martedì 20 gennaio 2015
[...]
Tu dici: «In teoria,
possiamo dire che una reazione violenta davanti a una offesa o a una
provocazione – in teoria, sì – non è una cosa buona, non si deve fare. In
teoria, possiamo dire quello che il Vangelo dice: che bisogna dare l’altra
guancia». Ora, non è per impiccarti alle parole, che pure, essendo papa,
dovresti calibrare bene prima di lasciarle uscir di bocca, ma tu, nell’intervista
concessa all’andata, hai detto testualmente
che un cazzotto dato a chi ti offendesse mamma è «normale». Non so se a Buenos Aires il termine ha un significato
diverso, ma in italiano significa «regolare», «esemplare», «conforme», «logico», ed estensivamente «umano»,
«naturale», «comune». Tutto ciò, oggi, lo poni in antitesi alla «teoria» del
messaggio evangelico, e allora, scusa, fammi capire: starai mica a dire che, sul
come si deve reagire ad un’offesa, il Vangelo ci dà un precetto illogico,
innaturale e disumano? Sarai mica nietzchiano o anche stavolta ne hai sparate due così, tanto per dire, e ti son venute a carajo de perro?
Ma procediamo. Tu aggiungi: «In teoria, possiamo dire che abbiamo la libertà di esprimerci. E
questo è importante. Sulla teoria siamo tutti d’accordo, ma siamo umani e c’è
la prudenza, che è una virtù della convivenza umana. Io non posso insultare, provocare,
una persona continuamente perché rischio di farla arrabbiare, rischio di
ricevere una reazione non giusta. Ma è umano, quello». Anche qui,
consentimi, non ti seguo proprio. Tu dici che abbiamo libertà di esprimerci, e
su questo non puoi immaginare quanto io ti stimi, pensando a quelle merde dei
tuoi predecessori che sulla libertà di espressione avevano idee un pochino
diverse. Non so se ad ammettere che gli uomini abbiano la libertà di esprimersi
tu ci sia arrivato da solo o non abbia avuto bisogno di qualche aiutino da quei
pensatori che fino allo scorso secolo finivano all’Indice, ma qui non è il caso
di stare a sottilizzare: sappiamo che a suon di bastonate il mulo impara. La questione è un’altra: è che anche qui tu dici «in teoria», e solo per creare un’antitesi
tra ciò che è giusto «in teoria» e
ciò che «normalmente», «umanamente», smette d’esserlo. Fino a
quando lo fai con il Vangelo, cazzi tuoi. Ma affermare che la libertà di
espressione sia una cosa bella, buona e giusta, ma che debba fare i conti con
chi non lo pensa, e che a conti fatti debba trovare il modo di reprimersi sennò è «normale» debba aspettarsi una reazione violenta, beh,
non ci siamo proprio.
Non corro il rischio di averti capito male, perché
tu dici testualmente: «Per questo dico
che la libertà di espressione deve tener conto della realtà umana e perciò dico
che deve essere prudente». Sarà reticenza tutta ovattata, ma in
sostanza tu dici che, se con la mia libertà di espressione io do fastidio ad
uno che non la tollera, io devo rinunciarvi, sennò è «normale» ch’io mi pigli il cazzotto che chi è contrario alla mia
libertà di esprimermi possa ritenere giusto, a suo parere, io mi pigli. Dico: per caso usi un aereo che ha problemi di pressurizzazione?
Di là della questione posta in
generale, tuttavia, resta un problema: che fine fa il cazzotto che qualche
giorno fa tu minacciavi di dare a chiunque offenda tua madre? Voglio dire: tu sei
per la «teoria» che insegna il
Vangelo o per quella che a te pare «normalità»
se riferita a ciò che definisci «umano»?
In altri termini: quando parlavi di tua madre, il «tu» eri davvero tu o era un «tu»
impersonale? Essendo papa, non è questione da poco. Perché mettiamo che
domattina io mi svegli e decida di esprimere una libera opinione su tua madre o
sulla tua fede, che a torto o a ragione tu possa recepire come offesa, mi pare
sia fondamentale sapere se mi aspetta in risposta la «teoria» evangelica o la «normalità»
dell’uomo che si lascia andare a una «risposta
non giusta». Bada bene: la «risposta
non giusta» potrebbe essere «normale»
in risposta a qualcosa che risulti offesa a te, ma che in realtà lo sia solo a
voler dare per scontato, contro ogni «teoria»,
che la mia libertà di espressione debba fermarsi dinanzi a ciò che tu ritieni intangibile
al mio giudizio, se non positivo.
