giovedì 19 dicembre 2013

Da ridere


Nel Trecentonovelle (Franco Sacchetti, 1392)* si narra di una ragazza che giunge terrorizzata alla prima notte di matrimonio, perché le è giunta voce che il marito abbia un pene enorme. Questi la tranquillizza, dicendole che non l’hanno informata a dovere. Egli ne ha due, rivela: uno è davvero enorme, come ella ha sentito dire, ma l’altro assai più piccolo, e per i primi tempi inizierà ad usare quello. Tutto fila liscio – è il caso di dire – senonché, dopo qualche tempo, la giovane moglie gli dice che si sente pronta a provare il pene più grosso, al che il marito scoppia a ridere.
Salto temporale: pare sia stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti, che però era da intendere abolito già dal 1993, e al suo posto entri in vigore una forma di finanziamento che, almeno in parte, sempre pubblica è. Cioè, non entra in vigore subito, ma tra qualche anno. D’intanto sono all’incasso le rate dei rimborsi elettorali, che sarebbe la forma di finanziamento pubblico ai partiti che vige dall’ultima volta che era stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Sbaglio o è da ridere?



* (20.12.2013) Ero sicuro si trattasse di una novella del Sacchetti, ma mi fanno notare che nel Trecentonovelle non cè. Sono certo, tuttavia, che l’autore sia del XIV secolo, forse il Sercambi, boh. Mi scuso per l’informazione errata.
(21.12.2013) Grazie a D.M. riesco finalmente a dare l’informazione corretta: si tratta di Poggio Bracciolini (Facezia LXI). 



mercoledì 18 dicembre 2013

Feluca praticamente uguale




Non so se ci avete fatto caso, ma tutti i matti che credono d’essere Napoleone si sentono a Sant’Elena. Naturalmente parliamo dei matti che vivono nelle barzellette, negli sketch, nelle vignette umoristiche, perché nella pratica psichiatrica è più unico che raro trovare un paranoico che creda d’essere Napoleone: mai a Marengo o in Egitto, mai a Desdra o a Ligny, il matto della storiella buffa è sempre un Napoleone a fine carriera, e probabilmente è proprio questo che produce l’effetto tragicomico voluto, perché il manicomio evoca sconfitta ed esilio, ancorché del senno. Così è con Giuliano Ferrara: anche lui, più che persona reale, ormai è una macchietta, e non sta tanto bene, e si sente Machiavelli. Il Machiavelli a fine corsa, quello cui la fortuna ha acciaccato tutti i Cesare Borgia dietro ai quali ha annaspato, quello che smania per rientrare in gioco, non importa se al servizio di Bergoglio o di Renzi, tanto fa lo stesso. È che Bergoglio non gli piace, e anche a sforzarsi di farselo piacere, non gli riesce. Renzi, poi, manco se lo caga. Peraltro s’è sparsa voce che accettare i suoi servigi porti male: a ogni consiglio omaggio che manda a un Principe, quello pensa a Craxi, a Berlusconi, a Ratzinger, e si tocca le palle.
Come il matto che si crede d’essere Napoleone solitamente sta dritto davanti alla finestra con le sbarre, una mano infilata tra i bottoni della giubba, sguardo perso verso un orizzonte che non va più in là del muro di cinta, così il povero Giuliano Ferrara si offre in posa da grande pensatore incompreso dai suoi contemporanei, e srotola il curriculum, se lo rimira, poi mestamente lo riarrotola e sfoga il suo umor nero perdendosi nei massimi sistemi, in primis la bioetica. Qui il parallelo col Grande Fiorentino cede, perché quello riempì pagine e pagine per separare la politica dalla morale, mentre qui il Grosso Testaccino sono anni che non smette di gonfiarci i coglioni nel tentativo di fare dell’aborto una questione squisitamente politica, anzi antropologica. Per il resto il parallelo tiene: stessa dolente disillusione, stesso ruminare sulla cecità del destino… Un assaggio?
«Sei anni dopo rifletto ad alta voce. La chiesa di Ratzinger e Ruini sembrava incoraggiarmi, in realtà mi lasciò discretamente solo nonostante tutti gli Evangelium vitae e altri pronunciamenti, nel quarantennale della Humanae vitae del coraggioso e abbandonato Paolo VI. Non mi lamentai delle porte chiuse delle sagrestie, quando presentai una lista pazza ma laica alle elezioni, di perfetto insuccesso, perfettamente incompresa e forse incomprensibile per l’opinione elettorale media, una lista contro Berlusconi mio amico sordo a certi discorsi, che mi aveva scongiurato di abbandonare quel tema divisivo, contro le femministe che venivano a tirare quintali di prezzemolo al Foglio, contro il mondo di celluloide della ricerca scientifica, contro la stragrande maggioranza dei cattolici…».
Via, non è straziante quasi come il prologo della Mandragola? «Se questa materia non è degna, per esser pur leggieri, d’un uom che voglia parer saggio e grave, scusatelo con questo, che s’ingegna con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave, perch’altrove non have dove voltare el viso, ché gli è stato interciso mostrar con altre imprese altra virtue, non sendo premio alle fatiche sue».
Stessa differenza che c’è tra Napoleone e il matto che crede d’essere Napoleone, ma feluca praticamente uguale. 

