lunedì 13 giugno 2016

Il retrattore di Percy


È assai frequente che dallarto aggredito da un processo gangrenoso si levi un fetore talmente insopportabile da rendere estremamente dura la caritatevole opera di chi assiste il paziente che ne è affetto. È che, a differenza di quanto avviene con tutti gli altri sensi, i recettori deputati alla percezione olfattiva afferiscono a una delle porzioni più antiche del nostro cervello senzalcuna intermediazione e modulazione talamica nel collegamento a quelle aree più giovani della nostra corteccia cerebrale dove la sensazione acquista il connotato specie-specifico umano, conservandole così quel tratto belluino che riverbera inevitabilmente nella reazione allo stimolo: come dimostra l’enorme importanza che gli odori continuano ad esercitare, talvolta in modo incontrollabile, in ambito sessuale, nel corso dellevoluzione lolfatto ha conservato tutti i suoi caratteri più ancestrali, molti dei quali antecedenti addirittura allo stadio in cui eravamo scimmie. Questo spiega perché in casi simili listinto possa facilmente prendere il sopravvento sulla ragione, che invece sa nitidamente distinguere in chi effonde il miasma gangrenoso il malato bisognoso di rispetto e di cura. Perché la ragione possa aver la meglio sullistinto, tuttavia, occorre disarticolare la reazione dallo stimolo, e per far questo basta saper distinguere il malato dalla malattia, cosa che quasi sempre è resa possibile da un procedimento logico abbastanza elementare: il poveretto puzza, puzza di brutto, ma non è certo colpa sua: è affetto da una patologia, che potrà pure essere stata agevolata da un malsano stile di vita, dalla sua incuria, ma questo non autorizza a giudizi morali, né solleva dallobbligo di prestargli assistenza, sacrificando il naso, e non solo, com’è con l’extrema ratio della pietosa amputazione dellarto, dove sia il caso.
Per questo occorre essere grati a Eugenio Scalfari: nel corso del dialogo avuto con Matteo Renzi a RepIdee, riportato ieri da la Repubblica, è stato capace di strappargli unaffermazione che ci costringe a mettere da parte lincommensurabile schifo che ci infligge come uomo e lincoercibile disprezzo che ci infonde come politico, per indurci a quellelementare procedimento logico che ci consente di vedere in lui il malato, nientaltro che la vittima di ciò che la personalizzazione della politica ci ha invece indotto così spesso a ritenere connaturato al leader narcisista e arrogante,  e drogato di autostima. Insomma, per non tirarla troppo a lungo, grazie a Eugenio Scalfari ci è stato dato modo di capire che Matteo Renzi puzza, e di brutto, e senza dubbio è puzza che gli viene dal di dentro, ma che la questione non si risolve dandogli del puzzone. Di più: facendoci distinguere il malato dalla malattia, ci è stato dato modo di evitare lerrore di ritenere che basti dar libero sfogo al disgusto per fare anche un solo passo avanti nella profilassi della personalizzazione della politica, gangrena da sempre endemica in società segnate dall’ignoranza e dalla soggezione in cui vengono compresse le masse.
È in questo stato di compressione, infatti, che vengono a realizzarsi quelle condizioni di anaerobiosi – vera e propria asfissia del pensiero – che favorisce lattecchimento e lo sviluppo dei germi che distruggono il tessuto della democrazia, liberando i fetidi prodotti del suo disfacimento. Primo fra tutti, il mito della governabilità, alla quale sarebbe lecito sacrificare il «pregiudizio» che la rappresentatività è il cuore stesso della democrazia. Poi, la certezza che governare stia nel sapiente ricircolo di paure e speranze operato da unélite in grado di produrre alla bisogna le une e le altre, proiettandole a dovere in una narrazione che riduca il cittadino a spettatore di un destino che gli è estraneo. Ancora, la convinzione che alle masse basti dare un nemico al giorno e un obolo ogni tanto per meritare quel silenzio-assenso da poter essere vantato come consenso. Non cè bisogno di analisi gascromatografica per riconoscere in queste ammine volatili i prodotti della putrefazione che ha trasformato il popolo in plebe, il voto in plebiscito, l’informazione in propaganda, lo stato in una piramide corporativa cui in cima siede l’intercambiabile uomo di paglia da bruciare quando diventa inservibile.
«Penso che dobbiamo fare al massimo due mandati: sarei disposto a firmare qualsiasi legge in questo senso», così ha detto Matteo Renzi, riferendosi alla carica di Presidente del Consiglio, per assicurarci che non ha intenzione di «governare lItalia per 15 anni», diffidando chi voglia attribuirgliela («lo querelo»). È evidente che gli sfugga che un tal limite trovi senso nel caso in cui una carica sia direttamente espressa dal popolo, come accade per il Presidente degli Stati Uniti, per quello della Repubblica Francese e per quello della Federazione Russa, dove ha il fine di evitare che il notevole potere concesso all’uomo che la riveste per un periodo troppo lungo possa degenerare in arbitrio. Potrebbe aver senso per gli eletti dal popolo, ma che senso avrebbe un limite di due mandati in una democrazia parlamentare dove le massime cariche dello stato, ivi compresa quella del Presidente del Consiglio, non sono espresse direttamente dal voto popolare? Per meglio dire: cosa porta Matteo Renzi a volerci dare una garanzia che non avrebbe alcuna ragion dessere se davvero, come ha più volte affermato, la riforma costituzionale e la legge elettorale da lui volute non stravolgono limpianto di una democrazia parlamentare? Pare palese la contraddizione, che rivela in lui il disegno di un presidenzialismo camuffato, tanto più pericoloso rispetto a un presidenzialismo esplicitamente rivendicato perché privo di ogni contrappeso istituzionale. È un progetto che puzza, e di brutto, ma giacché sappalesa in modo da lasciar credere che Matteo Renzi ne sia agito piuttosto che esserne attore, eccoci costretti a non lasciar far tutto al naso: occorre trattenere lo schifo e tener pronto il retrattore di Percy. 

