venerdì 9 gennaio 2015

Coda

Molte email di protesta, alcune accompagnate da insulti, mi costringono a tornare su quanto ho scritto in morte di Pino Daniele.


Se uno ama la città in cui è nato, la lascia solo è costretto a farlo. La lontananza gli causa nostalgia. Vi ritorna ogni volta gli sia possibile, anche se solo per poco. Nulla di tutto questo nel caso di Pino Daniele. Lasciò Napoli per sua scelta, appena ebbe modo di comprarsi una casa altrove. Su quella decisione non tornò mai indietro, né diede modo di fare intendere gli fosse dolorosa. Andò a vivere ad appena due ore di auto da Napoli, ma per anni e anni evitò di metterci piede. Ancora nel 1993 diceva di non volervi neppure tenere un concerto e, quando nel 1998 si decise a farlo, nelle due settimane di preparazione all’evento, la sera preferiva tornare a dormire a Sabaudia. Poi, certo, tutto sta nel metterci d’accordo su cosa significhi Napoli. La sfogliatella di Scaturchio? Il Cristo velato del Sanmartino? Totò e il ragù? E allora sì, possiamo dire che Pino Daniele amasse Napoli. Se invece per Napoli intendiamo la stragrande maggioranza dei napoletani – il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore di quei vizi morali che ne fanno il carattere trasversale alla più lercia plebe, alla più vile borghesia, alla più fatiscente nobiltà – non possono esserci dubbi: Pino Daniele non la sopportava, non la sopportava affatto. E teneva a marcare le distanze: «Io non sono figlio di Napoli… È un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello» (Corriere del Mezzogiorno, 3.6.2011). Più di tutto, odiava come questa Napoli le si stropicciasse addosso e coi funerali in Piazza Plebiscito ha pagato con interessi salatissimi l’averla tenuta a debita distanza. Quando diceva: «Io amo e odio Napoli», parlava di due Napoli diverse: la prima era la città che non avrebbe mai avuto il bisogno di lasciare, quella che forse immaginava fosse esistita un tempo, e chissà quando, o quella che avrebbe potuto finalmente essere (fidava in Antonio Bassolino, povero Pino Daniele!); la seconda era quella reale, a cominciare dalla famiglia di provenienza. Coi funerali in Piazza Plebiscito a Pino Daniele è stata inflitta la punizione che era impossibile infliggergli da vivo: mummificarlo in icona della napoletanità, quel tappeto sempre più logoro sotto il quale si continuano a nascondere secoli di sporcizia. Un altro comodo pretesto di fierezza per gente che forse, e dico forse, avrebbe una pur minima speranza di riscatto nel cominciare col vergognarsi di se stessa. 

giovedì 8 gennaio 2015

«Non siamo e non saremo mai domati»

L’intervista concessa da Vincenzo Gallo, in arte Vincino, a Eleonora Martini, per il manifesto di giovedì 8 gennaio, è assai più divertente di tante sue vignette. «Continueremo ad essere irriducibili… La satira non si ferma, non è addomesticabile… Seppure feriti gravemente, non siamo e non saremo mai domati…», cose così, come da scampato per miracolo alla strage consumatasi ieri in rue Serpollet. Cosa abbia a che fare, l’umorismo di Vincino, con la satira di Charlie Hebdo, difficile capirlo. Quando mai Vincino abbia sfidato chi davvero potesse fargli male, non si sa. In quanto alla posa da duro e puro, sprezzante di ogni pericolo, che qui culmina in un intenso «non fai questo mestiere con la paura», corre alla mente la volta che lo vedemmo chinato a pecora non già davanti a un terrorista islamico, ma a un direttore, non già per aver offeso Allah, ma l’editore.


mercoledì 7 gennaio 2015

[...]

Un’altra infornata di cardinali dalla quale resta fuori. Sapendo quanto tiene alla porpora, starà soffrendo anche stavolta come un cane, poveraccio. Indispensabile, perciò, una parola buona. E dunque. Coraggio, Rino, e sappi che ti son vicino. Se vuoi sfogarti un poco, non fare cerimonie, chiamami, ché due o tre belle bestemmie in circostanze simili sono liberatorie, e a me non fanno né caldo né freddo. Ciao. 

martedì 6 gennaio 2015

[...]