lunedì 16 dicembre 2013

Pretendo troppo, so bene


A un biblista non sarebbe passato neppure per l’anticamera del cervello di dire che «nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio ci conduce per mano come un papà fa con il figlio» (La Stampa, 15.12.2013), ma Bergoglio non è un biblista, e chi lo intervistava, ammesso che abbia letto il Libro del Deuteronomio, non poteva certo dirgli: «Scusi, Santità, parliamo del Libro in cui il “papà” ordina al “figlio” di sterminare tutta la gente di Sicon (Dt 2, 26-37) e di Basan (Dt 3, 1-11), compresi vecchi, donne e bambini, per impossessarsi della loro terra, delle loro case e dei loro greggi? O forse fa riferimento alla visione pedagogica in virtù della quale, “se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e […] allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno” (Dt 21, 18-21)?». Ce lo vedete, il Tornielli? Si caga addosso dallemozione quando intervista un cardinale, figuriamoci col papa... 

Non è biblista, Bergoglio, ma neanche teologo, sicché di fronte a lui Ratzinger pare davvero il gigante che s’è sempre detto, e che non è mai stato, visto che comparandolo a Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, Barth, Bultmann, De Lubac, Maritain, Rahner, Guardini, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, resta una mezzasega. Non è teologo, Bergoglio, dunque è comprensibile che alla domanda «perché soffrono i bambini?» risponda «non c’è spiegazione», mica si può pretendere che citi l’Agostino del De natura boni. Il fatto è che cita Dostoevskij, dice che risposta lha trovata in Dostoevskij, e verosimilmente fa riferimento al dialogo sulla questione tra Ivan e Alëša, ne I fratelli Karamazov, nel quale a dire che «non c’è spiegazione» alla sofferenza dei bambini è Ivan, l’ateo, mentre il pio Alëša una spiegazione ce l’ha, e ribatte che Dio lascia che accada come ha voluto accadesse a suo figlio, che «ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto», che è proprio l’Agostino del De natura boni, sputato, e sarà pure una spiegazione a cazzo di cane, ma teologicamente regge. Ok, ma se leggi Dostoevskij, e manco lo capisci, ti conviene metter mano alla Patristica? 

Né biblista, né teologo, Bergoglio, ma neppure ’sto gran campione di ecclesiologia, perché, alla domanda «avremo donne cardinali?», risponde che «le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non “clericalizzate”», che nella migliore delle ipotesi è da considerare la deviazione di un tiro moscio in calcio d’angolo. Perché, delle due, una: o il valore che intende dare alla donne nella Chiesa non potrà comunque mai essere pari a quello che implica il ministero del sacerdozio, e allora c’è chiara elusione di ciò che era posto nella domanda relativamente al ruolo subalterno della donna nella Chiesa, o c’è patente svalutazione di ciò che implica nel ministero del sacerdozio l’elevazione alla carica cardinalizia, e allora saremmo alla blasfemia...

Vabbe’ – uno dice – almeno sarà un grande catechista, ’sto Bergoglio. Manco per niente, perché pure in questa intervista sottolinea e risottolinea l’importanza delle opere di misericordia corporale – qui con un bel «date da mangiare a chi ha fame» – ma quelle di misericordia spirituale? Consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti e ammonire i peccatori, per esempio, come si attagliano a quel «chi sono io per giudicare un gay?». E che cazzo di risposta è quella che dà alla domanda se si sia offeso per l’accusa di essere un marxista che gli è stata mossa da ambienti cattolici statunitensi per la sua Evangelii gaudium? «L’ideologia marxista è sbagliata – dice – ma nella mia vita ha conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso». Ok, ma in questione era il contenuto dell’Evangelii gaudium, non la malvagità personale dei marxisti. Che potranno anche essere tutti quanti buoni come persone, ma questo cosa cambia di ciò che la Dottrina Sociale della Chiesa dice del marxismo? Puoi rigettare l’accusa? E allora spiega perché quella Esortazione non è marxista…

Pretendo troppo, so bene. In realtà, Bergoglio non è altro che un esperto in pubbliche relazioni, che poi era quello di cui la Chiesa di Roma aveva bisogno per cercare di non affogare nel mare di merda che ormai le arrivava al collo. E il suo lavoro, bisogna essere onesti, lo sta facendo con indubbia perizia, anche grazie al contributo dei tanti poveri fessi, credenti e no, che non sono mai mancati a illudersi che il primo Pio IX fosse un riformista, per rimanerne delusi quando licenziò il Sillabo, che Leone XIII fosse una specie di socialista, per poi beccarsi un Pio X sulle gengive, che Pio XI fosse una specie di partigiano antifascista, per poi pigliarsi in culo un Pio XII che si spendeva per un’intesa tra democristiani e missini, che Giovanni XXIII fosse un riformatore, per poi sorbirsi la controriforma di Paolo VI, che il «Dio mamma» di papa Luciani aprisse a chissà cosa, per poi scandalizzarsi dinanzi alla scoperta che per finanziare Solidarność lo Ior di Marcinkus riciclava soldi della mafia… La Chiesa è sempre se stessa, cambia solo faccia alloccorrenza. 

domenica 15 dicembre 2013

sabato 14 dicembre 2013

[...]