Ti faccio un esempio, via. Metti caso che domani, a reti unificate, sento dirti le solite cose, quelle indimostrabili, che o ci credi o no: che Dio esiste, che si è incarnato in un uomo detto Gesù, il quale è nato da una vergine che è rimasta tale dopo il parto, la quale l’avrebbe concepito senza aver avuto rapporti sessuali, e che ’sto Gesù poi è morto, ma è risorto, insomma, Bergo’, le solite cose, che a te sembreranno cose serie, ma a me fanno un po’ ridere e un po’ girar le palle. Bene, ho libertà di esprimermi e dire che sono stronzate? Comprendo che tu possa sentirla come offesa, ma dove va a finire la mia libertà di espressione se non ho il diritto di dire ciò che penso riguardo a ciò che tu ti senti in dovere di dire? Che fai, mi sferri un pugno come farebbe un islamista che ha lasciato a casa il kalashnikov o abbozzi? Capisci bene che la differenza è grossa, e
sta nel capire se giustifichi la «risposta
non giusta» in nome di un’«umanità» che ti apparenta all’islamista.
Ma tu
dici: «La prudenza è una virtù umana che
regola i nostri rapporti. Io posso fino a qui, di qua, di là. E questo volevo
dire, che in teoria siamo tutti d’accordo, c’è la libertà di espressione, una reazione
violenta non è buona, è cattiva sempre, tutti d’accordo, ma nella pratica fermiamoci
un po’, perché siamo umani e rischiamo di provocare gli altri. Per questo la
libertà deve essere accompagnata dalla prudenza. Quello volevo dire».
Perfetto, però ti rendi conto che, con questo bizzarro modo di intendere la
prudenza, il limite che separa il «di qua»
dal «di là» può deciderlo solo chi
eventualmente possa dare anche una «risposta non
giusta»? Ce n’è di che ritenere offensiva la sola presenza di un cristiano in terra d’islam,
e bruciarlo vivo sarebbe certamente una «risposta
non giusta», «in teoria», mentre
la prudenza necessaria consisterebbe, per il cristiano, nel fare bagagli e andare via: stride un
po’ col dichiararlo martire, se resta e lo bruciano vivo, non ti pare? Che facciamo in
questo caso: gli diamo dell’imprudente? A mio modesto avviso, Bergo’, hai le
idee assai confuse, come d’altronde è inevitabile accada quando si pretende di
trovare la quadra tra logica e senso comune, tra dottrina e vita,
tra principi e cazzi propri.
Così con la questione dei figli, che a farne
troppi il cristiano smetterebbe d’essere pecora, come dovrebbe, e diverrebbe
coniglio. A parte il fatto che un tizio con quattro, sei o dieci figli potrebbe
a buon diritto ritenersi offeso, scordarsi per un attimino ogni «teoria» e, consentendosi una «risposta non giusta», però «umana», sferrarti un cazzotto in piena
faccia: grondando sangue dal naso rotto, te la sentiresti di dire che tutto è
dovuto ad una tua imprudenza? Bergo’, fattelo dire: sei una frana.
lunedì 19 gennaio 2015
[...]
Molta
più gente fuori il Pirellone, a contestare, che dentro, al convegno di omofobi
già ampiamente pubblicizzato, le scorse settimane, da altre contestazioni. Legittimo
contestare queste merdacce, ma contestandole si fa loro il gran favore di
enfatizzarne la visibilità, per giunta consentendo possano assumere posa da
vittime. Comprendo quanto sia difficile non reagire a un certo tipo di
provocazioni, ma farlo è proprio quanto nel calcolo di queste insopportabili facce da
schiaffi. L’arma davvero micidiale è ignorarle del tutto, ma se si è miti, e ci
si accontenta di infliggere loro qualche ferita, può bastare il coro: «Sce-mi!