venerdì 10 giugno 2016

Parliamo un po’ di Napoli


Di regola rinuncio a scrivere della città in cui vivo, perché per farlo dovrei tradire limpegno alla discrezione che mi assumo nellesser messo a parte di confidenze che costituirebbero la sola fonte dalla quale potrei attingere. È impegno che assumo innanzitutto dinanzi a me stesso, perché di queste confidenze non sono in grado di accertare la piena veridicità, anche se spesso dallincrocio di quel che mi dice Tizio con quello che mi dice Caio ricavo una discreta verosimiglianza di quel che mi hanno detto entrambi, però sarei disonesto se negassi che la discrezione mi è imposta pure dall’interesse ad evitare noie e a non guastare delle amicizie che in alcuni casi datano decenni.
È che di quello che accade a Napoli so quasi esclusivamente quello che mi raccontano a cena i miei amici: molti avvocati, due giovani magistrati, un ufficiale della Guardia di Finanza, qualche medico, un giornalista, due o tre capere che non ho mai capito come facciano ad essere sempre aggiornatissime sulla vita erotico-sentimentale di chiunque abbia un minimo di visibilità sociale, il responsabile di un istituto di credito...
Una dozzina di anni fa – qui immagino che il mio lettore storcerà il muso – mi onorava della sua amicizia anche un Sempronio poi morto crivellato di pallottole a unuscita della Tangenziale: imprenditore edile, ufficialmente, ma straordinariamente addentro a tutti i più minuti stracazzi delle faccende politiche locali. Molto affezionato perché convinto che avessi salvato la vita a sua figlia – inutile ripetergli che si era trattato di una diagnosi  di cui sarebbe stato capace chiunque – mi invitava alle sue feste di compleanno, e due o tre volte non ho potuto fare a meno di andarci.
Più che per il vino e per la grappa, che peraltro cogli anni reggo sempre meno, è per lenorme mole di fatti e nomi che vengono riportati in queste occasioni che da tavola mi alzo ogni volta come stordito, spesso senza aver capito nulla degli intrecci che temo si dia per scontato io non possa non aver colto al volo. Non ho mai retto i romanzi corali, non riesco a seguire storie che contengano più di cinque o sei personaggi, dunque il giorno dopo è tutta merda che ritorna nella fogna.
Brunella mi sfotte: dice che, se non avessi sprecato tutto il mio tempo libero a leggere e a scrivere, se avessi messo a frutto tutte le informazioni dalle quali entravo e uscivo, sapendo far buon uso di una così ben assortita gamma di conoscenze, ora sarei sempre un Luigi, ma di cognome farei Bisignani. Le dico che sbaglia, che non sarebbe bastato: occorreva un interesse vero per questa città, e invece io non sono mai riuscito a farmela piacere troppo, guardando sempre con sospetto chi dichiarasse di amarla tanto.
Sospetto mai sprecato invano: quasi sempre era volgare campanilismo, un campanilismo non di rado simile allamore che lega un figlio a sua madre anche se quella è affetta da sindrome di Münchausen per procura, e gli mette candeggina nel latte, pezzi di vetro nelle polpette, per potersi mettere in posa da Addolorata, col cuore trafitto da sette spade, intascando la colletta organizzata per mandarlo a curarsi allestero, spesa tutta per giocare numeri al lotto, senza beccare mai neppure un ambo; sennò tonto candore di turista tornato a casa senza aver subìto scippo tra il «wonderful!» davanti al Cristo velato della Cappella di Sansevero e il «wow!» davanti a una sfogliatella di Scaturchio; oppure, e neanche tanto di rado, perché Napoli può davvero sembrarti il paradiso nel quale il tuo disturbo antisociale di personalità sia meritatamente considerato amore per la libertà, la tua totale mancanza di dignità trovi dovuto apprezzamento come arte del sapersi arrangiare, la tua sguaiataggine passi per spigliata disinvoltura.
La nascita del mio ultimo figlio – un figlio concepito a 55 anni – ha inevitabilmente rinverdito la cerchia delle conoscenze e delle amicizie, dandomi modo di aggiornarmi su quanto va accadendo ultimamente in città attraverso gli occhi dei trentenni e dei quarantenni coi quali mi intrattengo a margine dei compleanni dei nostri bambini. Niente, sempre tutto uguale, a conferma di quanto si è detto la sera prima, a cena con lavvocato cinquantenne.

Ecco, ancora una volta sono partito pensando a una breve premessa che mi consentisse di introdurre il tema – tutto quello che è accaduto a Napoli alla vigilia del primo turno delle Amministrative, e quello che sta accadendo in questi giorni che precedono il ballottaggio tra De Magistris e Lettieri – ma, per cercare di spiegare perché il racconto dovesse necessariamente essere zeppo di allusioni, il brodo mè venuto così lungo che al riassaggio mi decido a rinunciarci. 