Come all’enologo è necessario il dizionario dei sinonimi per spiegarci se quel tal punto di dolcezza di un passito sia tiepido o malleabile, affettuoso o mite, tenero o gradito, e se la sua fermezza si dia in perseveranza o risolutezza, in solidità o tenacia, in stabilità o decisione, ed eviterei di entrare in merito al colore sennò l’elenco dei possibili gialli mi prende tutta la pagina, così a Bergoglio è indispensabile il dizionario analogico, perché non c’è omelia che faccia eccezione: piglia un lemma – chessò, peccato – lo sfiletta nei suoi figurati (colpa, mancanza, macchia, offesa, ecc.), li impana nelle relative azioni (commettere, soccombere, scivolare, cadere, ecc.), li frigge e li spadella in una sprolunga, accostandoli al contorno degli attori (l’accidioso, l’ipocrita, l’egoista, l’avido, ecc.) che in precedenza ha messo da parte a scolare, dopo averli stufati a vapore. Ricetta sempre eguale, uno schema da predicatore compulsivo, e l’olio di frittura non cambia mai, sicché da Santa Marta comincia a levarsi il cattivo odore che viene via dalle porte scorrevoli delle rosticcerie nelle ore di punta, che tuttavia manda in sollucchero i boccaloni. Più che all’Unto, siamo al bisunto.  

venerdì 13 dicembre 2013

«Quest’uomo era grande soprattutto nella meschinità»



1. Oggi persiste quasi esclusivamente a margine di mostre, fiere o esposizioni, ma un tempo era usanza d’ogni famiglia dabbene avere un album sul quale gli ospiti vergavano la propria firma, spesso con dedica, e quello dei Borgese era davvero originale, una tovaglia di lino quadrata, 175 cm per lato, sulla quale gli ospiti firmavano con un tratto di matita sul quale la padrona di casa provvedeva a far scorrere in ricamo un filo di cotone rosso a punto erba: Gabriele d’Annunzio e Igor Stravinskij, Grazia Deledda e Anna Kuliscioff, Eleonora Duse e Giovanni Gentile, Giovanni Amendola e Benito Mussolini, Filippo Turati e Alcide De Gasperi, Gian Francesco Malipiero e Felice Casorati, il generale Cadorna e Sibilla Aleramo, e poi Aldo Palazzeschi, Cesare Zavattini, Dino Buzzati, Corrado Alvaro e tanti altri, 718 per la precisione, in una selva di allunghi, curve, occhielli e intozzate, che davvero è «figurazione del “Secolo breve”», come Corrado Stajano scrive sull’ultimo numero dela Lettura (Corriere della Sera, 8.12.2013), rammentandoci la figura di Giuseppe Antonio Borgese, oggi ingiustamente trascurata.
Bell’articolo, bisogna dire, dal quale riporto un passaggio sul quale può tornare utile riflettere: «Benedetto Croce l’aveva tenuto a battesimo, poco più che ventenne, pubblicando la sua tesi di laurea, Storia della critica romantica, elevandolo sul gradino più alto della cultura e non fu avaro di elogi, burbero com’era, scrivendo di un suo saggio su Gabriele d’Annunzio. Borgese visse così la giovinezza in quella privilegiata cerchia crociana, da critico amato e stimato dal sommo maestro. Poi accadde l’irreparabile pagato a caro prezzo. Borgese non fu benevolo nel recensire lo studio del Croce sul Vico. Il gran patriarca che teneva in pugno la cultura italiana della prima metà del Novecento e non tollerava critiche, e neppure ragionevoli appunti, prese le distanze da quel suo precocissimo allievo: cominciò così un ostracismo durato per tutta la vita. Croce ebbe crude parole. Borgese, che non restò silenzioso, fu da allora stroncato, denigrato, insultato dai critici più autorevoli dell’epoca, da Renato Serra a Luigi Russo a Giuseppe De Robertis. Nel conflitto con Benedetto Croce e i crociani più fedeli contarono non soltanto le diversità del giudizio critico, ma anche quelle caratteriali. Il successo mondano di Borgese, da cui il Croce e i suoi, infastiditi, dicevano di rifuggire, era disturbante».
Efficace, ma lo sarebbe stato di più ricordando che le molestie dei crociani inseguirono Borgese fino agli ultimi anni della sua vita, quando insinuarono che il suo secondo matrimonio con la figlia di Thomas Mann, dopo la morte della prima moglie, fosse stato di convenienza. Né tuttavia c’è da stupirsi che la cerchia dei crociani fosse capace di simili schifezze, perché la lobby di Palazzo Filomarino rimane paradigma eloquentissimo, per varietà ed esemplarità di casi, di quanto un imprenditore nel campo della cultura – ritenere oggi Benedetto Croce un «pensatore» è mero anacronismo – possa farsi boss mafioso.

