In uno
dei miei ultimi post («Strumento di democrazia diretta» - Malvino, 2.7.2013) ho
illustrato l’opinione decisamente scettica del socialista Arturo Labriola (1873-1959)
sul referendum, strumento di democrazia diretta – sosteneva – che vuol essere
un «correttivo» della democrazia rappresentativa, ma che in pratica si rileva
sempre «inutile» o «impotente». In parte ho fatto miei i suoi argomenti, che mi sono parsi convincenti, e ho
invitato il lettore a esaminare i risultati dei referendum tenutisi in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni liberandoli dalla retorica celebrativa: quello sul divorzio e quello sull’aborto,
solitamente citati per rappresentare l’istituto referendario come il più alto
momento di partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, si
limitarono a ratificare due leggi varate dal Parlamento, mentre la volontà
espressa nell’esito di molti altri – due per tutti, quello sull’abolizione del
finanziamento pubblico ai partiti e quello sulla responsabilità civile dei
magistrati – fu tradita senza troppa difficoltà.
Mi è stato fatto notare che l’esempio
italiano non è il migliore per saggiare potenzialità e limiti dell’istituto
referendario, invitandomi a considerare quello svizzero. È obiezione che fu
sollevata anche alla tesi espressa da Arturo Labriola, che la rigettò portando
a esempio i risultati dei 128 referendum tenutisi nel cantone di Zurigo tra il
1874 e il 1893, e concludendo – sennatamente, a mio modesto avviso – che si era
votato su questioni sostanzialmente irrilevanti. E tuttavia il modello svizzero
veniva da lui contestato nell’impianto: «Il corpo elettorale deve deliberare intorno a
questi punti e deve adottare una decisione. Ogni giudizio di insieme sfugge e
deve evitarsi. La mozione presentata si giudica per ciò che appare. Essa è
quella che è. L’elettore, deponendo nell’urna il suo bollettino, afferma
soltanto che intorno a quel punto determinato la sua volontà è questa o quest’altra.
Non esamina i motivi che hanno determinato la proposta, non questiona intorno
al modo pratico come verrà eseguita, non giudica degli uomini chiamati all’ufficio
delicato di applicare e, meglio ancora, di interpretare la legge: dà un avviso
intorno alla “cosa” e nulla più. Questa è ritenuta una manifestazione di radicale
democrazia, eppure è soltanto una pericolosa illusione […] Carezzando la vanità
popolare col pregiudizio che gli uomini in fondo contino nulla in regime
apparentemente democratico, cioè soggetto alla volontà popolare, e che a nulla
riducasi il potere dei governanti dove essi siano semplici ministri e strumenti
di altrui volere, si sollevano effettivamente questi uomini al di sopra del
comune livello e si dà loro una strana supremazia».
Quand’anche sia di solo
impiego «correttivo» della democrazia rappresentativa, per Arturo Labriola, il
referendum ha in sé il pericolo che sta nella democrazia diretta: parcellizzare
la gestione della cosa pubblica in istanze disarticolate da un progetto di
società, che con ciò non è smarrito nelle contraddizioni del plebiscitarismo,
ma trasferito in modo più o meno occulto nelle mani del demagogo di turno. «Vi
furono forse democrazie più dirette e radicali di quella di Atene? Quale
corruzione vi si esercitasse è roba che si apprende nelle prime scuole. E, a
dirla come sta, e in modo che non ci si senta troppo, è stato sempre più facile
corbellare le masse e corromperle in tutte le forme, che acquistarne i corifei.
[…] Trasferire la responsabilità di un fatto dagli uomini alle masse è già un
modo facile di eliminare ogni responsabilità. […] Il concetto della
responsabilità è un concetto esclusivamente personale. Più oblitera questo
carattere e più si oblitera esso stesso».
Non si scandalizzi, il lettore, ma
questa voleva essere solo la premessa a riflettere su una cosuccia tanto piccina
che sotto tutto quanto fin qui detto rischia addirittura di rimanere
schiacciata per la sua irrilevanza: qualche giorno fa Beppe Grillo ha espresso il
suo favore ai referendum di cui si sono fatti promotori i radicali di Marco
Pannella e oggi Silvio Berlusconi ha annunciato il suo appoggio alla raccolta di firme per alcuni dei quesiti. Due cosucce, dunque? No, una sola. Infatti, a sostenere un’iniziativa referendaria
–
chi nel promuoverla, chi nell’appoggiarla in modo generico, chi nella dichiarazione d’impegno attivo (sebbene limitato ad uno solo dei due pacchetti di quesiti, quello sui temi di natura giudiziaria) – troviamo tre leader politici che tra i molti tratti in comune hanno leadership di tipo carismatico, proprietà di fatto del movimento che guidano e gravi disturbi della personalità. Si tratta della triade che Kets De Vries individua nella figura del demagogo (Leaders, fools and impostors, 1993). Ci troviamo, in sostanza, di fronte al paradigma del momento di democrazia diretta che si fa strumento di quella che per Labriola è «una pericolosa illusione».
