanna della ricchezza come fonte di rovina spirituale, che compare per la prima volta solo nel Libro di Isaia (Is 1, 16-17 e Is 58, 6-7). Dobbiamo aspettare il Nuovo Testamento, quando l’avvento regno di Dio si dà come imminente, perché la povertà diventi una virtù fine a se stessa, almeno in apparenza. Più che in Mt 5, 3 (dove i poveri sono «poveri in spirito»), è in Lc 6, 20 («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio») e in Lc 6, 24 («Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione») che ne troviamo la più esplicita enunciazione, ma qui è proprio l’antitesi beatitudine/condanna a rivelare la traccia di una necessitas: nell’accumulo delle ricchezze è implicito il rigetto dell’annuncio che l’avvento regno di Dio è imminente. È sull’imminenza del regno di Dio, d’altronde, che si consuma in ambito cristiano la questione della pauperitas.
«Al tempo dei martiri la Chiesa primitiva fiorì presso Dio e non presso gli uomini. Ma quando i re, gli imperatori romani e i principi si convertirono alla fede, essi, come buoni figi, vollero onorare la loro madre, la Chiesa, conferendole terre e proprietà, onori e dignità secolari, diritti e insegne regali, come fecero Costantino ed altri fedeli. E così la Chiesa cominciò a fiorire tanto presso gli uomini che presso Dio. Possieda dunque la Chiesa, nostra madre e signora, le cose che le sono state date dai re e dai principi. Le distribuisca e le dia ai suoi figli come sa e come vuole»: è papa Pasquale II, al Concilio Lateranense del 1116, quando è chiaro che la fine dei tempi attesa per l’Anno Mille è dilazionata ad altra data. Ma non bisogna aspettare tanto. Siamo nel I secolo, infatti, e già l’incetta trova modo di trovare necessitas nella pauperitas: «Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Anania, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano» (At 5, 1-5).
[continua]
Se saggiamo queste considerazioni d’ordine generale sulle esperienze dell’ideale pauperistico che abbiamo incontrato lungo la storia, sembra costante il richiamo a una pauperitas che troverebbe fondamento nelle Scritture della tradizione giudaico-cristiana. Bene, occorre dire che tale fondamento è assai malcerto per ciò che attiene al Vecchio Testamento. Qui, Dio ricompensa chi gli è caro proprio con l’abbondanza di beni materiali (per esempio, in Gen 17, 6-8, in 2 Sam 7, 9-16, in 1 Re 3, 13, in Gb 42, 10-12, ecc.), e solo relativamente tardi inizia a farsi strada l’idea di una misura oltre la quale i beni materiali possano diventare un ostacolo al rispetto della Legge: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio» (Pr 30, 7-9). Tardiva, infine, la condanna della ricchezza come fonte di rovina spirituale, che compare per la prima volta solo nel Libro di Isaia (Is 1, 16-17 e Is 58, 6-7). Dobbiamo aspettare il Nuovo Testamento, quando l’avvento regno di Dio si dà come imminente, perché la povertà diventi una virtù fine a se stessa, almeno in apparenza. Più che in Mt 5, 3 (dove i poveri sono «poveri in spirito»), è in Lc 6, 20 («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio») e in Lc 6, 24 («Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione») che ne troviamo la più esplicita enunciazione, ma qui è proprio l’antitesi beatitudine/condanna a rivelare la traccia di una necessitas: nell’accumulo delle ricchezze è implicito il rigetto dell’annuncio che l’avvento regno di Dio è imminente. È sull’imminenza del regno di Dio, d’altronde, che si consuma in ambito cristiano la questione della pauperitas.
«Al tempo dei martiri la Chiesa primitiva fiorì presso Dio e non presso gli uomini. Ma quando i re, gli imperatori romani e i principi si convertirono alla fede, essi, come buoni figi, vollero onorare la loro madre, la Chiesa, conferendole terre e proprietà, onori e dignità secolari, diritti e insegne regali, come fecero Costantino ed altri fedeli. E così la Chiesa cominciò a fiorire tanto presso gli uomini che presso Dio. Possieda dunque la Chiesa, nostra madre e signora, le cose che le sono state date dai re e dai principi. Le distribuisca e le dia ai suoi figli come sa e come vuole»: è papa Pasquale II, al Concilio Lateranense del 1116, quando è chiaro che la fine dei tempi attesa per l’Anno Mille è dilazionata ad altra data. Ma non bisogna aspettare tanto. Siamo nel I secolo, infatti, e già l’incetta trova modo di trovare necessitas nella pauperitas: «Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Anania, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano» (At 5, 1-5).
[continua]
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