2. Sui danni causati da Benedetto Croce alla cultura italiana e al movimento liberale in Italia mi sono già intrattenuto in altre cinque o sei occasioni su queste pagine, qui mi limiterò a sottolineare solo questo aspetto. A tal fine sarà inevitabile il ricorso a nomi, fatti, date che spesso si condenseranno nel momento aneddotico, sicché voglio da subito mettere in chiaro che quanto qui riportato non attiene al vacuo pettegolezzo, ma trova riscontro in fonti che non hanno mai trovato smentita, neppure da parte delle solerti sentinelle che per uno o due decenni dopo la sua morte hanno montato di guardia al mito che egli stesso aveva provveduto a costruirsi in vita.
Le condizioni in cui oggi versa questo mausoleo fanno tanta più pena quanto più si pensi alle energie spese per erigerlo e al numero di quanti parteciparono alla sua costruzione seguendo supinamente, non di rado con entusiasmo, le indicazioni di chi pensava di dovervi riposare in eterno, meta dello stesso devoto pellegrinaggio di cui fu fatto oggetto Palazzo Filomarino fino a quando fu in vita. In fondo, paragonata alla straordinaria fortuna che godette fino alla sua morte, la sorte cui il suo pensiero andò incontro dovrebbe essere di monito a quanti sono convinti che si possa conquistare l’eterna memoria dei posteri riposando nel monumento delle proprie idee, eretto reclutando manipoli di cretini, più o meno talentuosi, animati da incoercibile pulsione gregaria.
Mai come nel caso di Benedetto Croce, questo calcolo si è rivelato errato: già dieci anni dopo la sua morte – il 20 novembre 1952 – il suo sistema filosofico era a pezzi, e ogni contorno della sua figura – lo storico, il critico letterario, l’uomo politico – sbiadiva. Già vent’anni dopo, le sue opere non erano più ristampate: già allora era lecito affermare che il neoidealismo crociano fosse morto e sepolto con Benedetto Croce.
«Che la realtà si riduca allo spirito che la conosce e che fuori di essa non sia nulla – scriveva Nicola Abbagnano nel ventennale della sua morte – appare oggi come una tesi anacronistica, perché ogni considerazione o interpretazione del rapporto tra soggetto e oggetto di conoscenza evita la riduzione dell’uno all’altro». L’assioma crociano che voleva la filosofia come sistema totale e perfetto che esaurisce in sé tutta la realtà veniva sbriciolato proprio dall’evidenza dell’efficacia di quelle scienze di cui Benedetto Croce aveva dichiarato l’irrilevanza al fine di comprendere il reale e che, a lungo mortificate, si presero una micidiale rivincita, e tuttavia su di esse peserà ancora a lungo il pregiudizio che l’egemonia culturale crociana aveva imposto per oltre cinquant’anni. Se in ambito scientifico l’Italia è indietro di almeno un mezzo secolo rispetto al resto d’Europa, lo dobbiamo anche – ma non è esagerato dire soprattutto – al disprezzo che Benedetto Croce non risparmiò alla matematica, alla fisica, alla biologia, alla psicologia, alla sociologia, ecc. Ma questo l’ho già scritto e non è il caso mi dilunghi nel ribadirlo, tanto più che nel 60° della sua morte, quest’anno, è stato pressoché unanime giudizio della critica (uno per tutti, penso al bel libro di Elio Cadelo e Luciano Pellicani, edito da Rubettino) che il ritardo dell’Italia sulla via della modernità, dopo la Controriforma, è imputabile proprio a Benedetto Croce. Che d’altronde resta venerato solo dai suoi discendenti, da Corrado Ocone e da qualche rancido avanzo del più inconcludente Novecento, del calibro di un Marco Pannella e di un Angiolo Bandinelli.