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martedì 7 giugno 2016

#eNews 431

Era evidente che Berlusconi mentisse innanzitutto a se stesso. Cercava di fotterti, questo è indubbio, ma sembrava che gli fosse possibile solo dopo essersi convinto che in fondo eri tu a voler essere fottuto, irresistibilmente attratto a entrare nella stessa bolla, gonfiata di bugia in bugia, che proteggeva lui, e avrebbe voluto proteggere anche te, dalla realtà. Insomma, che vendesse zerbini in acrilico spacciandoli per tappeti persiani è fuori discussione, ma dava limpressione che per farlo avesse bisogno di credere che, oltre che per lui che li vendeva, fosse un affarone anche per chi ne avesse comprato uno. Direi che in ultima analisi appartenesse a quella categoria di bugiardi ai quali «placere libet de suaviloquio, qui tamen veris mallent placere, sed quando non facile inveniunt vera quae grata sint audientibus, mentiri eligunt potius quam tacere» (Agostino dIppona – De mendacio, 11, 18).
Vorrei non mi si fraintendesse: al pari di ogni impostore, meritava di essere spalmato di pece e cosparso di piume, per poi dargli fuoco. Sia chiaro, inoltre, che, se quanto finora ho scritto potrà aver dato limpressione di un «coccodrillo» tirato fuori dal cassetto con qualche anticipo, è solo perché la stagione delle bugie di Berlusconi è ormai alle nostre spalle. In realtà, se qualche nota di indulgenza mi sarà scappata, è solo perché fin dallinizio lintenzione era di mettere a confronto due campioni di impostura che per tanti si somigliano, e che invece sono differenti.
Tornando ad Agostino dIppona, infatti, cè pure limpostore che appartiene alla categoria dei «gaudentes de ipsa fallacia» (ibidem), quelli amano fotterti per il piacere di fotterti, e che, prima di fotterti, mentre ti stanno fottendo e dopo che ti hanno fottuto, restano sempre fuori dalla bolla nella quale hanno cercato di chiuderti. A differenza di quelli che ti attraggono in una menzogna nella quale sono già in precedenza riparati per proteggersi dalla realtà, questi ti ci spingono dentro, rimanendone fuori. Parlo di Renzi, si sarà capito, ed è proprio questa differenza che, a mio modesto avviso, consente di affermare, come ho già fatto, «era meglio Berlusconi», rigettando lobiezione «ma no, è che il passato ci sembra sempre più innocuo alla luce del presente» (formamentis).
Reduce, come sono, da due infortuni causati da uneccessiva leggerezza nellargomentazione (vedi il post qui sotto), mi auguro che il lettore vorrà scusarmi se qui probabilmente lappesantirò più del necessario per dar ragione di quanto sostengo. Avevo intenzione di farlo analizzando quanto Renzi ha detto nel corso della conferenza stampa tenuta lunedì mattina a commento dei risultati del primo turno delle Amministrative, ma in serata ha licenziato via Facebook una eNews che condensa tutte le bugie dette alcune ore prima e questo mi semplifica le cose. 