Sce-mi!». Senza rabbia, però, con un sorriso largo. Niente di più che «Sce-mi! Sce-mi!», e si vaporizzano in pochi mesi.
domenica 18 gennaio 2015
Una proposta
Ogni
volta che c’è da mandarne uno nuovo al Quirinale, è sempre la stessa storia: da
chi ha il pieno controllo su consistenti pacchetti di deputati e senatori a chi
non controlla bene nemmeno i propri sfinteri, tutti a puntare su un Presidente
della Repubblica di proprio gradimento. È umano, sia chiaro, ma l’esperienza
insegna che questo genere di scommessa è quasi sempre persa in partenza, e
tuttavia nessuno sembra capace di rinunciarvi. Non io. Fosse per me, ad
esempio, previo ritocco dell’acconciatura, al Quirinale manderei Luciano
Canfora, ma su di lui non scommetto neanche un euro, neanche avanzo la
proposta: un Presidente della Repubblica deve rappresentare l’unità nazionale e
un paese come questo non può affatto essere rappresentato da una persona tanto intelligente,
retta e signorile. La mia proposta è un’altra, ed è proposta che invece di
rincorrere i miei gusti personali vuol essere un concreto aiuto a chi tra
qualche giorno sarà chiamato a decidere: propongo Francesco Rutelli, che non ho in alcun
conto, né come uomo, né come politico, ma che – qui e ora – mi sembra il
candidato perfetto. Bella presenza. Cattolico. Amico di quasi tutti, ma non troppo. Mai avuta un’idea in vita sua, il che infonde tanta serenità. Da qualche tempo ai margini della vita
politica, il che fa tanto super partes. Uno splendido pendant tra due corazzieri, pensateci.
Insomma, signori deputati, signori senatori, rinunciando ad ogni personale gradimento, pensando unicamente al bene supremo della nazione, io propongo lui. A chi di voi avesse qualche dubbio faccio presente che, a
differenza di Romano Prodi, Giuliano Amato, Pietro Grasso e tutti gli altri
nomi che circolano in questi giorni, Francesco Rutelli sarebbe capace di
starsene buono buono per sette anni, tra vasellame e arazzi, senza colpi di
testa o entrate a gamba tesa. Pensate, poi, a una first lady come la
Palombelli.
venerdì 16 gennaio 2015
giovedì 15 gennaio 2015
Mamme
Bergo’,
io non conosco tua madre, quindi non posso parlarne, né male, né bene. Certo,
una mezza idea ce l’ho – me la son fatta proprio oggi, sai?, e grazie a te, grazie a
quella sparata da gradasso di suburra – però, ripeto, non la conosco e sospendo
il giudizio. Mettiamo caso, tuttavia, la conoscessi, avessi prova certa che da
giovane ne abbia combinate d’ogni genere e che oggi sia una vecchiaccia petulante
e ipocrita, un decrepito bagascione che si dà arie da gran signora, una pazza
fottuta che vaneggia senza posa per giunta pretendendo ossequio, pensi che
dirtelo in faccia sarebbe farti offesa? Sì, capisco, la mamma è sempre la mamma,
e poi tu vieni da uno di quei paesi dove la mamma, prima di essere la mamma, è
un’istituzione, un feticcio che concentra in sé ben altro, capisco che la
sentiresti come offesa e, almeno per quanto mi riguarda, sta’ sereno, io non
aprirei bocca. Tutt’è a intenderci, però, su un punto che a mio modesto avviso
è essenziale. Se tu una mammina così te la tieni chiusa in casa, nulla
quaestio. Se però la porti in giro, e la esibisci con orgoglio pretendendo che
tutti la considerino la migliore donna al mondo, e quando apre bocca vuoi che
tutti stiano a sentirla come fosse la quintessenza della saggezza, beh, fattelo
dire, fanculo a te e a tua madre: mi prendo la libertà di dire che lei è quello
che è e che tu sei suo degno figlio.
Oh, sia chiaro, metto in conto che tu mi
possa tirare il cazzotto che minacciavi oggi a chiunque ti sfiori mamma, ma tu
metti in conto il fatto che io mi possa difendere e romperti il culo. Poi ci
sarebbe un’altra questione, collaterale ma strettamente conseguente. Ad avere
una mamma impresentabile potresti non essere da solo. Qualcuno come te,
convinto che la sua sia la migliore mamma al mondo, potrebbe ritenere che
tenerla chiusa in casa sia proprio un peccato, che sia giusto portarla in giro,
sotto braccio, dicendo a tutti: «Questa è la mia mamma, donna eccezionale, pozzo
di sapienza e vetta di bontà. Fatele l’inchino, offritele dei fiori, ditele che
è bella, buona e tanto, tanto, tanto intelligente». Capisci bene dove sorga il
conflitto, no? A consentire questo a figli come voi, si sprecherebbero le occasioni
di fare a pugni, e a passare dai pugni al coltello quanto ci vuole? E dal
coltello alla pistola?