3. Una cosa è da precisare, prima di ogni altra. Ogni cerchia intellettuale che ruoti attorno alla figura di un patriarca riproduce, più o meno evidentemente, le dinamiche relazionali del gruppo settario. Quando la figura del dominus riesce, poi, a dare un senso a quella dei clientes, è la norma che elementi di natura psicologica si embrichino indissolubilmente a quelli che agiscono sul piano materiale nell’acquisizione, nel mantenimento e nella perdita di vantaggi. Con Benedetto Croce e i crociani, tuttavia, siamo dinanzi a una vera e propria cancerizzazione di questa costruzione, che trova i suoi più distintivi aspetti in bozzetti narrativi che la psicoanalisi ci ha illustrato come patognomonici del gruppo che sceglie a leader una personalità gravemente disturbata.
In primo luogo, e il caso di Borgese si offre come ottimo esempio, abbiamo una costante: i più validi seguaci si trasformano ineluttabilmente in detrattori, mentre quelli meno capaci sono immancabilmente destinati al ruolo di domestici. In secondo luogo, la fedeltà di questi ultimi costruisce un sistema sul sistema: in pratica, le falle della costruzione del pensiero sono rinsaldate da interdizioni dogmatiche che lo rendono impermeabile ad ogni sorta di arricchimento, prim’ancora che refrattario alla revisione critica e al suo fisiologico sviluppo.
È fin troppo ovvio che in questi due aspetti vengano a prevalere, almeno sul piano sintomatologico, cioè su quello dei segni che contraddistinguono il carattere della «scuola», gli elementi passionali dell’illusione e della disillusione, della devozione e dell’invidia, della riconoscenza e del risentimento. E tuttavia, per ciascuno dei momenti che rappresentano al meglio queste epicriticità emozionali, il medium che se ne fa latore – direi quasi la maschera che dà carattere al moto passionale – conserva inalterato il movente dal quale procede. In altri termini, volendolo riconoscere, possiamo rintracciare sempre nella storia della «scuola» la cifra biografica del suo fondatore. Qui, nel caso di Benedetto Croce, con l’ambivalenza nei confronti di Bertrando Spaventa e di Francesco De Sanctis. Ma su questo torneremo più avanti.
Qui, aprendo la carrellata delle miserie grandi e piccole che fanno da segnalibro alla produzione del «Padre Pio della filosofia italiana», come lo definì Clotilde Marghieri, basti in esergo il ricordo che Vittore Branca affida ad Indro Montanelli (Diari 1957-1978): «Giovanni Gentile aveva lasciato la propria libreria alla Biblioteca Nazionale di Roma. Siccome lo Stato ha facoltà di accettare o rifiutare questi lasciti, dopo la guerra il ministro della Pubblica Istruzione, Arangio Ruiz, chiese a Croce un parere. Risposta di Croce: “Non posso esprimermi perché non conosco la libreria di Gentile. Però conosco la sua nullità di pensiero e di cultura e quindi ritengo che anche i suoi libri siano di scarso valore”». «Questuomo – chiude Montanelli – era grande soprattutto nella meschinità».Cercherò di dimostrare che la sua meschinità era misura del monumento vuoto e cadente che ci ha lasciato.

[segue]

Concedere qualcosa all’oggetto della propria critica


Pare assodato che l’edizione della Traviata con la quale si è inaugurata quest’anno la stagione della Scala sia  stata una delle più infelici di ogni tempo, dunque non stupisce che il giudizio di Paolo Isotta avesse da essere severo, come d’altronde è stato (Corriere della Sera, 8.12.2013), stupisce piuttosto che lo sia stato assai meno di quanto fosse lecito prevedere, almeno tenuto conto di quanto la sua penna sia affilata. Poi, la dicitura in coda al pezzo spiega il perché, e questo offre spunto ad una riflessione di carattere più generale che mi pare utile sviluppare.
Tutti sanno del solenne scazzo di qualche mese fa: Isotta scrive un pezzo particolarmente duro, la Scala si risente e ne chiede il licenziamento al direttore del Corriere della Sera, che rigetta la richiesta, riavendone in risposta il ritiro dei biglietti omaggio per assistere alle prime. Ora poco importa se la decisione di segnalare al lettore poco informato che la Scala ha dichiarato Isotta «persona non grata» sia stata dell’autore della recensione o di chi l’ha messa in pagina, quanto il significato che assume in calce ad una stroncatura assai meno corrosiva del solito, e parliamo di un critico musicale che non si è fatto imbarazzo di consigliare «un uso alternativo della bacchetta» a una direttrice d’orchestra di cui non gradiva la lettura di un pezzo. Che l’abbia voluta Isotta o il giornale, sembra stare a dire: si poteva andar giù con mano assai più pesante, ma poteva sembrare una ripicca.
C’è da aggiungere, peraltro, che la stranezza di questa dicitura resta episodio isolato, perché il giorno dopo, ad esempio, Isotta ritorna sulla Traviata, ed è ben più duro, ma stavolta non v’è traccia di avvertenza in fondo al pezzo. È come se la dicitura in calce al pezzo del giorno prima avesse assolto al compito di certificare l’onestà intellettuale del critico musicale per i pezzi a venire.