Pino Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976, al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì, l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse, ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità, quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era, più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.  

lunedì 5 gennaio 2015

Quando un’azienda dal marchio prestigioso... / 2

Con quel «si sa che l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi» (Il Foglio, 2.1.2015), deve aver avuto qualche noia, e allora eccolo correre ai ripari. Il nodo della questione è quel «non è naturale», che suonava come «non è fisiologico», dunque come «patologico», buono solo ad invischiare Il Foglio della merda che tra poco spargerà La Croce. Ecco, allora, che Ferrara si affretta a spiegarci la differenza che c’è tra lui e Adinolfi: l’omosessualità è un peccato, pensare che sia una malattia è «una scemenza col botto», è «intolleranza ignorante».
Ve l’avevo anticipato già a settembre, rammentate? «Quando un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti – scrivevo – all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim. Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. […] È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi» (Quando un’azienda dal marchio prestigioso...Malvino, 16.9.2014). Ma era settembre, l’uscita de La Croce era ancora lontana, e «non siamo ancora a questo punto – scrivevo – con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in provincia». Ora, invece, la cosa comincia a diventare imbarazzante, perché il prodotto contraffatto non si limita a far concorrenza, ma minaccia di svalutare l’originale. La dinamica di mercato è nota, gli esperti del settore dicono che ne tocca un buon 20-30%: il rischio, in questo caso, è che l’omofobia dozzinale di Adinolfi sollevi la questione di quanto veramente valga quella sofisticata di Ferrara. Perché – avvisavo – «solo a un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato [il parallelo era con le borse di Louis Vuitton originali e quelle contraffatte]. È differenza che al momento si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi».
Si preoccupa solo alla vigilia dell’uscita de La Croce, Ferrara, e cerca di recuperare il ritardo, ovviamente con qualche affanno. Ma quale malattia! L’omosessualità è peccato, sennò tutto è malattia, e allora «tutti abbiamo bisogno di essere curati e soprattutto di essere lasciati in pace». E poi, che cazzo, parlarne come di una malattia non è «riportare la cultura cristiana e cattolica dentro le ossessioni ideologiche del tempo, mettendo la psicologia comportamentale e altre bellurie dentro la nuova evangelizzazione»? E in fondo non erano ricchioni pure Socrate, sant’Anselmo e il cardinale Newman? «Le tirate di san Paolo contro i sodomiti sono le benvenute, perché parlano di peccato e non di malattia», ma, per l’amor del cielo, si eviti «l’irrigidimento caricaturale e clinicizzante dei materiali culturali non negoziabili che furono lo stigma d’intelligenza di una lunga stagione cattolica e laica del contemporaneo». Ecco, qui sta il punto: La Croce è una caricatura de Il Foglio. E questo l’avevamo intuito. Quello che ci sorprende è che Ferrara sia assai più preoccupato di quanto fosse prevedibile aspettarsi. Come se Louis Vuitton volesse innanzitutto convincere se stesso che il pregio di una sua borsa stia tutta nel marchio, il che finisce per risultare ingeneroso verso la qualità dei materiali, che in questo editoriale di lunedì 5 gennaio sono daltronde esaltati in modo fiacco, quasi stanco. Ma forse si riuscirà a fare di meglio nei prossimi giorni.   

domenica 4 gennaio 2015

Un hombre vertical


18 febbraio 2014 «A me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. Non posso e non voglio passare dalla bicicletta all’auto blu»


3 gennaio 2015 «Gli spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi non sono scelte ma frutto di protocolli di sicurezza»

sabato 3 gennaio 2015

venerdì 2 gennaio 2015

[...]

Tra i riti che l’ipocrisia impone a chi vuol passare per personcina a modo c’è quello di piangere sulla chiusura di un giornale, come in morte della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione, anche quando il giornale che chiude vendeva pochissime copie e si pappava una montagna di contributi pubblici. Questo è il caso di Europa: vendeva 1.500 copie al giorno e in dieci anni ha inghiottito 32 milioni di euro, davvero vogliamo piangere? Pianga Menichini, via, ché può tornargli perfino utile togliersi dal muso quel sorriso da furbetto. Noi, che vediamo la zecca morta cascare giù dal ventre del cane, cerchiamo di essere solidali col cane: ok, la zecca è morta, e meno male.   

«Si sa»