Come ai vecchi tempi il giorno dopo le Elezioni hanno vinto tutti. Tutti sorridono davanti alle telecamere per dire che loro sì che hanno trionfato, signora mia. Spiacente, io non sono fatto così. E lho detto chiaro: non sono contento, avrei voluto di più. Non sarò mai un pollo di allevamento della politica che ripete le stesse frasi banali ogni scrutinio.
Falso. Tranne il M5S, che peraltro ne aveva piena ragione, visti i risultati ottenuti rispetto a quelli delle precedenti Amministrative, non si è sentito nessuno dire di aver trionfato. Non Forza Italia, che per voce di tutti i suoi maggiori esponenti ha ammesso il crollo, limitandosi a imputarne ogni causa allodierno stato di frammentazione del fronte del centrodestra. Tanto meno Fratelli dItalia, che sul passaggio della Meloni al ballottaggio aveva investito tanto. Né trionfalistico è suonato il commento di Salvini, che tuttal più ha manifestato soddisfazione per la pessima prestazione data dal Pd. Nessun tono entusiastico neppure dalla sinistra che per lo slittamento al centro del Pd è dimprovviso diventata «radicale», come se al momento in Italia ne esistesse unaltra «moderata»: Fassina non ha fatto mistero della sua delusione, limitandosi a dire che considerava il risultato ottenuto come la base di partenza per future più ampie aggregazioni. Falsa, dunque, la premessa, che daltronde, come sarà subito evidente dallanalisi di quanto segue, sembra servire solo a ribadire quel ruolo di rottura rispetto ai «vecchi tempi». Ancora più evidente, il dato, in conferenza stampa, dove ha fatto esplicito riferimento al «teatrino politico della Prima Repubblica». Come vedremo subito, invece, siamo alla lettura dei risultati elettorali che era tipica della Dc allindomani di una flessione della percentuale dei consensi. «Noi del Pd, abituati a vincerne tante, per non dire “abituati a vincerle quasi tutte”...».
Intendiamoci. Il PD rimane saldamente in testa, i suoi candidati stanno intorno al fatidico 40% in molte città, siamo lunico partito nazionale.
«Molte città», si badi bene, non «molti comuni»Di fatto, la somma dei voti che vanno al Pd nei comuni in cui «i suoi candidati stanno attorno al fatidico 40%» non arriva neanche a un decimo a quelli raccolti dai candidati che ha presentato a Roma e a Napoli, dove stanno a poco meno o poco più della metà, arrivando solo per un pelo al ballottaggio, nel primo caso, e neppure a quello, nel secondo. Tranne che a Rimini, Caserta, Cagliari e Milano, dove guadagna pochissimo, il Pd perde voti ovunque rispetto alle precedenti Comunali, con un calo percentuale medio del 5-6%, fino un massimo del 18% (Carbonia), mentre il calo di voti medio si attesta intorno al 23%, con una punta massima del 56% (Latina). È una batosta che andrebbe ammessa, signora mia, ma limpostore vanta una tenuta che non cè stata, limitandosi a dire che si aspettava di più, quasi che avesse vinto, ma, aspettandosi di stravincere, non possa dirsi pienamente contento. Però si consola coi risultati degli avversari...
Cinque Stelle che canta vittoria governa in appena 17 comuni (compresi espulsi, sospesi e disconosciuti) su ottomila, cui vanno aggiunti altre quattro municipalità ieri. Il movimento di Grillo e Casaleggio è andato al ballottaggio in venti comuni sui 1.300 in cui si votava.
Cinque Stelle si presentava solo in pochi comuni. Molti di più di quelli in cui si presentava alle precedenti Comunali, segno di ma lenta ma progressiva presa sul territorio, che mira a coprire tutta lItalia. Lasciando da parte ogni giudizio di merito, per un movimento politico che fino a pochi anni fa non aveva neanche il suo simbolo sulle schede elettorali, è uno strepitoso successo che può essere ridimensionato solo trascurando la crescita che gli è alle spalle. Discorso uguale e contrario a quello del Pd: si può negare il suo declino solo trascurando che Dc e Pci arrivavano insieme a oltre il 70% dei voti, che Veltroni è arrivato a prenderne un massimo di dodici milioni e dispari, mentre già il Renzi delle Europee toccava a malapena di undici. Discorso che ovviamente non tiene conto dei contesti e delle variabili, ma in sostanza è proprio questo che fa Renzi nel dare un quadro gramo dellodierna situazione dei Cinque Stelle. Risibile, poi, il richiamo a «espulsi, sospesi e disconosciuti», con un Pd che tra amministratori indagati e sotto processo batte il record che era del Psi ai tempi di Mani pulite.
La Lega crolla, Salvini sta sotto il 3% a Roma ed è doppiato da Berlusconi a Milano, doppiato! Forza Italia esiste ancora e ottiene risultati positivi a Napoli, Milano, Trieste. Ma scompare da Cagliari a Torino, da Bologna a Roma.
Sta di fatto che proprio i pessimi risultati ottenuti dalle forze che prima erano del Pdl sono un importante stimolo alla riaggregazione in un cartello che gli istituti demoscopici danno poco al di sotto o addirittura poco al di sopra del Pd. LItalia non è mai stato un paese di sinistra, e forse non lo sarà mai. Daltronde è proprio la frenetica corsa al centro che il Pd ha iniziato con Renzi a dar ragione di un elettorato di nuovo pronto, dove se ne presenti loccasione, a mandare a Palazzo Chigi un leader del centrodestra che non sia mezzo morto come Berlusconi, non sia troppo inquietante come Salvini e non sia poco convincente come Meloni. Trovarlo non sarà facile, certo, ma ripetute prove di fallimento a marciare disuniti possono essere il miglior pungolo a ritrovare unintesa. Soprattutto se Parisi, dato per sicuro perdente appena uno o due mesi fa, dovesse battere Sala. Cosa non impossibile, a quanto pare.
La sinistra radicale che per mesi ci ha spiegato come funzionava il mondo non entra in partita né a Roma, né a Torino dove aveva scommesso tanto.
Ma è pronta a votare Raggi contro Giachetti e Appendino contro Fassino, anche se non può ammetterlo esplicitamente. È probabile che in parte finirà perfino per votare Parisi contro Sala, pur di insegnare a Renzi che sa come funziona il mondo e nei casi estremi vi si adegua.
Ma una volta che abbiamo fatto questa lunga analisi del voto...
Lunga? Sbrigata in poche battute, quasi per eluderla.
Una volta che abbiamo fatto questa lunga analisi del voto, per me cambia poco perché non è che “mal comune mezzo gaudio”: continuo a non essere contento.
E ci sarebbe mancato solo questo. Bastava contare quante volte ha deglutito in conferenza stampa. Dopo venti minuti scarsi, già premeva perché si levassero baracca e burattini. A quella che seguì le Europee era fresco e tosto fino allultimo minuto, e soprattutto si presentò da solo: qui ha avuto bisogno della compagnia dei due vicesegretari, del presidente e della responsabile degli enti locali. Quando vince, ha vinto lui. Quando perde, ha perso il partito.
A Napoli città il PD praticamente non cè dal 2011: finita la fase del ballottaggio proporrò alla direzione un commissariamento coraggioso.
E così si liquida la trombatura di una candidata che hai scelto tu? Così si liquida la sconfitta in una città dove hai speso il massimo per ottenere il risultato, da segretario del partito e – vergogna – da presidente del consiglio? La città laboratorio che doveva testare lalleanza con Verdini. Che cè da commissariare che non lo fosse già da prima?
A Roma Giachetti ha fatto mezzo miracolo a riportarci al ballottaggio: non escludo che riesca a fare anche laltro mezzo, ma deve recuperare dieci punti di svantaggio. Olimpiadi, sicurezza, capacità di guidare una macchina complessa come il Comune di Roma: se la giocheranno su questo. Temi amministrativi, insomma, non di politica nazionale.
Insomma, se Giachetti perde, sia chiaro che ha perso solo Giachetti.
Che non sia un dato nazionale, del resto, si vede chiaramente dalla geografia: zone anche limitrofe vedono risultati molto diversi. È ovvio. Gli italiani sanno votare, sono liberi, scelgono di volta in volta. Fanno zapping in cabina elettorale perché non è più tempo di indicazioni dallalto dei partiti.
Per questo il signorino si appresta a far votare ancora una volta la fiducia su una legge elettorale che fa del Parlamento un accrocchio di cooptati. Buona, la metafora dello zapping, ma per uno spettacolo a reti unificate, tale da allontanare lo spettatore dalla tv.
E quindi può accadere di tutto, come in realtà è accaduto a questo primo giro. Dunque: onore ai sindaci eletti al primo turno, in bocca al lupo a chi corre per il secondo giro e un caloroso abbraccio a chi continua a urlare “Ho vinto!” anche quando la realtà dice unaltra cosa. Ma proprio perché non sono come gli altri a me la scenetta di dire che “abbiamo non perso” non è mai riuscita e non riuscirà mai. Possiamo e vogliamo fare meglio, lo faremo. Punto.
Come si è visto, non siamo di fronte allimpostore che ci invita a condividere la menzogna nella quale si è rinserrato per proteggersi da una realtà sgradevole: si tratta di un mascalzone patentato, che mente sapendo di mentire, e non si fa scrupolo di renderlo manifesto. Anche Berlusconi era così? Può darsi, ma una differenza cera, e non era irrilevante: quando i fatti si incaricavano di spalmarlo di pece, coprirlo di piume e dargli fuoco, strepitava come un ossesso; Renzi si atteggia a étoile ne LOiseau de feu.