Ovviamente
si allegorizza, Bergo’, d’altronde quando dicevi «mamma» intendevi dire «credo»,
no? Bene, allora si dà il caso che su tua madre io non possa dire nulla, ma sul
tuo credo sì, e anche su quello dei terroristi che hanno fatto fuori la
redazione di Charlie Hebdo, ai quali oggi hai offerto una ragione di legittimo risentimento.
Oh, sì, hai detto che uccidere per difendere l’onore della propria mamma non è
bello, non si fa, ma occorre fare proprio a te la lezioncina sulla natura della
violenza, cazzotto o pallottola che sia? Credi davvero si possa far tutta
questa differenza – torno all’allegoria – tra quella gran zoccola di tua madre
e quella degli islamisti? Hai fatto cenno a quando era giovane: «Pensiamo alla
nostra storia – hai detto – quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo
alla notte di San Bartolomeo! Anche noi siamo stati peccatori su questo, ma non
si può uccidere in nome di Dio, questa è una aberrazione». Uccidere no, dunque,
o almeno non più, però cazzotti sì. E, di grazia, a cosa equivarrebbero i
cazzotti a chi fa satira mettendo a nudo le vostre mamme?
domenica 11 gennaio 2015
[...]
La
Costituzione recita che «il sistema tributario è informato a criteri di
progressività» (art. 53), dunque qualsiasi norma che non ne tenga conto è
incostituzionale, com’è nel caso di una legge che fissi per tutti i contribuenti,
indipendentemente da quale sia il loro reddito, la stessa soglia di rilevanza penale
alla percentuale di reddito evaso. Così è per l’art. 19 bis del decreto sul
fisco che il Governo annuncia per il 20 febbraio, e non sorprende che a rivendicarne
la paternità sia lo zotico che lo presiede, né che per farlo sfoggi la faccia di
cazzo con quale solitamente intende rappresentarci la fierezza d’essere zotico.
Ma
la Costituzione recita pure che spetta al Presidente della Repubblica «autorizza[re]
la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo [ed]
emana[re] i decreti aventi valore di legge» (art. 87). Così, il 20 febbraio, vedremo
il nuovo Presidente della Repubblica alla sua prima prova di garante della
Costituzione.
[...]
Gli
avanzi di banlieue che sublimano in jihad il proprio disagio esistenziale trovano
i loro migliori alleati in quanti ce li dipingono come avanguardie dell’attacco
che da qualche tempo l’islam avrebbe mosso all’occidente giudaico-cristiano. Si
dovrebbero portare in tribunale come complici dei terroristi, questi stronzi,
non importa se in buona o cattiva fede.
venerdì 9 gennaio 2015
Coda
Molte
email di protesta, alcune accompagnate da insulti, mi costringono a tornare su
quanto ho scritto in morte di Pino Daniele.
Se
uno ama la città in cui è nato, la lascia solo è costretto a farlo. La
lontananza gli causa nostalgia. Vi ritorna ogni volta gli sia possibile, anche
se solo per poco. Nulla di tutto questo nel caso di Pino Daniele. Lasciò Napoli
per sua scelta, appena ebbe modo di comprarsi una casa altrove. Su quella
decisione non tornò mai indietro, né diede modo di fare intendere gli fosse dolorosa.
Andò a vivere ad appena due ore di auto da Napoli, ma per anni e anni evitò di
metterci piede. Ancora nel 1993 diceva di non volervi neppure tenere un
concerto e, quando nel 1998 si decise a farlo, nelle due settimane di
preparazione all’evento, la sera preferiva tornare a dormire a Sabaudia. Poi,
certo, tutto sta nel metterci d’accordo su cosa significhi Napoli. La
sfogliatella di Scaturchio? Il Cristo velato del Sanmartino? Totò e il ragù? E
allora sì, possiamo dire che Pino Daniele amasse Napoli. Se invece per Napoli
intendiamo la stragrande maggioranza dei napoletani – il minimo comune multiplo
e il massimo comun divisore di quei vizi morali che ne fanno il carattere
trasversale alla più lercia plebe, alla più vile borghesia, alla più fatiscente
nobiltà – non possono esserci dubbi: Pino Daniele non la sopportava, non la
sopportava affatto. E teneva a marcare le distanze: «Io non sono figlio di
Napoli… È un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello» (Corriere
del Mezzogiorno, 3.6.2011). Più di tutto, odiava come questa Napoli le si
stropicciasse addosso e coi funerali in Piazza Plebiscito ha pagato con
interessi salatissimi l’averla tenuta a debita distanza. Quando diceva: «Io amo
e odio Napoli», parlava di due Napoli diverse: la prima era la città che non
avrebbe mai avuto il bisogno di lasciare, quella che forse immaginava fosse
esistita un tempo, e chissà quando, o quella che avrebbe potuto finalmente essere
(fidava in Antonio Bassolino, povero Pino Daniele!); la seconda era quella
reale, a cominciare dalla famiglia di provenienza. Coi funerali in Piazza
Plebiscito a Pino Daniele è stata inflitta la punizione che era impossibile
infliggergli da vivo: mummificarlo in icona della napoletanità, quel tappeto
sempre più logoro sotto il quale si continuano a nascondere secoli di sporcizia.