Che scenda dall’alto o che salga dal basso, la violenza che si fa autorità ha bisogno di una legittimazione che abbia l’impronta del divino, sennò non regge a lungo, tanto meno può diventare istituzione. Quando scende dall’alto, viene da chi, per meriti particolari, anzi, potremmo dire peculiari, Dio avrebbe investito di un potere speciale, assoggettarsi al quale sarebbe dunque cosa naturale, visto che è Dio ad aver dato legge alla natura. Ma la regola vale pure per la violenza che sale dal basso: anch’essa, per legittimarsi come autorità, deve ammantarsi di divino («vox populi, vox Dei»). C’è un punto, tuttavia, in cui la violenza che scende dall’alto s’incontra con quella che sale dal basso per fondersi in quel «si sa» che introduce sia la fallacia ad auctoritatem sia quella ad populum: «si sa» – dice chi, a corto di argomenti, vuole infliggerci violenza nella sua forma più insidiosa, che è quella dell’imbroglio – ma in realtà non si sa la cosa più importante, cioè donde venga l’autorità dell’affermazione che segue, se da quanto Dio ha concentrato nelle sentenze dei primi o da quanto ha diluito nei luoghi comuni degli ultimi. «Si sa», dice, e in questo modo non è neanche più tenuto a spiegare per quale via la verità gli esca di bocca. «Si sa», e non si capisce se quanto segue sia distillato della sapienza cumulata da dinastie di élites o folgorante scintilla che sprizza del deposito di buonsenso custodito nei secoli dalla plebe. A meno che non venga usato in modo ironico – proprio a mettere in discussione l’autorità che non ammette discussione – guardiamoci dal «si sa».
Esempio (in coda ad una lunga lista di «si sa» che stipano un editoriale su Il Foglio di venerdì 2 gennaio): «Si sa che l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi». «Si sa» perché sta scritto nel Levitico o perché da che mondo è mondo si pestano i ricchioni? Che importa, «si sa», e tanto basti a fare argomento. 

giovedì 1 gennaio 2015

«L’invenzione di Aristotele»


La logica è «invenzione di Aristotele»? Così sull’ultimo numero di Domenica de Il Sole-24 Ore (pag. 22), per titolo a un articolo di Hilary Putnam. Titolo che, tutto sommato, non tradisce il contenuto dell’articolo, nel quale non c’è scritto testualmente quanto nel titolo, ma che «Aristotele ha inventato le variabili [predicative]», e che «ha studiato nei dettagli 256 inferenze (dette “sillogismi categorici” o semplicemente “sillogismi”)» cui esse possono dar vita, e che «ha fatto vedere come stabilire quali sono valide (24 lo sono) e quali sono invalide (la gran parte)», e che così «ha inaugurato il programma consistente nella creazione di un organo del ragionamento deduttivo».
Se la logica è questo, niente da dire. Di fatto, Aristotele preferisce parlare di analitica, mentre alla logica assegna un significato assai più generico, talvolta perfino deteriore, assai prossimo a quello che per lui ha la dialettica: nei Secondi Analitici contrappone il λογικος συλλογισμος a quello propriamente apodittico, e nei Topici scrive che poggia su premesse ψευδων ενδοξων δε come quello dialettico (che nei Primi Analitici dice composto da προτασεις κατα δοξαν), mentre in generale svaluta costantemente il λογικων θεωρειν, arrivando a definirlo vacuo (κενον) in Etica Eudemia.
Ma la logica, poi, è mero dedurre? E, ammesso e non concesso che lo sia, si possono trascurare gli studi di Lukasiewicz, Perelman, Viano, Calogero, giusto per citarne qualcuno, che hanno per tempo smantellato la tesi qui riproposta da Putnam, presa di peso dall’ormai logora lettura di Prantl? Più in generale, e come sempre quando si ha a che fare con le semplificazioni giornalistiche, è il caso di affibbiare ad Aristotele, che è del IV secolo avanti Cristo, il titolo di inventore di una prassi di cui troviamo numerose tracce già nel secolo prima, e già in Parmenide, già in Eraclito? Come si può ignorare che sotto e dentro la logica dianoetica c’è la logica noetica?    

Speriamo bene per l’anno nuovo

Il primo pensiero del 2015 non può che andare a quanti stanotte hanno perso una mano o un occhio per sparare i botti di fine anno. Si tratta per lo più di poveracci – visto mai il presidente di una banca o l’amministratore delegato di una multinazionale sparare botti? – e poveracci che per nessuna ragione al mondo rinuncerebbero a spendere in polvere nera e miccia corta il poco che loro resta della speranza solitamente spesa in Gratta&vinci. Poveracci due volte, dunque, ma forse anche due, tre, quattro volte. E a chi rivolgere il proprio pensiero, quando la retorica del momento preme, se non agli ultimi?
Veniamo ai penultimi, ché la retorica del momento ancora preme, e cioè ai medici che ieri sera hanno attaccato il loro turno al pronto soccorso e hanno passato la notte a rappezzare monconi e a medicare ustioni. Costretti a farlo, prima che per contratto, per quella nobile ragione che ormai suona come un peto di Esculapio. A quest’ora staranno tornando a casa, Dio non voglia abbiano un colpo di sonno al volante, sennò al pronto soccorso non troveranno neanche una barella.
Terzo pensiero a quelli che una volta si chiamavano spazzini ed oggi sono operatori ecologici, che all’ingrato lavoraccio di rimuovere dalle strade tonnellate di cocci di bottiglia dovranno anche quest’anno aggiungere il deprimente dato Istat che dai balconi non si butta altro, finiti i tempi in cui si aspettava San Silvestro per liberarsi di un De Chirico che non s’abbinasse bene al divano.
Quarto pensiero, in attesa che la retorica del momento scemi, ai migranti sul barcone di Capodanno che al primo botto sparato a Lampedusa avranno pensato al peggio, il quinto al povero cardinal Bertone che ora tutti scansano come la peste e avrà passato la serata solo soletto, giocherellando con il tappo, aspettando invano un sms da Gianni Letta, e il sesto vada a chi sogna di andare al Quirinale e non ci andrà.
Un settimo pensiero vada – no, basta, finita la retorica del momento – il settimo pensiero vada a chi anche quest’anno non è morto e, che cazzo, avrebbe anche potuto farci il piacere. Speriamo bene per l’anno nuovo. 