[...]

Mi tocca fare ammenda per due svarioni.

1. In uno scambio con Olympe de Gouges, nella pagina dei commenti a Non è un infortunio logico, è un «“clic” psicologico» (Malvino, 28.5.2016), ho fatto cenno a «lultimo Engels, quello dellintroduzione alla prima ristampa di Lotte di classe in Francia, del 1895», con implicito rilancio della vulgata di una sua revisione critica delle tesi esposte in quellopera. Vulgata infedele, perché, come Olympe de Gouges non ha mancato di illustrarmi con ampia documentazione (Breve storia di una falsificazione - diciottobrumaio, 31.5.2016), il testo di Engels subì pesanti alterazioni sotto pressione di Richard Fischer, che per conto della direzione del Partito socialdemocratico tedesco ne chiese e ottenne modifiche che consentirono di presentarlo come una sconfessione della pratica rivoluzionaria in favore dellopzione riformista. Devo confessare che ignoravo tutto questo, anche se si trattava di cosa che poi ho scoperto essere relativamente nota: è che la fonte da cui attingevo (Editori Riuniti, 1987), sebbene di parecchio posteriore alla scoperta del carteggio Engels-Fischer che aveva consentito di ricostruire in modo esatto i termini della faccenda, non ne faceva alcun cenno, avallando il falso del «vecchio compagno di Marx torn[ato] a riconsiderare autocriticamente alcuni errori commessi […] in sostanza demol[endo] quelli che nella biografia intellettuale sua e di Marx erano stati alcuni dei capisaldi dei loro scritti giovanili […] Quello che in particolare cambia in radice nella nuova prospettiva è il rapporto tra movimento operaio e socialista e legalità democratica» (Angelo Bolaffi). Non posso far altro che chieder scusa al lettore. Certo che però pure quellEngels... Un socialdemocratico ti chiede di ammorbidire i toni e tu che fai, lo assecondi? Uno se li immagina tostissimi, ’sti marxisti, e invece? Vabbè, come non detto, lerrore resta tutto intero, e mio.

2. Altre scuse al lettore sono dovute per quanto ho scritto nel primo capoverso del post qui sotto (La rete ci renderà stupidi? - Malvino, 6.6.2016). Formulo laddebito nel modo in cui mi è stato contestato in uno dei commenti: «Mi pare che lei, per opporsi alla cervellotica accezione [che Luca] Sofri [dà di watchdog], lo segua sullo stesso terreno». Riconosco giusta la critica, soprattutto per aver ceduto all’impiego di unargomentazione che, a torto, ho ritenuto congrua, senza sottoporla al vaglio del buon senso. In altri termini, mi ritengo in fallo per non essere riuscito a dimostrare che la risemantizzazione di un termine azzera il significato che gli assegna letimo e ne modifica la valenza metaforica. Ma su questo tornerò prossimamente, augurandomi di saper trovare argomenti più persuasivi, e comunque meno infelici. 

lunedì 6 giugno 2016

La rete ci renderà stupidi?