Un altro comodo pretesto di fierezza per gente che forse, e dico forse, avrebbe
una pur minima speranza di riscatto nel cominciare col vergognarsi di se stessa.
giovedì 8 gennaio 2015
«Non siamo e non saremo mai domati»
L’intervista
concessa da Vincenzo Gallo, in arte Vincino, a Eleonora Martini, per il manifesto di giovedì 8 gennaio, è assai
più divertente di tante sue vignette. «Continueremo
ad essere irriducibili… La satira non si ferma, non è addomesticabile… Seppure feriti gravemente, non siamo e non saremo mai domati…», cose così, come da
scampato per miracolo alla strage consumatasi ieri in rue Serpollet. Cosa abbia
a che fare, l’umorismo di Vincino, con la satira di Charlie Hebdo, difficile capirlo. Quando mai Vincino abbia sfidato chi davvero potesse fargli male, non si
sa. In quanto alla posa da duro e puro, sprezzante di ogni pericolo, che qui culmina
in un intenso «non fai questo mestiere
con la paura», corre alla mente la volta che lo vedemmo chinato a pecora non già davanti a un terrorista islamico, ma a un direttore, non già per aver offeso Allah, ma l’editore.
mercoledì 7 gennaio 2015
[...]
Un’altra
infornata di cardinali dalla quale resta fuori. Sapendo quanto tiene alla
porpora, starà soffrendo anche stavolta come un cane, poveraccio. Indispensabile, perciò, una parola buona. E dunque. Coraggio,
Rino, e sappi che ti son vicino. Se vuoi sfogarti un poco, non fare cerimonie, chiamami, ché due o tre belle bestemmie in circostanze simili sono liberatorie, e a me non fanno né caldo né freddo. Ciao.
martedì 6 gennaio 2015
[...]
Pino
Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976,
al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due
dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì,
l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse,
ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta
leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso
torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva
a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a
sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità,
quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono
perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di
antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo
Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco
o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione
classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più
caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori
d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era,
più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non
napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a
farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere
una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è
più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.
lunedì 5 gennaio 2015
Quando un’azienda dal marchio prestigioso... / 2
Con
quel «si sa che l’omosessualità è
creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non
è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi» (Il Foglio, 2.1.2015), deve aver avuto
qualche noia, e allora eccolo correre ai ripari. Il nodo della questione è quel
«non è naturale», che suonava come «non è fisiologico», dunque come «patologico», buono solo ad invischiare Il Foglio della merda che tra poco spargerà
La Croce. Ecco, allora, che Ferrara
si affretta a spiegarci la differenza che c’è tra lui e Adinolfi: l’omosessualità
è un peccato, pensare che sia una malattia è «una scemenza col botto», è «intolleranza
ignorante».
Ve l’avevo anticipato già a settembre, rammentate? «Quando un’azienda dal marchio prestigioso
scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti
– scrivevo – all’inizio solitamente
nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione
così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà
dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione
del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno
costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di
qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica
versione della fashion victim. Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre
meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un
problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. […]
È
solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a
farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi» (Quando
un’azienda dal marchio prestigioso... – Malvino,
16.9.2014). Ma era settembre, l’uscita de La
Croce era ancora lontana, e «non
siamo ancora a questo punto – scrivevo – con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in
provincia». Ora, invece, la cosa comincia a diventare imbarazzante, perché
il prodotto contraffatto non si limita a far concorrenza, ma minaccia di
svalutare l’originale. La dinamica di mercato è nota, gli esperti del settore
dicono che ne tocca un buon 20-30%: il rischio, in questo caso, è che l’omofobia
dozzinale di Adinolfi sollevi la questione di quanto veramente valga quella sofisticata
di Ferrara. Perché – avvisavo – «solo a
un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e
barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un
fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa
differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in
nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato [il
parallelo era con le borse di Louis Vuitton originali e quelle contraffatte]. È differenza che al momento si coglie al
primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi».
