Troverete
ben poca politica nel libricino scritto da Giuliano Ferrara (Il royal baby, Rizzoli 2014), anche se si
presenta come «breve conversazione sul
nuovo nato», e cioè su Matteo Renzi, a mo’ di instant book sul Patto del Nazareno. In realtà, si tratta di un monologhetto
dal quale si potrebbe trarre il testo d’una pièce teatrale, coll’io narrante in
proscenio e sul fondale, a scorrere, immagini d’archivio, quelle sì tratte
dalla cronaca politica, da quella più recente a quella che ormai data trent’anni.
La politica, insomma, sta dietro il discorso, che qui non è lectio e non è oratio, anche se assume la maniera qua dell’una e là dell’altra: va
in scena il caso umano, il personaggio che tira le somme della propria
esistenza, nella quale la politica – più che altro, i suoi rumori – hanno fatto
da colonna sonora.
In questo senso, l’incipit è onesto: «A me è necessaria la politica. Non posso vivere senza i suoi
travestimenti, le frodi, l’impostura, i segreti […] Non posso vivere senza
l’imprevisto, l’inimmaginabile, il callido. Ho bisogno della legge bronzea,
della forza che dispiega l’intelligenza di una cause célèbre, la controversia,
il bagno di odio metaforico, la violenza della rottura costruita con il compromesso
necessario». Della politica, in buona evidenza, qui si descrive l’atto, non
già il fatto – d’altronde non è escluso che per Giuliano Ferrara la politica
possa ritenersi puro atto (ovviamente cosa un po’ diversa dal gentiliano «atto puro», ma non troppo distante) – e
tuttavia che il fatto abbia una sua ratio,
di cui l’atto non è che rappresentazione, ci era sembrato non gli sfuggisse in
pagine più seriamente meditate, come nella prefazione a Scrittura e persecuzione di Leo Strauss (Marsilio, 1990) o in
quella a La saggezza della fronda. Massime
del Cardinale di Retz e di François de La Rochefoucauld (Giuseppe Laterza,
2001). Qui, no.
Qui, come in una fin de
partie, sembra che la categoria del politico
(schmittianamente inteso) riduca amico
e nemico a mere marionette di un
teatrino, svilendo la tragedia a dramma, a comédie
humaine, mentre l’Ausnahmezustand si
contrae in un eccitato stato d’ansia, che ci si sforza di sentire stuzzicante. Quanto possano aver giocato i recenti
problemi di salute e la severa dieta alimentare cui è stato sottoposto (al
momento con buoni risultati, nell’ultimo anno deve aver perso almeno venti
chili) è questione che andrebbe approfondita, sta di fatto che in questo
libricino (poco più di 120 pagine, di 21 righe ciascuna, per 50 battute a riga:
su Il Foglio sarebbe entrato tutto in
tre paginoni di inserto) c’è solo una patina di dottrina, e ad un colpetto d’unghia
salta, rivelando che sotto c’è solo umore, e solo in apparenza buono. Anche dove parrebbe dispiegarsi un metodo, nel tentativo di costruire un sistema, tutto abortisce nella provocazione, nel gusto un po’ malato di scandalizzare: «Quel
che serve non è un Paese migliore […] Quel che serve è una rete di interessi
corporativi combinati, che non esclude patti trasversali e inconfessabili
doppi, tripli giochi, sempre nascosti dietro la fiera denuncia dei patti col
demonio stipulati dagli avversari del momento». Così quando sembrerebbe stia prendendo avvio un ragionamento sulla natura del potere in era postdemocratica: «La leadership personale [...] è questo: non ci sono più partiti come sistema, non c’è un ceto produttivo e borghese, non c’è l’intellighenzia, non c’è la classe con la sua rappresentanza, il populazzo è come in Guicciardini “mille
volte uno pazzo”, si muove flessuoso tra un’elezione e l’altra, è disponibile all’avventura, al fidanzamento, non appartiene più, non resta che la persona, l’uomo solo al comando di se stesso che prova a manovrare il consenso diffuso dell’interdizione del mugugno, dell’influenza e della furbizia». Bene, e dunque? «In questo, Renzi, allievo naturale del suo venerato predecessore, è ben piazzato». Stop.
Nulla del
trattatello, dunque, anche se di tanto in tanto il tono fa il verso all’encomiastica
di certi scrivani del XVI e del XVII secolo, che tra un inchino e l’altro
infilavano un consiglio. C’è tanto di quell’io, in questo libricino, che Silvio
Berlusconi e Matteo Renzi sembrano maschere, e maschere sembrano i tanti citati
nelle ultime 20 pagine, dove l’io si veste addirittura di terza persona, per
una breve autobiografia che cede alla celebrazione e pecca di pesante
autoindulgenza, sebbene un po’ attenuata da qualche gigionismo e tante
strizzatine d’occhio. Per chi conosce i fatti come davvero sono andati (Pino
Nicotri, L’arcitaliano Giuliano Ferrara,
Kaos 2004), questa storiella, che negli ultimi dieci anni ci è stata riproposta
almeno cinque o sei volte, sembra un training autogeno. Così con Matteo Renzi,
che poi «non è nemmeno il mio tipo», ma è
che «volevo un vendicatore di questi vent’anni
[e] l’ho avuto». Non gli è difficile
convincersi che può dirsi soddisfatto del film che ha visto: ha vociato durante
la proiezione, la trama ha preso la piega che voleva, esce dal cinema con la
sensazione di aver concorso alla sceneggiatura. Non gli è difficile,
soprattutto, presentare Matteo Renzi come figlio naturale di Silvio Berlusconi:
stessa tecnica d’un Marco Travaglio, ovviamente rovesciando il segno.
Nulla di
nuovo, dunque, si tratta di un libricino pressoché inutile. Prezzo di copertina
15 euro, scontato del 25% già a due settimane dall’uscita, a presto sulle
bancarelle degli invenduti a 2 euro. Se volete comprarlo, vi conviene aspettare.