Wikipedia dice che watchdog significa cane da guardia, ma trascura di affrontare la questione della risemantizzazione del termine nelluso che se ne fa per definire il ruolo che la cultura anglosassone assegna al giornalista. Watch, infatti, significa guardare, che in senso estensivo copre adeguatamente laccezione del tener docchio e dunque anche quella del far la guardia, ma più generalmente sta a indicare un osservare cui venga posta quella particolare attenzione che trascende dalla mera sorveglianza in funzione di difesa della casa o del gregge (comè nel caso di «watch out!», che è un «fai attenzione!» non necessariamente finalizzato al «keep guard» di un bene o di un territorio) e che dunque, riferito a dog, non rimanda necessariamente al cane che abbaia o morde il postino, e neppure a quello che coadiuva il pastore, assumendone la stessa qualifica. Watchdog, perciò, è più propriamente il cane da caccia, nella sua variante da ferma o da punta: il cane che si limita ad avvertire il cacciatore della presenza della selvaggina. Nelluso che il termine assume in ambito giornalistico, dunque, assume il significato del soggetto che svolge il ruolo di richiamare lattenzione dellopinione pubblica su ciò che questa può essere interessata a mettere nel mirino e a colpire.
Niente a che vedere, insomma, col cane riguardo al quale ci sarebbe da chiedersi, come si chiede Luca Sofri, se sia chiamato a «protegge[re] il potere dai malintenzionati», ipotesi che tuttavia tende a scartare, o a «protegge[re] qualcosa dal potere» (ritenendolo tendenzialmente «malintenzionato», pur «rimuov[endo] i dubbi sul diffuso uso generico e demagogico della parola “potere”»), per finire con lo scartare anche questa e perdersi in congetture prossime al delirio: «Quello che si vuol dire [col termine watchdog] è che un giornale, o il giornalismo in genere, deve essere una specie di sorvegliante nei confronti di qualcuno: di secondino nel peggiore dei casi, di guida e controllore nel migliore. Bada al singolo ladro (tant’è vero che lo ha già individuato, “il potere”), non alla potenziale refurtiva. Non è lì per impedire un attacco di nemici esterni, ma per tenere a bada che nessuno all’interno si comporti male. Non è un cane da guardia, ma piuttosto una via di mezzo tra un cane da cieco e uno di quei cani usati per intimorire i prigionieri: insomma, non è la metafora giusta – volendo rimanere nello stesso ambito, forse “tenere al guinzaglio il potere” avrebbe più senso – ma evidentemente a qualche punto della storia qualcuno l’ha introdotta e poi nessuno si è più fatto domande. Anche perché per fare il cane da guardia, devi avere avuto un’investitura: qualcuno ti deve avere mostrato la casa e averti detto “bada che nessuno la tocchi”: un giornale che si vede “watch dog” invece si nomina protettore di un’idea arbitraria di bene comune dagli attacchi del “potere” (che viene descritto malintenzionato e malfattore per definizione). Con due rischi. Il primo è quello che riguarda ogni ruolo poliziesco: di vedere ovunque il male e dare per scontato di essere il bene (un giornale “sinonimo di battaglia politica e civile” difficilmente aiuterà a capire il mondo). Il secondo è di trasformarsi esso stesso – molto più pretestuosamente del potere politico, che almeno è legittimato democraticamente – in un potere assai maggiore: come sanno i postini, che la posta la devono consegnare».
Un gran bellimpiastro di meditabonda chiacchiera, insomma, per giunta a contestare quanto nelluso del termine è attribuito a chi, usandolo, ha dato spunto a tanta cataratta di spropositi (Carlo De Benedetti intervistato da Salvatore Merlo, per Il Foglio), e tutto a partire da un approccio paurosamente acritico con quanto Wikipedia spiattella ai suoi fruitori. In tal senso sembra che Luca Sofri possa tornarci utile almeno a trovare una risposta alla domanda che si fa Derrick de Kerckhove (La rete ci renderà stupidi? - Castelvecchi, 2016): non necessariamente, direi, però già dà una mano a chi ci è portato di suo. 

Provate a mettervi nei panni di un Ocone


Provate a mettervi nei panni di un Ocone... Fermi lì, mi avete frainteso... Via quel costume ricoperto di piume, via quelle pinne e quel becco giallo, non vi invitavo a un ballo in maschera... Parlavo di Corrado Ocone, lultimo dei crociani in unItalia che ormai di Croce si rammenta solo ai decennali della nascita e della morte, per giunta spicciando la faccenda in modo sempre più sbrigativo, e sempre per ribadire che il suo sistema filosofico è ormai inservibile. Ecco, immaginate che su quel sistema filosofico siate rimasti solo voi a passare la cera, a tappare con lo stucco i buchi lasciati dai tarli, e dite: non vi brucerebbe tremendamente il culo a non vedervi fra gli invitati a presentare un volume su Croce e Gentile?
Non assumete quella posa da intellettuali insensibili alle lusinghe mondane, siate sinceri: vi brucerebbe, eccome. Eccheccazzo – starnazzereste – viene invitato Canfora, e Ferroni, e Vacca, e Ciliberto, che al netto delle buone maniere so quattro comunisti di merda, e io, crociano che più crociano non si può, trattato come il figlio della serva?
Ok, forse non proprio in questo modo, ma che direste? Star zitti e fingervi contegnosamente distaccati, convengo, non sarebbe da crociano: se avete speso la vita in devozione a Croce, almeno un po del narcisismo che lo gonfiava deve per forza avervelo insufflato. Poi cè che, se invitati, vi sarebbe stata offerta loccasione per sparlare di Gentile... Chissà che in sogno non sareste stati gratificati da un don Benedetto che mettendovi una mano sulla spalla vi avrebbe detto: «Guaglio, me fatte allicria’! L’hai scamazzato, a chillommemmerda!».
E invece niente: Canfora sì, Vacca pure, e voi niente. Non vi resta che polemizzare. Polemica garbata, però, mi raccomando, non sia mai detto che difettiate di idealismo.