Glaucoma, probabilmente

Vero è che «senectus ipsa est morbus», ma nel suo discorso di fine anno Giorgio Napolitano ha fatto cenno, seppur vago, a specifiche «limitazioni e difficoltà», dicendole «crescenti», sicché è del tutto naturale che uno si chieda quali possano essere. Io tenderei ad escludere problemi al sistema nervoso centrale, peraltro tanto comuni alla sua veneranda età: tranne qualche inceppamento nell’eloquio, che capita pure ai trentenni, m’è sembrato un poco affaticato, ma discretamente lucido. Io direi si tratti di glaucoma, la patologia che porta a una progressiva riduzione del campo visivo periferico. In pratica, il soggetto affetto da glaucoma vede bene solo ciò che è al centro del suo campo visivo, e tutto attorno è come non ci fosse niente. La cosa dev’essere iniziata fin dal giorno che ha messo piede al Quirinale, nel 2006, almeno così pare suggerirci quando rammenta che ha sempre avuto come primario interesse «il reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l’individuare i temi di necessaria convergenza nell’interesse generale». Nel 2006, si sa, il campo visivo di un soggetto sano era quasi interamente occupato dal centrodestra e dal centrosinistra, ma presto il bipolarismo è andato a farsi fottere, e i due schieramenti si sono sempre più ristretti. E più si restringevano, più si accostavano. E più si accostavano, più si restringevano. E nel farlo, come è naturale per una destra che si voleva centrodestra e per una sinistra che si voleva centrosinistra, convergevano entrambe al centro, sempre bene in vista al nostro amato Presidente della Repubblica, cui il glaucoma non consentiva di vedere che intanto astensionismo, M5S e Lega riducevano il Pd e Forza Italia a poco più di un terzo degli aventi diritto al voto: niente, tutto lo scenario politico che rientrava nel suo campo visivo – maggioranza e minoranza – erano il Pd e Forza Italia, gli «opposti schieramenti». Nessuna perplessità sul fatto che gli accordi sottobanco non li rendessero poi tanto «opposti», se non in favore delle rispettive tifoserie. Nessuna preoccupazione riguardo al fatto che oltre a «riconoscimento, rispetto e ascolto» finissero addirittura a raggiungere l’orgasmo simultaneo nel realizzare pezzo dopo pezzo, qui con reciproca desistenza, lì con accordo bipartisan, il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli. Gli «opposti schieramenti» erano quelli, e tutto attorno zero, il buio, il niente. Sia chiaro, non è che, oltre al Pd e a Forza Italia, d’attorno ci fosse e tuttora ci sia poi chissà cosa. Ammesso e non concesso, tuttavia, sia solo cacca, è cacca che comunque non puoi far finta non esista, dovendo rappresentare l’unità della nazione. Ti è toccato in sorte di dover rappresentare l’unità di una nazione che per un buon 70% è cacca, sia, ma non puoi limitarti a rappresentare solo l’unità di quel 30% che sta al centro del tuo campo visivo, che poi finisce per diventare il 20% a non veder più nemmeno le fronde interne a Pd e a Forza Italia, ai margini. Deve averlo capito, finalmente, e prima di finire a rappresentare solo il governo, di volta in volta dato a questo o a quello, a sua piena discrezione, in pratica a rappresentare solo l’unità di se stesso, avrà detto: «Basta, nasino mio bello, andiamocene ad Anacapri». Della signora Clio, ormai, riesce a vedere solo quello.  

mercoledì 31 dicembre 2014

[...]