Si
preoccupa solo alla vigilia dell’uscita de La
Croce, Ferrara, e cerca di recuperare il ritardo, ovviamente con qualche
affanno. Ma quale malattia! L’omosessualità è peccato, sennò tutto è malattia,
e allora «tutti abbiamo bisogno di essere curati e soprattutto di essere
lasciati in pace». E poi, che cazzo, parlarne come di una
malattia non è «riportare la cultura
cristiana e cattolica dentro le ossessioni ideologiche del tempo, mettendo la
psicologia comportamentale e altre bellurie dentro la nuova evangelizzazione»?
E in fondo non erano ricchioni pure Socrate, sant’Anselmo e il cardinale
Newman? «Le tirate di san Paolo contro i
sodomiti sono le benvenute, perché parlano di peccato e non di malattia», ma,
per l’amor del cielo, si eviti «l’irrigidimento
caricaturale e clinicizzante dei materiali culturali non negoziabili che furono
lo stigma d’intelligenza di una lunga stagione cattolica e laica del
contemporaneo». Ecco, qui sta il punto: La
Croce è una caricatura de Il Foglio.
E questo l’avevamo intuito. Quello che ci sorprende è che Ferrara sia assai più
preoccupato di quanto fosse prevedibile aspettarsi. Come se Louis Vuitton volesse
innanzitutto convincere se stesso che il pregio di una sua borsa stia tutta nel
marchio, il che finisce per risultare ingeneroso verso la qualità dei materiali, che in questo
editoriale di lunedì 5 gennaio sono d’altronde esaltati in modo fiacco, quasi stanco. Ma
forse si riuscirà a fare di meglio nei prossimi giorni.
domenica 4 gennaio 2015
Un hombre vertical
18 febbraio 2014 «A
me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. Non posso e non voglio
passare dalla bicicletta all’auto blu»
3 gennaio 2015 «Gli
spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi non
sono scelte ma frutto di protocolli di sicurezza»
sabato 3 gennaio 2015
venerdì 2 gennaio 2015
[...]
Tra
i riti che l’ipocrisia impone a chi vuol passare per personcina a modo c’è
quello di piangere sulla chiusura di un giornale, come in morte della libertà
di stampa e del pluralismo dell’informazione, anche quando il giornale che
chiude vendeva pochissime copie e si pappava una montagna di contributi
pubblici. Questo è il caso di Europa:
vendeva 1.500 copie al giorno e in dieci anni ha inghiottito 32 milioni di euro,
davvero vogliamo piangere? Pianga Menichini, via, ché può tornargli perfino
utile togliersi dal muso quel sorriso da furbetto. Noi, che vediamo la zecca
morta cascare giù dal ventre del cane, cerchiamo di essere solidali col cane:
ok, la zecca è morta, e meno male.
«Si sa»
Che
scenda dall’alto o che salga dal basso, la violenza che si fa autorità ha
bisogno di una legittimazione che abbia l’impronta del divino, sennò non regge
a lungo, tanto meno può diventare istituzione. Quando scende dall’alto, viene
da chi, per meriti particolari, anzi, potremmo dire peculiari, Dio avrebbe
investito di un potere speciale, assoggettarsi al quale sarebbe dunque cosa naturale,
visto che è Dio ad aver dato legge alla natura. Ma la regola vale pure per la
violenza che sale dal basso: anch’essa, per legittimarsi come autorità, deve
ammantarsi di divino («vox populi, vox
Dei»). C’è un punto, tuttavia, in cui la violenza che scende dall’alto s’incontra
con quella che sale dal basso per fondersi in quel «si sa» che introduce sia la fallacia ad auctoritatem sia quella ad
populum: «si sa» – dice chi, a
corto di argomenti, vuole infliggerci violenza nella sua forma più insidiosa,
che è quella dell’imbroglio – ma in realtà non si sa la cosa più importante,
cioè donde venga l’autorità dell’affermazione che segue, se da quanto Dio ha
concentrato nelle sentenze dei primi o da quanto ha diluito nei luoghi
comuni degli ultimi. «Si sa», dice, e
in questo modo non è neanche più tenuto a spiegare per quale via la verità gli
esca di bocca. «Si sa», e non si
capisce se quanto segue sia distillato della sapienza cumulata da dinastie di élites
o folgorante scintilla che sprizza del deposito
di buonsenso custodito nei secoli dalla plebe. A meno che non venga usato in
modo ironico – proprio a mettere in discussione l’autorità che non ammette
discussione – guardiamoci dal «si sa».