venerdì 3 giugno 2016

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Mancano pochi mesi al 40° dellesordio televisivo di Roberto Benigni, e io ho un ricordo assai nitido di quella serata, perché il personaggio di Mario Cioni da lui interpretato in Onda Libera fu oggetto di unaccesa discussione tra me e mia madre. A lei quel contadino non dispiaceva, trovava avesse una vena di malinconico surrealismo che prometteva bene. È probabile, quasi certo, che non dicesse proprio «malinconico surrealismo», ma, insomma, il senso era quello.
Da subito, invece, a me diede il fastidio che in questi 40 anni non è mai venuto meno, e che anzi è diventato sempre più molesto, fino alla nausea che mi hanno inflitto proprio le sue prove più applaudite. Per dire, ho trovato insopportabili La vita è bella, Tutto Dante, La più bella del mondo, I dieci comandamenti, e di tutto quello che è venuto prima (Il piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Pinocchio, La tigre e la neve, ecc.) salverei dal cesso solo Non ci resta che piangere, e solo per rispetto a Massimo Troisi. Ma il peggio del peggio mi è sempre sembrato il Benigni delle ospitate donore, quello che strizzava le palle a Pippo Baudo e palpeggiava il culo a Raffaella Carrà, tra cretini ordinari a sbellicarsi in platea e cretini di rango a definire geniali quelle pagliacciate, il giorno dopo, sulle prime pagine dei quotidiani. Non mi è mai sfuggito, tuttavia, anzi ho sempre avuto dolorosamente presente, dolorosamente e rabbiosamente presente, che il successo di un viscido ruffiano è sempre pienamente meritato se tributato da un paese di merda: i pidocchi prosperano dove cè forfora, il conformismo di sinistra è sempre stato lhabitat elettivo di certa gente di spettacolo, poco importa se nellhumus si muovessero da simbiotici o da saprofitari.
È per questo che la giravolta di Benigni sul referendum che si terrà ad ottobre non mi stupisce, e anzi mi torna a conferma – sia per la decisione di farla, sia per lamarezza che sembra aver inflitto a tanti – di quanto ho più volte scritto su queste pagine: il popolo del «se lavesse detto/fatto Berlusconi, saremmo tutti a manifestare in piazza» è ormai perdente rispetto a quello del «Renzi sarà pure la continuazione di Berlusconi con altre chiacchiere, ma è il segretario del partito che comunque non possiamo non votare». Laltrieri erano una cosa sola, e da quella Benigni raccoglieva a piene mani, ma oggi sono alla conta, e Benigni è costretto a decidere, da marcatore di una mutazione che è del conformista di sinistra, prim’ancora che del Pd di Renzi.

giovedì 2 giugno 2016

Inizia con la “k” e ha 110 lettere


Giorni fa, su Libernazione, Dan Marinos scriveva di avere «l’impressione che Il Post abbia drasticamente calato la qualità del servizio offerto». Non riuscendo a figurarmi una qualità più bassa di quella che due o tre anni mi spinse a cancellare Il Post dalla lista del mio feed reader, sono andato a curiosare. Bene, posso dire che il giudizio di Dan Marinos è ingeneroso: nessun calo di qualità, Il Post è sempre lo stesso, forse solo un po più appesantito di réclame e marchette. Mi pare che la formula non sia affatto cambiata: pesca a strascico dal web, con tutti i limiti e gli infortuni del caso, a dispetto della spocchia esibita da chi lo dirige nel dare la lezioncina sulla verifica delle fonti. Un caso emblematico è quello del post che intenderebbe fornire al lettore la nozione del «luogo geografico con il nome più lungo del mondo», che «inizia con la “t” e ha 85 lettere» (Il Post, 2.6.2016): pescato sul web, dove infatti non si ha traccia di quello riprodotto qui sopra (da Il senso del Tingo, Rizzoli 2006 – pag. 204), che con 110 lettere lo batte. 

Ci vuole pazienza

Anche se lo sfizio di commentare Il Foglio mi è passato da tempo, oggi non posso trattenermi dall’intrattenermi su una cosina pubblicata a pag. 2, la più interessante di tutto il numero oggi in edicola: parlo della letterina con la quale l’onorevole Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, annuncia di aver presentato in Cassazione, insieme ad altri suoi colleghi, il quesito referendario per abrogare la prima parte della legge sulle unioni civili, certo di poter contare sul sostegno del giornale, che pure si è sempre dichiarato contrario a questo passo fin da quando, mentre ancora la legge era discussa in Parlamento, ne era ventilata l’ipotesi. Motivo di tale certezza? «Noi foglianti non ci siamo mai fatti intimorire dalla forza degli avversari, né fermare dal calcolo delle possibilità di vittoria». Riandando ai referendum del 2005, alla giravolta che sul calcolo di Ruini portò Il Foglio dal no all’astensione, si resta senza parole: sarà che l’onorevole è un candido o è un cinico? Probabilmente falso candido e vero cinico.