«Carminati invoca giustizia»

L’art. 416 bis c.p. non sanziona una particolare associazione per delinquere – Cosa nostra, ’Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita – ma tutte quelle che sono «di tipo mafioso», descrivendone le attività che configurano la tipologia: «Coloro che ne fanno parte – recita – si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». Come ho già scritto (Mondo di mezzo –Malvino, 8.12.2014), a me pare che le 1.228 pagine dell’Ordinanza di applicazione delle misure cautelari emessa a carico di Massimo Carminati & C. non lascino dubbi e che la tipologia di quella associazione per delinquere corrisponda a quella contemplata dall’art. 416 bis: sarà la magistratura giudicante a dire l’ultima parola, ma a me pare vi sia abbondanza di materiale in favore dell’ipotesi accusatoria.
Torno sulla questione, che altrimenti avrei lasciato in sospeso fino alla sentenza, per commentare un articolo a firma di Annalisa Chirico apparso su Il Foglio di martedì 30 dicembre (Criminale con diritto di difesa), che in buona sostanza vuol essere la summa degli argomenti – vedremo subito che non lo sono, ma momentaneamente diamo ad essi la dignità di argomenti – che proprio dal giornale di Giuliano Ferrara, in tre o quattro occasioni, sono stati sollevati a contestare l’imputazione mossa dalla Procura di Roma. Prima di passare in rassegna le obiezioni che in questo articolo sono sollevate all’ipotesi accusatoria, però, vorrei anticipare che in esso mi pare ottimamente tratteggiata quella parodia del garantista altrimenti assai meno incisiva di quella del giustizialista. Altrove, infatti, mi son chiesto: «Qual è la maschera del tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire colpevole chi è colto in flagrante, e che dinanzi all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice sia stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a ogni fetente della peggior risma, e più fetente è, più sembra andare in brodo di giuggiole a trovargliene uno da spendersi per garantirglielo?» (Caricaturizzare il giustizialista è un gioco da ragazzi – Malvino, 15.12.2014). Bene, direi che Annalisa Chirico risponda alla domanda, offrendosi generosamente come caricatura del garantista, «quello che in ogni giudice vede un boia e in ogni ladro, ogni assassino, ogni stupratore vede sempre il poveretto massacrato di botte lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico, e accorre subito con olio, vino e bende» (ibidem). Del tutto irrilevante, in questa sede, porsi la domanda se questa generosità chieda un ritorno in visibilità, cosa che tutto sommato sarebbe anche legittima, visto che il campo dei giustizialisti è ampiamente inflazionato. Di fatto siamo al triste déjà vu del giornalismo a tesi, quello che spende il poco o il tanto che ha nella costruzione di caratteristi, macchiette non di rado seriosissime, con ruolo fisso, da gettone per la prevedibilissima comparsata nei talk show.
Tutto sommato è onesta, Annalisa Chirico, perché fin dall’attacco non fa mistero del ruolo fisso che si è dato: «Anche i criminali hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati. Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e censore dell’arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa». La caricatura del garantista è rivendicata nel processo mediatico, in cui la caricatura del giustizialista sostiene la tesi accusatoria, come «diritto alla difesa», anzi come «tributo alla giurisdizione» (sì, usa proprio questa espressione, e qui occorre rilevare un notevole salto qualitativo rispetto al «siamo tutti puttane»). In altri termini, è dichiarato il diritto di difendere una posizione con gli strumenti dell’avvocato, facendosi megafono dell’arringa e censore della requisitoria, compito che si assolve riportando in virgolettato quanto affermano i legali di Massimo Carminati, gli avvocati Naso, «pater» e «filia» (un po’ di latino, si sa, è indispensabile a nobilitare il foro, e il lettore è diffidato dal leggervi un doppio senso). Così l’articolo non pare avere altro fine che quello degli avvocati difensori: incontestabile com’è l’accusa di associazione per delinquere (3-7 anni di reclusione), si cerca innanzitutto di scansare quella di associazione per delinquere di tipo mafioso (7-12 anni di reclusione), per poi banalizzare la portata delle responsabilità dell’assistito per ottenere il minimo della pena, ché in fondo 3 anni passano in fretta e può darsi nel frattempo ci scappi un’amnistia, per la quale Annalisa Chirico pure si spende.
Nulla è risparmiato nell’arringa: alla fine dell’articolo Massimo Carminati potrà risultare antipatico solo a chi non abbia mai parcheggiato in seconda fila, a chi non abbia mai messo il sacchetto della spazzatura nel cassonetto fuori orario, insomma solo a quella rara mosca bianca che da noi è praticamente introvabile. Signori della Corte, cioè, carissimi lettori, il qui presente imputato non è un santo, certo, ma l’accusa è esagerata: non parla siciliano, dunque non può essere mafioso; più che di un’associazione per delinquere era a capo di una banda di cazzari; per quanto si autoaccusa nelle intercettazioni, sciocchezzuole, millantava; e poi, a ben vedere, lo si può pur considerare «un Robin Hood del XX secolo», ché «se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava». Perciò – lo manda a dire da Annalisa Chirico – «Carminati invoca giustizia». Già è tanto che nell’articolo non sia tornato il paragone con Enzo Tortora, accontentiamoci di questo.

domenica 28 dicembre 2014

[...]