Poco importa, dicevo, se questa più o meno conscia premura sia stata sentita dovuta da Isotta o dal responsabile del giornale: in realtà importerebbe, ma solo per sapere chi dei due l’abbia ritenuta necessaria, ma questo vorrei passasse in second’ordine, perché mi pare più interessante analizzare la natura del movente. Ed è presto detto: agli occhi del lettore, dal quale non si può mai pretendere un giudizio neutro, le critiche che reiteratamente si appuntano su qualcosa o qualcuno perdono col tempo la forza dei loro argomenti, anche laddove questi si facciano vieppiù forti e stringenti. In pratica, non basta sforzarsi a criticare con rigore argomentativo per dimostrare che la critica sia libera da ogni momento di pregiudizio, ma occorre mettere le mani avanti e professare, si abbia o meno, rettezza d’intenti. In altri termini, per ottenere un credito presso il lettore, il critico deve contrarre un debito retorico, di solito con l’uso di una particolare forma di dissimulazione onesta: concedere qualcosa all’oggetto della propria critica.
La concessione può darsi in termini quantitativi o qualitativi: nel primo caso, l’attenzione sorvolerà su alcuni punti che pure potrebbero esser degni di critica arrivando addirittura a dichiararli pregi; nel secondo, attenuerà la pressione diretta sul difetto che vuole criticare, limitandosi a liberarlo da ciò che impedisce di considerarlo tale. In entrambi i casi, tuttavia, è necessario chiedere una complicità al lettore, grazie alla stipula di un patto: la critica è almeno in parte delegata al lettore, che almeno in parte la declina.
A ben vedere, siamo dinanzi a un paradosso che ha del tragicomico: l’oggetto della critica trova riparo nella stessa critica, quanto più questa è spietata.    


mercoledì 11 dicembre 2013

[...]


Verrà giorno che la neurologia prenderà a calci in culo la metafisica e pure i ragazzini sapranno spiegare con un disegnino su un foglietto il cortocircuito encefalico che nel troglodita persistente in noi genera l’idea di Dio. Fino ad allora dovremo pazientare come l’uomo pazientava nella scimmia.   

Giusto mezzo millennio



Giusto mezzo millennio è passato da quel 10 dicembre 1513 in cui Niccolò Machiavelli scriveva a Francesco Vettori: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
Sappiamo che con quella lettera cercava di rientrare in gioco, e sappiamo che non servì a nulla. Meglio così, perché se avesse avuto quello che voleva, se i Medici avessero chiuso un occhio sui suoi trascorsi affidandogli qualche incarico, molto probabilmente non avrebbe avuto modo di scrivere Il Principe, che nasce da ozio forzato e cruda frustrazione, a dispetto dell’immenso capolavoro che è.
Sarà eccesso di fantasticheria, ma penso che, anche se avesse potuto prevederla, Machiavelli avrebbe volentieri barattato la fama immortale che gli avrebbe dato quel libro con una missione diplomatica che lo facesse sentir vivo. Non sapeva che farsene, dell’immortalità, né di quella predicata dai preti, né di quella dei grandi nelle cui opere va a rifugiarsi chi ha da sdimenticare che gli è impedito altro. Mi spingerò a dire una bestialità, ma il suo umanesimo è di risulta: li antiqui huomini sono un surrogato della corte da cui è tenuto lontano, costretto com’è all’hosteria, ove con l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio e dua fornaciai s’ingaglioffisce per tutto di’ giuocando a cricca, a trich-trach, costretto al surrogato di mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose, che sono solo l’ombra sbiadita di segreti maneggi, congiure, schianti di eserciti, rimescolii di sangue, che per posta hanno la vita invece di un quattrino, per il quale invece si sbraita fino a farsi udire non di manco da San Casciano. Dante, Petrarca, Ovidio, che porta sotto il braccio, sono lenitivi coi quali trae el cervello di muffa coi pidocchi con cui sfoga la malignità di questa sua sorta: con questi, sendo contento lo si calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi; con quelli, per tutto transferirsi in loro, fuggendo lo sbigottimento della povertà e della morte.
Con Giuseppe Prezzolini potremmo dire che la leggenda è il premio che la Storia gli concesse per consolarlo delle sue disgrazie in vita. Questa leggenda – aggiunge – ce lo mostra «in modo ch’è difficile guardarlo senza fremere d’ammirazione o d’orrore». Dall’opera possiamo trasferire all’uomo entrambi i sentimenti, sentendolo fatto della stessa nostra carne: stesso sangue, stessa merda, nessun Dio, un sorriso senza labbra, né beffardo, né pietoso… Niccolò ci appare uomo. Per ciò che davvero è dato all’amicizia, scorticata da ogni soffice retorica, ci appare amico. Gli parliamo e quello per sua humanità ci risponde. 

lunedì 9 dicembre 2013

«Mica deve essere un orologio filosofico»



