[Oggi
questo blog compie 15 anni. Avrei voluto festeggiare ripubblicando
qualcuna delle prime pagine di quel marzo del 2004, ma nessuna mi è
parsa degna di essere riproposta al lettore. Così mi son deciso per
un ritratto, quello di Enrico Pea. Doveva inaugurare un blog che,
nelle intenzioni, voleva avere il composto sussiego dell’elzeviro.
Intenzioni subito tradite, per la polemica. Tanto stia a rimpianto e a
rimorso.]
«Ha
dei momenti che ti sorprendono per densità, proprietà, violenza,
vastità di azzurro, per un’umanità intagliata in una parola
tutt’ancora umida di terra, e brillante di rugiada, come un’erba
spuntata a ridere nel sole, una mattina bella»,
scriveva
Giuseppe Ungaretti in una lettera a Giovanni Papini nel 1916, dalla
sua trincea. Scriveva di Enrico Pea, nato a Serravezza, in quel di
Lucca, nel 1881, e conosciuto poco più d’un lustro prima, ad
Alessandria d’Egitto. Ma nella stessa lettera avvisava che, «se
si mette in testa di essere prelibato, fa il mistico da strapazzo, ed
è un affare brutto; ma quando è quello che è, senza pretese, senza
intellettualismi, e se solo si racconta…».
Ne
aveva da raccontare, Enrico Pea. Ancora analfabeta a quindici anni,
in un’Italia dove tanti rimanevano tali a vita, Pea va via dal
paesino a fare il guardiano di greggi, e poi il mozzo, per poi
emigrare in Egitto, a fare il domestico, il meccanico, il ferroviere,
l’importatore di vini, saponi, motori e marmi pregiati, fino alla
malattia che lo costringe a lungo in un letto, con una Bibbia del
Diodati in mano, ad imparare a leggere e a scrivere, infine, quasi
folgorato. Come una specie di Ignazio a Pamplona, lo avvampa la
passione, che però è letteraria, grossa d’un entusiasmo da
scalpellino e disordinata come un’officina, non senza qualche
rovinoso inciampo d’autodidatta.
Per
interessamento di Ungaretti che n’è incantato come della riuscita
d’un innesto, nel 1910 esce la sua prima stampa, Fole,
racconti di vita marinara, come declama il sottotitolo. Ma la
scrittura, al momento, pare soltanto accidente, pur negli incubati
bagliori d’una lingua avvampante. La passion predominante è, al
momento, politica, anzi, come si direbbe oggi, prepolitica, e perciò
totalizzante. A quella scrittura, per il momento, crede solo
Ungaretti, che continuerà a crederci, con le dette riserve, fino ad
impegnarsi sulla parola con Gherardo Marone, direttore della Diana,
per la causa del romanzo Moscardino
che uscirà nel 1922: «Sarà
l’opera più bella che pubblicherai». Sarà
senza dubbio il capolavoro di Pea.
Il
Pea che nel settembre del 1950 scriverà un terribile «sono
al caffè solo solo solo»
in una delle sue cartoline postali a Leone Piccioni, massimo studioso
della sua penna, al momento è preso invece dal turbine mondano. Crea
la Baracca
rossa,
che è un ritrovo e un caffè letterario e una comune e una sezione
ereticissima e un bivacco d’esuli e un falansterio amoroso: insomma
un covo di anarchici, ex galeotti e bizzarri promiscui. È lì che
Pea affina le sue stregonesche virtù di empatia; penetra nelle
altrui confessioni e vi rimesta; raccoglie sfoghi, rassetta umori;
impara l’arte inutile ed eccellente dell’incantar l’eterno
femminino. Questa magica aria di guru gli resterà appiccicata per
tutta la vita e ad ogni tavolino di caffè, ad ogni panchina, la sua
parola avrà credito inarrivabile. È di buona statura, con gradevoli
tratti del volto, incorniciato da una importante barba nera, occhi da
spiritato con dolcezze di furbizia afroditico-mediterranea; ha
mobilità di faina, naso per gli affari, che conduce con a volte
spregiudicata e sofistica astuzia, probabilmente con qualche facile
rudezza.