Esempio
(in coda ad una lunga lista di «si sa»
che stipano un editoriale su Il Foglio
di venerdì 2 gennaio): «Si sa che
l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non
è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi».
«Si sa» perché sta scritto nel Levitico o perché da che mondo è mondo si
pestano i ricchioni? Che importa, «si sa»,
e tanto basti a fare argomento.
giovedì 1 gennaio 2015
«L’invenzione di Aristotele»
La
logica è «invenzione di Aristotele»?
Così sull’ultimo numero di Domenica
de Il Sole-24 Ore (pag. 22), per
titolo a un articolo di Hilary Putnam. Titolo che, tutto sommato, non tradisce
il contenuto dell’articolo, nel quale non c’è scritto testualmente quanto nel
titolo, ma che «Aristotele ha inventato
le variabili [predicative]», e che
«ha studiato nei dettagli 256 inferenze
(dette “sillogismi categorici” o semplicemente “sillogismi”)» cui esse
possono dar vita, e che «ha fatto vedere come stabilire quali sono valide (24 lo sono) e quali sono invalide
(la gran parte)», e che così «ha inaugurato
il programma consistente nella creazione di un organo del ragionamento
deduttivo».
Se
la logica è questo, niente da dire. Di fatto, Aristotele preferisce parlare di
analitica, mentre alla logica assegna un significato assai più generico,
talvolta perfino deteriore, assai prossimo a quello che per lui ha la
dialettica: nei Secondi Analitici contrappone il λογικος συλλογισμος a quello
propriamente apodittico, e nei Topici
scrive che poggia su premesse ψευδων ενδοξων
δε come quello dialettico (che nei Primi
Analitici dice composto da προτασεις κατα
δοξαν), mentre in generale svaluta costantemente il λογικων θεωρειν, arrivando a definirlo vacuo (κενον) in Etica Eudemia.
Ma
la logica, poi, è mero dedurre? E, ammesso e non concesso che lo sia, si
possono trascurare gli studi di Lukasiewicz, Perelman, Viano, Calogero, giusto
per citarne qualcuno, che hanno per tempo smantellato la tesi qui riproposta da
Putnam, presa di peso dall’ormai logora lettura di Prantl? Più in generale, e
come sempre quando si ha a che fare con le semplificazioni giornalistiche, è il
caso di affibbiare ad Aristotele, che è del IV secolo avanti Cristo, il titolo
di inventore di una prassi di cui troviamo numerose tracce già nel secolo prima,
e già in Parmenide, già in Eraclito? Come si può ignorare che sotto e dentro la
logica dianoetica c’è la logica noetica?
Speriamo bene per l’anno nuovo
Il
primo pensiero del 2015 non può che andare a quanti stanotte hanno perso una
mano o un occhio per sparare i botti di fine anno. Si tratta per lo più di
poveracci – visto mai il presidente di una banca o l’amministratore delegato di
una multinazionale sparare botti? – e poveracci che per nessuna ragione al
mondo rinuncerebbero a spendere in polvere nera e miccia corta il poco che loro
resta della speranza solitamente spesa in Gratta&vinci. Poveracci due
volte, dunque, ma forse anche due, tre, quattro volte. E a chi rivolgere il
proprio pensiero, quando la retorica del momento preme, se non agli ultimi?
Veniamo
ai penultimi, ché la retorica del momento ancora preme, e cioè ai medici che
ieri sera hanno attaccato il loro turno al pronto soccorso e hanno passato la
notte a rappezzare monconi e a medicare ustioni. Costretti a farlo, prima che
per contratto, per quella nobile ragione che ormai suona come un peto di
Esculapio. A quest’ora staranno tornando a casa, Dio non voglia abbiano un
colpo di sonno al volante, sennò al pronto soccorso non troveranno neanche una
barella.
Terzo
pensiero a quelli che una volta si chiamavano spazzini ed oggi sono operatori ecologici,
che all’ingrato lavoraccio di rimuovere dalle strade tonnellate di cocci di bottiglia
dovranno anche quest’anno aggiungere il deprimente dato Istat che dai balconi
non si butta altro, finiti i tempi in cui si aspettava San Silvestro per liberarsi
di un De Chirico che non s’abbinasse bene al divano.