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Rifugiato in India da 57 anni, il Dalai Lama dice che i rifugiati dovrebbero rimanere solo per poco nel paese che li ospita. È un capo religioso, dunque gli è consentita una faccia di culo.

mercoledì 1 giugno 2016

Un sospiro di mestizia

Leuforia della scoperta scientifica tende sempre a dare un aspetto allettante a quanto si è scoperto, e questo è largamente giustificato, perché arrivare a comprendere qualcosa che prima non si comprendeva è il primo passo per cercare di metterci mano, per cambiarla, se è il caso, traendone vantaggio. Talvolta, tuttavia, leuforia è un riflesso condizionato: ci viene rivelato qualcosa che non è per niente allettante, cui sembra pressoché impossibile mettere mano, ma i toni coi quali si dà notizia della scoperta sono comunque entusiastici.
Così accade con la scoperta di «una firma strutturale e funzionale dellattività cerebrale di ciascuno di noi» (Le Scienze, giugno 2016 – pag. 17): studi sullattività cerebrale umana effettuati mediante scansione per risonanza magnetica rivelano che ogni individuo ha una sua specifica configurazione di attività neuronale, che trova ragione in una specificità sia anatomica che funzionale, e che è ben distinguibile sia nel compiere alcune azioni che nel non compierne alcuna.
Presto ancora per dire come ciascuno giunga ad acquistare questa firma inimitabile, ma non è azzardato supporre che come al solito vi sia il concorso di patrimonio genetico e ambiente. Di fatto, sembrerebbe lecito affermare – ed Edoardo Boncinelli, che firma larticolo, non fa fatica ad ammetterlo – che, per «poter essere diverso in azione, il mio cervello deve essere in potenza diverso da qualsiasi altro». Ragioni per rallegrarsene non mancano: è cosa che «ci salva dalla noia e dallo squallore del branco senza animazione». Ma è pure cosa che «non favorisce una placida intesa reciproca», si concede. Cedendo troppo alleufemismo, direi, perché viene a vacillare il fondamento di una logica che possa dirsi fattore specie-specifico. 
Certo, sapevamo che la logica fosse un’invenzione e non una scoperta. Sapevamo che 5-6000 anni fossero troppo pochi per farla diventare una protesi fissa. Ma sia consentito un sospiro di mestizia.

martedì 31 maggio 2016

Giovanotto


Giovanotto, oltre che un mostro, lei è un grande scostumato, sa? E che, si fa così? Confessare prima di aver dato modo a Chirico, a Manconi, a Cerasa e al resto della compagnia di potersi attivare? Sulla coscienza lei non ha solo uninnocente, ma pure una bella carretta di innocentisti, si vergogni.   

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La scritta in nero dallallineamento incongruo allondulato del supporto, lo strafalcione che storpiava «fin» in «fine»... Un fake davvero grossolano, inevitabile fosse smascherato in fretta, e infatti così è stato, ma nessuno ha pensato ad avvisare Giuliano Ferrara. 



La scorta a Saviano e quella a Verdini

Le polemiche di recente innescate dalle dichiarazioni del senatore DAnna, secondo il quale non avrebbe ragion dessere lassegnazione di una scorta a Saviano, mi hanno fatto venir voglia di sapere a chi altri ne sia assegnata una. In una lista aggiornata al 2013 (ripeto: 2013), nella quale figurano i nomi di giornalisti come Vespa, Fede e Belpietro, di politici come Formigoni, Angelucci, Scajola, Ghedini, La Russa, Cicchitto, Alemanno, De Mita e Santanchè, e di esponenti del mondo imprenditoriale come Marcegaglia, Cordero di Montezemolo e Berlusconi (Silvio e Paolo), ho trovato anche quello di Verdini, leader del gruppo parlamentare di cui DAnna è membro. A onor del vero, occorre dire che Verdini si è tempestivamente dissociato dalle dichiarazioni di DAnna, ma questo non mi fa smettere desser curioso sulle ragioni che abbiano reso necessario assegnargli una scorta, della quale, a dar fede al pettegolezzo, pare tuttora goda. Cè qualcuno che sappia quale sia il pericolo che ne mette a rischio lincolumità fisica? 

lunedì 30 maggio 2016

Interpretare / 1

Non ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora, a mo’ di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico – aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla magistratura l’accusa di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.



1. I problemi posti dall’«interpretazione» sono già tutti impliciti nellincertezza che a tuttoggi resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per «tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe «negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe «esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per «mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo», «medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione della notevole plasticità che assume il significato dell’«interpretare», al pari di ciò che accade col «tradurre», termine che gli è affine sia nell’accezione che fa dell’«interprete» colui cui spetta «trans-ducere» un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è nel caso di una commedia o di un brano musicale. Questaffinità tra «interpretazione» e «traduzione» spiega perché all’«interprete» e al «traduttore» venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare» e a «tradurre». È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata, perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità: Johann Sebastian Bach è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue composizioni; per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove potesse, daltra parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne richiama questo o quellarticolo manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel caso di una legge, per esempio, quest’autorità è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il criterio di «interpretazione», indispensabile allapplicazione della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da «interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a «interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza, perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui «significato proprio», «secondo la connessione di esse», può risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una «interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi lha scritto avrebbe preteso fosse. 

[segue]