Alla
Baracca
rossa
fermentano idee, spesso innaffiate di ottimi vinelli della Versilia,
in un crepitare confuso e vivissimo di lingue e umori. Né a questo
si limita la cosa cui Enrico Pea dà i suoi anni africani: vi si
discute di attentati dinamitardi, di azioni di sabotaggio, di
solidarietà a lontani fratelli. Vi aleggiano tentazioni evocative,
in primis i Demoni
di Dostoevski, con esaltatissime blasfemie da poveri anticristi
bakuniani e peggio.
Poi
torna in Italia, Enrico Pea, e si fa conoscere. È «quello
lì»
che nel 1918 ha scritto una pièce teatrale dedicata a Giuda, un inno
appassionato e allucinato al traditore di Cristo; la cosa ha
sollevato scandalo, anche se non sommo, ma neppure senza qualche
strascicuccio molesto. Eppure, in quelle battute di scena serpeggia
un mezzo motivo borgesiano, per quanto rovinato da un becero
anticlericalismo di appennino. È appena nel mezzo del cammin, come
si dice, morirà nel 1958, a settantasette anni. Prima di finire i
suoi giorni a Forte dei Marmi, avrà un’altra mezza vita da
riempire di vagabondaggi, amicizie, rovesci finanziari, nipoti,
bronchiti, conversione, decine di libri.
Tra
questi, primo d’una trilogia (con Il
Volto Santo
del 1924 e Il
servitore del diavolo del
1929), che alcuni dicono tetralogia (aggiungendo Macoometto
del 1942), è il Moscardino
che esce nel 1922, ma al quale Pea ha lavorato per almeno un lustro.
Del breve romanzo autobiografico, che resta la sua opera maggiore e
che Ezra Pound crederà utile tradurre in inglese, Italo Svevo scrive
in una lettera a Benjamin Crémieux, nel marzo del 1927, che è «un
libro veramente strano e mirabile, certe sue pagine sono di una forza
e di un’evidenza
che fanno invidia».
Ma
cos’ha la scrittura di Pea per emanare tanto fascino? È la
scrittura del dilettante sublime, sarebbe la più tentatrice delle
ipotesi. La parola, in effetti, vi si stende, al contempo, plebea e
nobile, in una stravolta dissipazione che è l’ordine suo. Parrebbe
asciutta, la parola di Pea, come un rizoma sradicato per essere
piantato in aria, come l’epifania d’una edicola votiva in terra
di lavoro, apparentemente sorretta dalle vanghe e dalle zappe lì
poggiate. Ma è lo stesso Pea che tenta, riuscendovi, di darle il
fascino della cosa appena dissotterrata da un amoroso ingenuo.
«Imparare
a fare bene qualunque qualcosa è difficile noviziato»,
scrive
in Rosalia;
e parla dello scrivere come di uno «stendere
le parole sulla carta».
Già non è più il Pea africano, ora ha una scrittura linda e
solida, ma stralunata e seduttoria; vi risuona l’eco della
confidenza mercantile, dell’apostrofe domestica. Cecchi, Bo,
Montale, Pratolini e cent’altri ne dicono un gran bene. La barba
con gli anni gli si imbianca e arruffa. Sempre in giacca, anche
d’estate, anche in groppa alla sua pesante bicicletta, la vecchiaia
lo raggiunge a Forte dei Marmi, dove morirà.
Se
una fotografia può dire tutto di un uomo, il creatore di Moscardino
è dentro una che lo ritrae al Caffè
Roma
in ottima compagnia. È al centro della foto, seduto tra una ventina
di persone, in maggioranza signore, coll’indice levato in aria, non
si capisce bene se per un monito; poco oltre Giuseppe De Robertis,
Carlo Carrà, Roberto Longhi ed Eugenio Montale. Sarà forse pura
suggestione, ma per chi ha letto Moscardino
quell’indice levato non è diverso da quello del San
Tommaso
di Caravaggio che ha finalmente capito Cristo. Il dito è ossuto e
quella piaga è irreparabilmente vulva.