leva’ fumo a le schiacciate

Comunque non avrei più votato Pd dallalluce allattaccatura della coscia già assaporavo il piacere del calcio in culo che avrei dato a chi fosse venuto a chiedermi di votarlo ancora ma la vittoria di Renzi alle primarie per la segreteria del partito sigilla la decisione solennemente presa dopo l’immonda manovra dei 101 in Parlamento e il tradimento del mandato elettorale che, per chi avesse memoria corta, era «mai col Pdl». D’altronde avevo votato Pd solo perché Berlusconi, Monti e Grillo s’erano messi d’accordo nello spacciarmi Bersani come menopeggio, ahimè, riuscendoci. E dire che meditavo l’astensione, m’ero praticamente liberato da quel senso di colpa che poteva pure essere considerato un sintomo di inestirpabile fede nella democrazia, nel Novecento, quando ancora c’era il proporzionale, dove se non riuscivi a trovare un partito da votare, coi trenta che ti erano offerti sulla scheda elettorale, be’, era chiaro che avevi qualcosa di marcio dentro, e tutti a dirti «chi non vota non ha poi alcun diritto di lamentarsi» e «se non voti, c’è chi vota al tuo posto», robe che col maggioritario erano destinate a diventare cazzate, e col Porcellum micidiali cazzate. Meglio non pensarci, via, torniamo a Renzi. Che ne avrà dette pure due ai 101, avrà pure avuto da ridire sul governo Letta, ma ai miei occhi resta col grave handicap di essere Renzi. 
Mai piaciuto. Dice: «Ma ne fai una questione di gusto?». E cos’altro dovrebbe essere? Anche per lui la politica è questione di nome, faccia, posa, battuta, e allora se permettete io lo giudico da quello: nome da bottegaio, faccia di cazzo, posa da bullo, battuta da piazzista. Ci tiene a sottolineare che è post-ideologico, lui, gli farei torto a fare paralleli coi prototipi. D’altronde, anche se avesse dovuto scegliere una filosofia politica da indossare per ottenere quello che voleva e poi togliersela di dosso una volta che l’avesse ottenuto, l’avrebbe indossata male. Non è fatto per le idee, si vede subito che le considera superflue, figurarsi a metterle insieme per farne un sistema, ci picchierebbe dentro con la zucca ad ogni passo. Immagini, quelle sì, per di più raccattate dall’album del già visto e rivisto. Almeno Vendola ripesca dal desueto, arrischia qualche neologismo, tenta una sua fattispecie di lirismo, torna ridicolo al punto che si inorridisce sentirlo al telefono con Archinà. Renzi, no. Renzi si compiace di un’estetica da cafone del terzo millennio, rivernicia luoghi comuni senza nemmeno levar via quello che ci si è andato ad incrostare sopra. Sembra il nuovo, ma è il vecchio che ritorna con un’altra faccia, a illudere, come meritano, quelli che il nuovo lo temono, anche se lo invocano, e in fondo per colonna sonora gli sta bene Jovanotti, quello del vuoto ingombro di ogni cosa. Meglio così, però, perché, quando un’ideologia – una qualsiasi ideologia – incrocia un volitivo per tre quarti ambizioso e per il resto becero il tanto da potersi dire a buon titolo uomo dei propri tempi, surfista sullonda del momento, allora può venirne fuori un mostro. Qui, invece, al massimo ne verrà fuori un succedaneo di berlusconismo, liberalismo di cartapesta, meritocrazia da casting, modernità da guida turistica. Non ha un progetto di società, questo è tutto, devessere che quei 48 milioni di vecchie lire guadagnate alla Ruota della Fortuna gli hanno lasciato credere che tutto filasse liscio comprando la vocale giusta.
Oppure no, può darsi l’abbia, una visione, fatto sta che, se ce l’ha, sta sotto a un mucchio di parole, e quello che qui e lì ne affiora non sembra affatto convincente. Prendi i diritti civili, per esempio. «Dopo», dice. «Dopo» cosa, se quelli stanno a fondamento di tutto, e sempre? Quand’anche tu riuscissi ad alzare il Pil e abbassare il debito pubblico – e non si capisce come, perché anche il programma, se ne hai uno, sta sotto un mucchio di parole, e quello che qui e lì ne affiora sono solo ideuzze buone a tappare qualche buco, e male – quand’anche tu riuscissi a creare un milione di posti di lavoro e a innescare la tanto agognata crescita, che strapaese sarebbe mai quello che appresso a te considera i diritti civili dei lussi da concedersi solo dopo aver riempito la pancia? Costano? No, però dividono, questo è il punto, ed è per questo che Renzi non può permettersi di avere una tradizione politica, tanto meno ideali, principi o simili cazzabubbole d’impiccio. Deve fare il pienone, e per farlo deve mettere insieme, nel partito e nel paese, quello che da sempre nel paese e partito confligge a basso regime di conflittualità, nello statuto della dilazione che media e non risolve, e in fondo solo a questo si riduce il suo essere democristiano, per tutto il resto è costretto a fare lhomo novus, come ogni scaracchio di demagogo. 
Dice: «Vabbe’, ti sta antipatico e calchi la mano». Non saprei, può darsi, però io le persone, nel pubblico e nel privato, le giudico per quello che mi danno da vedere. E per uno che in mancanza di altro in curriculum non smette di scassarci la minchia con la sua esperienza di sindaco di Firenze, a me basta la faccenda dell’orologio della Torre d’Arnolfo di Palazzo Vecchio, per il quale Renzi non trova pace, perché è a lancetta unica che, a suo parere, inganna i turisti sull’ora esatta o, peggio, potrebbe dar da credere che l’amministrazione guidata da cotanto sindaco non lo regoli a puntino (e speriamo non s’accorga che il David di Michelangelo ha le gambe un po’ più corte di quanto ci aspetterebbe considerando la lunghezza delle braccia sulle curve auxologiche). Non che sia mancato chi gli abbia fatto presente che quel tipo di orologio fu creato dalle mani di Niccolò di Bernardo, e che ad aggiungere una lancetta si dovrebbe sostituire la meccanica, che è di Giorgio Lederle. Macché, «troveremo uno sponsor, la gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio filosofico». Non avrà le idee chiare neanche su cosa sia la filosofia, ma come biasimarlo? Lo fa per la «gente». E a chi gli obietta che sarebbe uno stupro a storia e cultura della sua città risponde piccato: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo, è che così un funziona». Lasciando perdere il resto, l’aggiunta del pisello che Berlusconi decise per la statua di Marte che è a Palazzo Chigi, al confronto, è niente. 