Quarto
pensiero, in attesa che la retorica del momento scemi, ai migranti sul barcone
di Capodanno che al primo botto sparato a Lampedusa avranno pensato al peggio, il
quinto al povero cardinal Bertone che ora tutti scansano come la peste e avrà
passato la serata solo soletto, giocherellando con il tappo, aspettando invano un
sms da Gianni Letta, e il sesto vada a chi sogna di andare al Quirinale e non
ci andrà.
Un
settimo pensiero vada – no, basta, finita la retorica del momento – il settimo pensiero vada a chi anche quest’anno non è morto e, che cazzo, avrebbe anche
potuto farci il piacere. Speriamo bene per l’anno nuovo.
Glaucoma, probabilmente
Vero
è che «senectus ipsa est morbus», ma nel
suo discorso di fine anno Giorgio Napolitano ha fatto cenno, seppur vago, a
specifiche «limitazioni e difficoltà», dicendole «crescenti»,
sicché è del tutto naturale che uno si chieda quali possano essere. Io tenderei
ad escludere problemi al sistema nervoso centrale, peraltro tanto comuni alla
sua veneranda età: tranne qualche inceppamento nell’eloquio, che capita pure ai
trentenni, m’è sembrato un poco affaticato, ma discretamente lucido. Io direi
si tratti di glaucoma, la patologia che porta a una progressiva riduzione del
campo visivo periferico. In pratica, il soggetto affetto da glaucoma vede bene
solo ciò che è al centro del suo campo visivo, e tutto attorno è come non ci
fosse niente. La cosa dev’essere iniziata fin dal giorno che ha messo piede al
Quirinale, nel 2006, almeno così pare suggerirci quando rammenta che ha sempre
avuto come primario interesse «il
reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il
confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l’individuare i temi di
necessaria convergenza nell’interesse generale». Nel 2006, si sa, il campo
visivo di un soggetto sano era quasi interamente occupato dal centrodestra e
dal centrosinistra, ma presto il bipolarismo è andato a farsi fottere, e i due
schieramenti si sono sempre più ristretti. E più si restringevano, più si accostavano.
E più si accostavano, più si restringevano. E nel farlo, come è naturale per
una destra che si voleva centrodestra e per una sinistra che si voleva
centrosinistra, convergevano entrambe al centro, sempre bene in vista al nostro
amato Presidente della Repubblica, cui il glaucoma non consentiva di vedere che
intanto astensionismo, M5S e Lega riducevano il Pd e Forza Italia a poco più di
un terzo degli aventi diritto al voto: niente, tutto lo scenario politico che
rientrava nel suo campo visivo – maggioranza e minoranza – erano il Pd e Forza
Italia, gli «opposti schieramenti». Nessuna
perplessità sul fatto che gli accordi sottobanco non li rendessero poi tanto «opposti», se non in favore delle
rispettive tifoserie. Nessuna preoccupazione riguardo al fatto che oltre a «riconoscimento, rispetto e ascolto» finissero
addirittura a raggiungere l’orgasmo simultaneo nel realizzare pezzo dopo pezzo,
qui con reciproca desistenza, lì con accordo bipartisan, il Piano di rinascita democratica di Licio
Gelli. Gli «opposti schieramenti»
erano quelli, e tutto attorno zero, il buio, il niente. Sia chiaro, non è che,
oltre al Pd e a Forza Italia, d’attorno ci fosse e tuttora ci sia poi chissà cosa.
Ammesso e non concesso, tuttavia, sia solo cacca, è cacca che comunque non puoi
far finta non esista, dovendo rappresentare l’unità della nazione. Ti è toccato
in sorte di dover rappresentare l’unità di una nazione che per un buon 70% è
cacca, sia, ma non puoi limitarti a rappresentare solo l’unità di quel 30% che sta
al centro del tuo campo visivo, che poi finisce per diventare il 20% a non veder
più nemmeno le fronde interne a Pd e a Forza Italia, ai margini. Deve averlo
capito, finalmente, e prima di finire a rappresentare solo il governo, di volta
in volta dato a questo o a quello, a sua piena discrezione, in pratica a rappresentare solo l’unità di se stesso, avrà detto: «Basta,
nasino mio bello, andiamocene ad Anacapri». Della signora Clio, ormai, riesce a
vedere solo quello.
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