Sull’ultimo numero de l’Espresso (XL/52), nella sua rubrica bisettimanale (La bustina di Minerva – pag. 138),  Umberto Eco afferma di aver posseduto «una tarda traduzione italiana (1914) di un libello di tal G.B. Pérès intitolato “Napoleone non è mai esistito”», della quale dice di essere recentemente «riuscito a scovare la prima edizione, del 1835, che s’intitola “Grand erratum source d’un nombre infini d’errata”». Possiamo immaginare il dolore del bibliofilo che scopra di essere stato infinocchiato, dunque gli si faccia sapere con la dovuta delicatezza che la prima edizione dell’operetta è del 1827, pubblicata a Parigi in forma anonima col titolo che recita Comme quoi Napoléon n’a jamais existé, ou Grand Erratum, source d’un nombre infini d’errata à noter dans l’histoire du XIXe siècle. Per saperlo gli sarebbe bastato un giretto sul web, di cui spesso ha lamentato l’approssimazione e l’imprecisione dei dati messi a disposizione dell’utente. [Non è il web, tuttavia, che qui mi è tornato di aiuto, ma un piccolo saggio di Gianni Guadalupi su un vecchio numero di FMR (I/8 - pagg. 95-116).] 
A proposito di approssimazione e imprecisione. Nella descrivere la teoria di «G.B. Pérès» (in realtà, J-B. Pérès, Jean-Baptiste), Umberto Eco dice che «l’autore dimostra che Napoleone è soltanto un mito solare, e argomenta con dovizia di prove trovando analogie tra il sole, Apollo (e “Napoleo” significherebbe “veramente Apollo lo sterminatore”), nato anche lui su un’isola mediterranea, mentre la madre Letizia significherebbe l’aurora, e Letizia proverrebbe da Latona, madre di Apollo», mentre in realtà il parallelismo tra Latona Letizia è retto solo dalla assonanza tra Λητω e laetor.


Appunti


1. Nel conforme vi sono due accezioni divergenti in un punto che può aprirci alla comprensione della ragione prima e della conseguenza ultima del conformismo: v’è il concorde (per somiglianza, consonanza, affinità) e v’è l’adeguato (per corrispondenza, adattabilità, congruità), e il punto in cui essi divergono è quello in cui il comune sinonimo di conveniente indica colui che compie l’atto che lo fa convenuto e il vantaggio che egli ne trae nel non mancare al convenire. Questo ci consente di risolvere l’ambiguità del conformista nella natura moralmente neutra della forma cui è chiamato ad aderire, e che tale dev’essere – moralmente neutra, dico – perché vi sia perfetta coincidenza tra convenire e convenienza. Ovviamente sarà il caso di chiarire quale sia la forma alla quale il conformista è chiamato a convenire, donde ne tragga convenienza e cosa debba intendersi per moralmente neutro. Perché questo ci sia reso semplice, potremmo cominciare dall’interrogarci sul senso che il suffisso -ismo assume nel conformismo. Qui non sta a indicare una dottrina religiosa, filosofica o politica, ma una tendenza che trascende ogni dottrina o, per meglio dire, che la supera, per limitarsi a conformarsi a quella che di volta in volta è preminente. Ecco chiarito il primo punto: la forma cui il conformista è chiamato a conformarsi deve avere un carattere di preminenza, ancorché mobile. Potremmo affrettarci a dire che la tendenza sia a trovare convenienza dal convenire nel punto dove un’opinione si fa maggioritaria, ma questo non è del tutto corretto, perché occorre un altro fattore a fare di questa opinione una forma alla quale si sia chiamati a farsi conforme: dev’essere maggioritaria, sì, ma deve anche avere uno statuto interno che ne affermi la pretesa totalizzante. È per questo che il fenomeno del conformismo appare più evidente per le forme che sul piano religioso, filosofico o politico, ma anche su quello artistico, e più in generale sul piano del gusto, assumono caratteri totalitari, e tuttavia non sarà il caso di inferire che il conformismo sia una resa a questa pretesa. Tutt’altro. Non c’è diretta proporzione, infatti, tra la forza con la quale la forma si impone e la massa che le si fa conforme: la pressione che genera il conformismo non è – o comunque non è solo – ab extrinseco, siamo piuttosto dinanzi a un processo di natura osmotica, che peraltro dà conto anche del carattere liquido della massa qui in oggetto (ha il veloce spostamento tipico dei fluidi, si adatta al recipiente che l’accoglie, ecc.).

