Quando
in Italia non era ancora possibile divorziare, si poteva già farlo in
Inghilterra, dal 1871, in Svizzera, dal 1874, in Germania, dal 1875, in
Francia, dal 1884, in Portogallo, dal 1910, in Norvegia e Unione Sovietica, dal
1918, in Svezia e in Grecia, dal 1920, in Islanda, dal 1921, in Danimarca, dal
1922, in Turchia, dal 1926, in Finlandia, dal 1929, in Austria, dal 1938, almeno
da vent’anni anche in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, negli Stati Uniti e in
Messico, almeno da dieci anche in Giappone, in Australia, nella quasi totalità
dei paesi del Sudamerica e dell’Est europeo. Quanto era ineluttabile che prima
o poi anche in Italia dovesse diventare possibile?
Superfluo rilevare che l’ineluttabile
sia tale solo a posteriori, mentre a priori è solo una previsione fatta in base
a un certo calcolo. Possiamo, allora, riformulare la domanda in altri termini:
quanto era azzeccato il calcolo di chi pensava fosse ineluttabile che prima o
poi anche in Italia sarebbe stato possibile divorziare? Favorevole o contrario
che fosse, diremmo avesse visto giusto, e tuttavia la sua non era che una
previsione.
Nel caso non si abbiano obiezioni a quanto fin qui detto, ci è
lecito porre un’altra domanda: quali elementi concorrevano alla base di quel
calcolo? Senza dubbio, e in primo luogo, direi vi fosse il constatare che in
gran parte del mondo qualcosa avesse irrevocabilmente messo in discussione il
principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. In secondo luogo, che
quel qualcosa avesse forza destinata, prima o poi, a rimuovere quel principio anche
dalle legislazioni che ancora lo facevano proprio, tra le quali quella italiana.
Ciò che il calcolo dava come ineluttabile, dunque, era la presa d’atto della
raggiunta insostenibilità di un principio fin lì ritenuto sostenibile: calcolo
che dava ineluttabile l’introduzione del divorzio anche in Italia nella presa d’atto
che, anche se in ritardo rispetto a tanti altri paesi, anche qui era entrato in
crisi quel sistema di valori in cui l’indissolubilità del matrimonio era un
pilastro.
Un ulteriore passo nel tentativo di comprendere quanto potesse
essere evidente questa crisi, almeno a chi, favorevole o contrario all’introduzione del
divorzio anche in Italia, azzeccava il calcolo che sarebbe stato ineluttabile, può essere fatto col constatare che al fondo delle opposte argomentazioni tra i favorevoli e i
contrari v’era una questione già risolta a vantaggio dei primi: con l’introduzione
del matrimonio civile il vincolo tra i coniugi era destinato a perdere il
carattere sacramentale per assumere quello contrattuale, con tutto ciò che era
implicito per le immancabili clausole di scioglimento.
In pratica, si
verificava quel che per altri versi sarebbe accaduto, prima, con l’abrogazione
della norma che dichiarava il cattolicesimo «Religione di Stato» e poi, con la
revisione del Concordato del 1984, con l’assunzione del principio, in molto ancora
inapplicato, che tutte le confessioni religiose godono di eguale considerazione
dallo Stato laico. In ciò diremmo che il calcolo che dava come ineluttabile l’introduzione
del divorzio nell’ordinamento legislativo italiano era basato sull’assunto di
un inevitabile processo di secolarizzazione della società.
Ciò detto, occorre
aver presente che l’umano ha a disposizione una ridotta gamma di reazioni a ciò
che sente ineluttabile ma indesiderato, le più comuni delle quali sono (1) l’opporvisi,
anche se sa che è vano, o (2) il lasciar che accada, cercando di farsene una
ragione: reazioni opposte, ma che prendono le mosse da un eguale risultato del
calcolo d’ineluttabilità. Altre due hanno segno diverso, ma manifestano lo
stesso stato d’animo verso quel che solo a posteriori si rivelerà ineluttabile
nei sensi e nei modi previsti da un opposto risultato del calcolo, e sono (3) l’opporvisi,
ritenendo che l’ineluttabile sia evitabile, e che dunque ineluttabile non abbia
ad essere, o (4) lasciar che accada, tentando di dare all’ineluttabile senso e modo
diversi da quelli prospettati dal più pessimistico dei calcoli.
Tutte queste
reazioni sono rintracciabili alla vigilia del varo della legge n. 898 del 1°
dicembre 1970. Quando quattro anni dopo si andrà al referendum che ne propone l’abrogazione
sono già tutte fuori gioco.
Fu la
sensazione dell’ineluttabilità della secolarizzazione della società italiana a
sospingere verso l’approvazione del disegno di legge presentato in parlamento
dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini: il referendum che sarebbe
seguito di lì a quattro anni si sarebbe limitato a rendere evidente che era
trasversale ai partiti politici e maggioritaria.
Per il clima culturale dell’epoca
era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del
matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 –
e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una
particolare società quale fu quella basata su una economia interamente
contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate
in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile
concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come
quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società
fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino
le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la
trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in
definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di
valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben
vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a
prodotto della società, invece che a norme eterne.
Ma era esplicita anche in
chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti
a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in
Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo
che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi.
Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato.
Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a
considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso
al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare
norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori
di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche
qui immanentizzata.
[segue]