A scanso di equivoci, però, occorre qualche chiarimento. Quasi tutti i referendum di cui si sono fatti promotori i radicali pongono questioni di rilievo e in buona sostanza propongono l’abrogazione di leggi che a mio modesto avviso sarebbe giusto abrogare. Non
entrerò nel merito delle questioni poste dai dodici quesiti, mi limiterò a
segnalare che su due – l’abolizione del finanziamento pubblico ai
partiti e la responsabilità civile dei magistrati – abbiamo già
votato e con esito che Labriola definirebbe «inutile» o «impotente». Tentar
non nuoce, e forse neppure ritentare, ma – dicevamo – qui ci interessa solo la cosuccia,
perché sul fatto che gli uomini che hanno in mano le leve dello Stato, «se
vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono
vittoriosamente resistervi», abbiamo già discusso nel post che ho citato all’inizio.
Un altro chiarimento necessario è relativo alle ragioni che portano a questa singolare congiunzione di astri nel firmamento della politica italiana. Ellittiche diverse, naturalmente, quelle di Pannella, di Grillo e di Berlusconi. Il primo è da almeno due decenni alla disperata ricerca di uscire dall’isolamento che peraltro ha ostinatamente cercato. Non è il caso di dilungarci troppo, su queste pagine la
«cosa radicale» è stata oggetto di analisi in più occasioni. In breve, qui, possiamo limitarci a dire che lo strumento referendario era stato un po’ messo da parte dai radicali: costava energie sempre maggiori e dava risultati sempre minori. E tuttavia per Radicali Italiani, il soggetto della cosiddetta
«galassia radicale» che negli ultimi anni è venuto a dar segni di sempre più manifesta insofferenza al settarismo di Pannella, il referendum è parso il solo tentativo possibile per rompere l’isolamento, e la scelta di sei temi sui quali i sondaggi danno da tempo il favore di larga parte dell’opinione pubblica nazionale è parsa la via più sicura. Non era quello che Pannella voleva. Trovandosi a dover accettare il fatto compiuto, ha aggiunto al pacchetto dei sei referendum promossi da Radicali Italiani quello suo, con altri sei referendum, su temi riguardanti la giustizia. Difficile capire se l’abbia fatto per riprendere il controllo dell’iniziativa politica della
«galassia» neutralizzando le velleità di autonomia montanti in seno all’area, di fatto sta che i dodici quesiti referendari per i quali i radicali si stanno spendendo a raccogliere le firme si rivolgono a sensibilità che trovano congruità solo in un liberale: nella realtà italiana, che di liberale ha poco o niente, i primi sei chiamano a raccolta la sinistra e i secondi sei la destra.
Per Grillo il discorso è completamente diverso. Innanzitutto non è affatto certo che sapesse di cosa si trattasse quando il giornalista di Radio Radicale gli ha posto la questione. Attestato da sempre su posizioni giustizialiste, il M5S appoggia il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati o quello che pone maggiori limiti alla custodia cautelare? Bah, può darsi, di certo c’è soltanto che alla dichiarazione molto estemporanea, molto vaga e per nulla impegnativa non è seguito altro, al momento. Forte è il sospetto che Grillo fosse a conoscenza solo del primo pacchetto di quesiti referendari (abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, introduzione del divorzio breve, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alle vigenti norme sugli stupefacenti, ecc.).
Diametricamente opposto il discorso per l’appoggio
– attivo, in questo caso – annunciato da Berlusconi: è altamente improbabile che i suoi si impegneranno nella raccolta di firme per toccare i punti sensibili della Bossi-Fini o della Fini-Giovanardi, altamente improbabile che facciano uno sgarbo alla Cei su questioni come il divorzio breve e l’8xmille. Inutile sottolineare, inoltre, il senso strumentale che assume il suo appoggio alla campagna referendaria radicale
per la «giustizia giusta» nel frangente che lo vede impegnato come mai prima nella difesa delle sue sorti di indagato e di condannato in attesa di sentenze definitive.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, potrà essere indulgente con chi ha voluto solo tratteggiare per sommi capi le vie che portano i tre a questo assai malfermo accordo su gambe entrambe zoppe: l’intenzione non era quella di delineare lo scenario politico italiano dinanzi alle variabili poste dai referendum radicali, se mai si terranno, ma di tornare
–
come d’altronde era annunciato dal sottotitolo del post –
alla critica sollevata da Labriola.
«Strumento di democrazia diretta», il referendum. Anche quando si dà come «correttivo» di una democrazia rappresentativa, tuttavia, non perde i caratteri che rendono pericolosa la democrazia diretta fatta sistema.
Strumento, dunque, non solo «inutile» o «impotente», ma anche rischioso. E il rischio
–
se a questo punto non è superfluo aggiungerlo – è tutto a carico dei cittadini che, illudendosi di farsi legislatori in prima persona, non fanno altro che offrirsi, più o meno coscientemente, ai disegni di chi non si fa alcuno scrupolo nel «corbellare le masse».
Aggiornamento (15.7.2013) «Forte è il sospetto che Grillo...», dicevo. Sospetto ben fondato: fa sapere che non sapeva di cosa parlava e ritira il suo appoggio.