2. Ho intenzionalmente evitato, in questa premessa, ogni diretto riferimento a elementi di natura psicologica o sociologica. Diciamo che l’approccio al conformismo è stato di tipo fenomenologico (dove per fenomenologia, qui, intendo l’analisi della sua mera Selbstgegebenheit, almeno come ce l’ha spiegata Max Scheler). Tuttavia l’autodarsi del conformismo esorbita in radice da quest’ambito ed era inevitabile che la forma rimanesse entità pura e che la tendenza rimanesse cosa astratta. In questo secondo paragrafo continuerò a lasciare sullo sfondo la sterminata mole di studi psicologici e sociologici che soprattutto negli ultimi settant’anni si sono appuntati sulla questione – do per scontato che il lettore ne abbia una conoscenza anche superficiale, il tanto che basti a risparmiarmi la lunga lista delle note a pie’ di pagina relative agli autori che qui faranno capolino, seppur per vaghi cenni – limitandomi a considerare i due punti che abbiamo lasciato in sospeso: come il convenire produca convenienza e cosa debba intendersi per moralmente neutro relativamente a questa scelta. È possibile farlo astraendoci dalla psicologia del conformista e dalla società in cui vive? Non è già la scelta di termini come convenire, che implica un luogo, e convenienza, che implica una merce di scambio, a renderci impossibile il mettere da parte la società? E tirare in ballo la morale non ci obbliga a considerare il conformismo un carattere, e dunque una configurazione psichica? Senza dubbio, ma dal sociale possiamo continuare a tener lontani il convenire e la convenienza considerandoli agente e atto della convenzione, che è del moto convettivo dato dal gradiente osmotico. Così con la morale: implica un costume, dunque un soggetto, tuttavia, nel dire moralmente neutra la forma cui tale soggetto è chiamato ad aderire, ci è indispensabile chiarire la natura del costume o possiamo anche farne a meno limitandoci a considerare la natura del momento adesivo? Nel moto convettivo che spinge il conformista ad aderire ad una convenzione, quale che sia la natura del fluido e le caratteristiche del mezzo in cui esso si muove, non è possibile individuare una costante? C’è un K che vale sempre, in ogni espressione del conformismo, quale che siano la forme cui il conformista è chiamato ad aderire, quali che siano i fattori che in lui generano l’adesione, quali che siano i caratteri del suo moto convettivo? In altri termini: c’è una spiegazione pre-psicologica e pre-sociologica al conformismo? Io penso di sì. Penso che sia proprio la natura inorganica del processo osmotico passivo a spiegare il conformismo prima e oltre i modi in cui esso si autodà nell’individuo e nella società. Nell’organico troviamo membrane che si oppongono all’osmosi passiva, ma ad un considerevole prezzo. Un prezzo che l’inorganico, prima ancora di non volere, non sa pagare. Corre verso la convenienza: psicologia e sociologia vengono dopo, a dargli parvenza di umano. 

[segue]

venerdì 26 dicembre 2014

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Bergo’, fossi in te, mi cagherei addosso dalla paura. No, dico, hai visto le facce che avevano i signori della Curia mentre li smerdavi coi peggiori epiteti? ’Spetta che ti rifilo qualche fermo immagine, così ti fai un’idea degli umori.






Bergo’, posso capire che ti girino i coglioni perché in Curia trovi resistenze alla tua linea, però così tu rischi grosso e, quel che è peggio, non ottieni nulla. E vabbe’ che vieni dalla provincia e che certe finezze non puoi coglierle, però, che cazzo, sei un gesuita, dovresti avere almeno un’infarinatura di prudenza, sapere che mortificare il cortigiano e tenerlo a corte è come scavarsi la fossa.
Guarda che fino a un certo punto riesco anche a comprenderti: ti pari il culo coram populo, così, quando tra un anno o due dovrai dar conto che al netto delle chiacchiere tutto è come prima, potrai pur sempre dire che non ne hai colpa, che ti hanno messo i bastoni tra le ruote, e naturalmente troverai chi ti darà ragione. Ma questo torna buono a costruirti il santino, non a fare le riforme, tanto meno le rivoluzioni. E poi tu stesso hai tenuto a precisare che da papa hai potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale, roba che nessun papa ha avuto mai bisogno di precisare: o questa potestà mostri di averla, e mandi i ribelli a fare i missionari tra i cannibali, o taci. Bergo’, i papi passano, la Curia resta.