[...]



Ci tornerò sopra, al momento basti dire che a rallegrarsi della vittoria di Renzi è pure l’ex colf degli Angelucci.

sabato 7 dicembre 2013

Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto






«Cuando os diga un jesuita que ha estudiato mucho,
no lo creáis. Es como si os dijeran que ha viajado mucho
uno de ellos que cada día hace quince kilómetros de recorrido
dando vueltas al pequeño de su residencia»
 Miguel De Unamuno, La agonía del cristianismo


Ratzinger era testo, Bergoglio è gesto. Nel raffronto ci si aspetterebbe di trovare più ambiguità in Ratzinger che in Bergoglio, perché i piani di lettura sono sempre più complessi nel testo che nel gesto, ed è nella complessità dell’interpretazione che solitamente si fa largo l’ambiguo. E invece è tutto il contrario: Ratzinger non dava modo di essere frainteso, Bergoglio pure troppo.
Ora, s’io fossi cattolico, la cosa mi procurerebbe ansia. Così s’io fossi un ateo devoto, basta buttare un occhio ai problemi dispeptici di Giuliano Ferrara, che per digerire Bergoglio ci ha messo nove mesi e ancora di tanto in tanto gli sale in gola un po’ d’acido. Peggio sarebbe, addirittura, s’io fossi uno di quei non credenti che prega Dio perché gli mandi un papa mite e tollerante, possibilmente socialdemocratico. Niente di tutto questo, perciò Bergoglio riesce solo ad annoiarmi, come una telenovela sudamericana.

Di più: rimpiango Ratzinger. C’era da decostruire, cazzarola. Qui, come metti mano, t’invischi nel molliccio che non ha forma, né consistenza. Chiacchiere, Bergoglio è tutto chiacchiere e borsone (con dentro Bibbia e rasoio). Insomma, stavi su un’enciclica di Wojtyla o di Ratzinger per notti intere, smontavi, sezionavi, isolavi… Qui, prendi un’intervista di Bergoglio, leggi, e che ha detto? Un cazzo.
Diciamola tutta: Bergoglio non è cattolico, è un esperto di pubbliche relazioni chiamato dal Vaticano a tappare i buchi che con Ratzinger si erano aperti in voragini. Presto per dire se riuscirà a tapparli, ma la sensazione è che stia mettendo la sporcizia sotto il tappeto buono. Verrà il momento in cui non basterà più, probabilmente sarà col suo successore, e allora sarà più chiaro cos’è accaduto realmente tra febbraio e marzo di quest’anno: quello che è parso un conclave di rimonta si rivelerà per ciò che veramente è stato, disperato tentativo di restare a galla dopo il crollo della diga.

Ho provato a trattare Bergoglio da papa, ma mi è riuscito impossibile. Troverei meno imbarazzo nel riportare su queste pagine le furiose diatribe che a dodici anni incrociavo con la mia zia suora sulla Trinità che a perdermi nell’analisi dei suoi fervorini da parroco piacione. In questi nove mesi non mi son perso una sua parola, ma ogni volta che ho messo mano alla penna l’ho subito riposta dicendomi: «Sii serio, hai di meglio da fare che scrostar vernice fresca dal ferro vecchio».
Così con quel polpettone dell’Evangelii gaudium, di cui mi ero imposto un commento: più andavo avanti a leggerlo, più sentivo in imbarazzo, io al suo posto. «Questo non è cattolicesimo – mi dicevo – e forse non è neanche cristianesimo. “Cristo sorrideva”, dice. E dove cazzo l’ha letto?». Insomma, mi sono sentito solidale con quei poveracci della Tradizione ai quali Ciccio I fa giustamente venire l’orticaria e il torcimento di viscere (consiglio la lettura di un post di Almanacco romano che in tal senso è veramente delizioso). Sicché, salvo sortite occasionali, con questo papa non vi aspettate da parte mia l’assiduo interessamento che ho concesso al suo predecessore: preferisco guardare con mio figlio documentari sui dinosauri su Youtube succhiando ghiaccioli. Lui preferisce quelli allamarena, io quelli al limone.