martedì 23 dicembre 2014

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Non si capisce perché l’operazione Aquila Nera non possa essere banalizzata come taluni hanno fatto con l’operazione Mafia Capitale. Se quella di Roma non è mafia, quello dell’Aquila è fascismo? Se le intercettazioni tra gli indagati che la Procura di Roma ritiene facessero capo a Massimo Carminati dimostrano che quell’organizzazione a delinquere non avesse i caratteri della cosca mafiosa, quelle tra gli indagati che la Procura dell’Aquila ritiene facessero capo a Stefano Manno dimostrano che quella combriccola fosse fascista? Se la mafia – come si è detto – è tutta un’altra cosa, e a Roma tutt’al più era attiva una banda di cravattari, mezzo millantatori e mezzo coatti, quella che si è scoperta tra Marche, Abruzzo e Molise era un’organizzazione paramilitare? Tramavano per l’eversione, dicono, ma via, banalizziamo pure qui, erano una dozzina di sfessati che neanche credevano in quello che dicevano, terroristi da social network, scadenti parodie dei terroristi neri degli anni Settanta. È come con Carminati, via, che solo chi è più cecato di lui può paragonare a Totò Riina: accostare Manno a Concutelli è assurdo. E i morti, poi, come la mettiamo coi morti? C’è chi ha strepitato in qualche talk show: «La mafia è sanguinaria, e questi qui che hanno fatto? Hanno minacciato di menare uno, ne hanno spaventato un altro, passavano qualche mazzetta a quelli del Comune. E che è, mafia, questa?». Non si capisce perché non possa andar bene lo stesso schema con questi balordi che giocavano all’insurrezione invece che a Monopoli. Avevano armi? Anche quelli di Roma, e in fondo chi non possiede un mitra, oggi? Vanno puniti questi e quelli, sia chiaro, ma evitiamo costruzioni paranoiche nell’uno e nell’altro caso: Carminati è un delinquentello, Menna è un poveraccio, tirare in ballo Banda della Magliana e Ordine Nuovo è ridicolo.

E per stasera basta, ché non mi sento tanto tonico. Alla prossima, semmai, mi spenderò per banalizzare la lebbra a sfogo di pelle. 

Un Chisciotte in meno

Settant’anni fa, a Buenos Aires, venivano date alle stampe le Ficciones di Jorge Luis Borges, che di lì a poco sarebbero arrivate in Italia, per i tipi della Einaudi. Così facemmo la scoperta di Pierre Menard, autor del Quijote, una delle più geniali creazioni dello scrittore argentino. 


Tra il copiare meccanicamente il Chisciotte e il produrre pagine in tutto simili a quelle di Cervantes c’era di mezzo un poderoso lavoro che occupò Menard per anni e anni, e di cui egli non volle lasciar traccia, ma di cui Borges si premura di farci intendere scopo e metodo.  


Leggiamo e non ci resta altro da fare che rimanere a bocca aperta dinanzi alla rivelazione: il Chisciotte di Menard e quello di Cervantes possono sembrare simili solo ad un ingenuo, tra l’uno e l’altro c’è una differenza enorme, com’è nel dire la stessa frase in due contesti del tutto diversi: ha lo stesso suono in entrambi i casi, ma arriva ad essere pronunciata seguendo percorsi profondamente dissimili, che rivelano mentalità e sensibilità distanti secoli. Siamo ben oltre l’impossibilità di entrare due volte nello stesso fiume: qui è possibile entrare due volte nello stesso fiume, ma è tra le due entrate che non vi è alcuna possibilità di similitudine, e la differenza sta nell’enorme distanza che si avverte come coincidenza. 
Possiamo provare ad aggiornare la prova: come sarebbe il Chisciotte di chi oggi volesse compiere su Menard lo stesso sforzo sovrumano che Menard tentò su Cervantes? Giocoforza sarebbe un altro Chisciotte, un Chisciotte contemporaneo, perciò infinitamente meno faticoso. Basterebbe ritrarre un uomo sulla cinquantina che un bel giorno, di punto in bianco, decide di abbandonare tutto ciò che fin lì è stata la sua vita per andarsene ramingo per il mondo con lo scopo di mettere in pratica quanto ha letto nei libri. Infinitamente meno faticoso, rispetto a cinque secoli fa, e rispetto a ottant’anni fa (Borges data l’impresa di Menard agli anni trenta del Novecento), perché i libri, oggi, offrono modelli che non si esauriscono in quello cavalleresco. Sarebbe un Chisciotte qualsiasi: in apparenza, un Chisciotte in più, ma, in sostanza, un Chisciotte in meno.

lunedì 22 dicembre 2014

20.5.1944 - 22.12.2014



Avrò avuto 15 o 16 anni, proiettarono Woodstock a una Festa de l’Unità, ero in prima fila, abbracciato ad una ragazzina brufolosa di cui ero innamorato perso, del film me ne importava poco o niente. Poi, d’un tratto, la sua voce. Non sapevo chi fosse. Anche dopo averlo saputo, non è che mi abbia fatto differenza. Per dire, mai comprato un suo disco. Quella canzone, interpretata in quel modo, con quella faccia – quella scena, insomma, con tutto quello che di fastidioso pure mi procurava, quelle basette, quella maglietta – solo quello era il mio Joe Cocker, la topica del blues bianco. Non avrei molto da commemorare, in fondo era un artista che riducevo a quegli otto minuti del film. La ragazzina disse: «Cazzo!». «Cazzo!», risposi io. E per otto minuti rimanemmo inchiodati con gli occhi sullo schermo. Una delle cose che non dimenticherò mai.