Qualche anno fa, su queste pagine, ho scritto che «grattarsi il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base», ma che, «per grattarselo, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né che a conoscerlo ce lo si gratta meglio», e che lo stesso accade «con certi mezzucci retorici, che, volgari quanto grattarsi il culo, non hanno minore complessità, di cui tuttavia non c’è bisogno di aver piena comprensione per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta immediata ad uno stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la mano al culo, quando prude» (Grattarsi il culo – Malvino, 19.11.2014).
Introducevo a questo modo il commento a un post col quale Mario Adinolfi lamentava l’intolleranza di cui era stato fatto oggetto nel corso di un talk show andato in onda il giorno prima su La7: in sostanza, il pubblico in studio aveva sollevato vivaci obiezioni a certe sue affermazioni di schietta impronta omofoba, e la cosa lo aveva indignato. Avrei potuto introdurre il commento in altro modo, non c’è dubbio, ma ricorrere a Karl Popper per il concetto di «paradosso della tolleranza», a Chaïm Perelman per quello di «dissociazione delle nozioni» e a Otto Kernberg per quello di «vittimismo aggressivo», per Mario Adinolfi, francamente, mi sembrava uno spreco. Confesso, tuttavia, di essermi pentito più di una volta per aver liquidato in modo così superficiale una questione che invece avrebbe meritato una ben più seria riflessione.
L’uso istintivo di certi mezzucci retorici, infatti, solleva una serie di problemi assai più rilevanti di quelli sollevati da un loro uso consapevole e intenzionale, primo fra tutti proprio quello di dover stabilire, caso per caso, se esso sia istintivo o no. Caso per caso, dico, perché un mezzuccio retorico può scappare a chiunque, anche a chi in buona fede si dichiari acerrimo nemico di ogni fallacia argomentativa. D’altronde capita possa scappare perfino a chi si impanca a maestro di retorica come il Gianrico Carofiglio, che, nel corso di una puntata di Ottoemezzo andata in onda qualche settimana fa, giustappunto a un mezzuccio retorico è ricorso per difendersi dall’accusa di «cattivo gusto», mossagli da Alessandro Sallusti, per un tweet in cui aveva scritto che vedeva «una giustizia poetica» nel fatto che Donald Trump si fosse ammalato di Covid-19: «Quando io sento il direttore Sallusti parlare di cattivo gusto – ha detto – mi arrendo, perché so che è un esperto», ricorrendo così a una fallacia del tipo ad hominem tu quoque che poteva ardire a presentarsi come risposta decente solo per il piatto di presunzione di superiorità morale sul quale era servita. Ma di questa presunzione di superiorità morale, che ormai sembra essere il solo tratto distintivo certo della sinistra italiana, ho già detto l’essenziale nel precedente post, qui basti solo ribadire che è sentita – direi vissuta – come un privilegio che risparmia dal dover essere giudicati con lo stesso metro che si ritiene sia adeguato a condannare chiunque non faccia parte della eletta casta dei più buoni e dei più onesti per definizione, e cioè – ça va sans dire – loro. Se la cosa è appariscente soprattutto per i suoi tratti comici, messi in evidenza già oltre vent’anni fa dalla penetrante arguzia del Giorgio Gaber de Il potere dei più buoni (Un’idiozia conquistata a fatica, 1998), non vanno trascurati quelli tragici, lucidamente analizzati, qualche anno dopo, dal Luca Ricolfi del Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese».
Ecco perché il problema di stabilire quanto sia istintivo o meno l’uso di un mezzuccio retorico ne pone subito uno anche più grosso, che è quello di definire cosa, in quest’ambito, debba intendersi per «istinto», data l’estrema ambiguità del termine quando non è specificato in quale contesto cada: senza dubbio, come si può dire dell’«istinto» in generale, si tratta di un impulso che sfugge alla ragione e alla volontà. Questo, d’altronde, l’avevamo già dato come implicito con l’affermare che un mezzuccio retorico «può scappare a chiunque». Se, tuttavia, questo sgombra il campo dal pregiudizio morale che fa di ogni colpa un dolo, di ogni errore un peccato, di ogni ignoranza una nequizia, non resta comunque da chiedersi cosa sia a renderlo tanto più frequentemente sfuggevole proprio alla ragione e alla volontà che nella presunzione di superiorità morale si fanno certe di essere impeccabili? Ponendo la questione in termini assai più prosaici: con quale faccia di culo si può pretendere di essere moralmente superiori a chiunque non faccia parte della suddetta casta dei più buoni e dei più onesti, quando i soli argomenti portati a prova si rivelano infarciti di mezzucci retorici, e nemmeno dei più fini?
Vorrete un esempio, suppongo. Bene, prendete il Mantellini, che della presunzione di superiorità morale della sinistra italiana è un campioncino. Scrive che «uno degli aspetti maggiormente deprimenti di una situazione [quella della «crisi legata al coronavirus»] che già nasce difficilissima e che ha visto sgretolarsi ogni solidarietà e spirito di comunità di fronte agli interessi contrapposti» è «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano». A una lettura disattenta, sulla quale sarebbe malizioso credere che egli abbia voluto contare, la sensazione è quella di trovarci dinanzi a persona mite ed assennata, seria ed equilibrata, tanto-tanto-tanto responsabile e, soprattutto, con un altissimo senso del bene comune. Lo si legge, insomma, e in sottofondo si sente il Gaber che canta: «La mia vita di tutti i giorni / è preoccuparmi di ciò che ho intorno: / sono sensibile e umano, / probabilmente sono il più buono. / … / Ogni tragedia nazionale / è il mio terreno naturale, / perché dovunque c’è sofferenza / sento la voce della mia coscienza...», eccetera. Continuando a metterci la dovuta disattenzione, il testo sembra peraltro vibrare di una intensissima passione civile, che arriva addirittura a commuoverci nel punto in cui si prende atto con dolente amarezza che la beluina «contrapposizione politica» ha dato il più emblematico «segno della corruzione dei tempi» nell’essere riuscita a «coinvolg[ere] così direttamente la categoria medica». Così, giacché è anche medico (quando tutto il resto glielo consente), il Mantellini sembra offrirsi a noi doppiamente ferito, e dunque doppiamente bisognoso del balsamo della nostra calda simpatia: da cittadino al di fuori (se non addirittura al di sopra) della contrapposizione politica e da medico che rispetta quanto detta il Codice di Deontologia Professionale riguardo al «reciproco rispetto» tra colleghi (art. 58). Se alla lettura disattenta di questo post aggiungessimo non l’aver mai letto un tweet di Mantellini, saremmo sinceramente toccati. Questo, purtroppo, non ci è possibile, perché, finché non ci è costato troppo, i tweet di @mante li abbiamo letti e fin troppo spesso erano tutt’altro che al di fuori (tantomeno al di sopra) delle contrapposizioni tra le opposte fazioni politiche e le avverse opinioni cliniche. Insomma, robe del tipo «Salvini fa schifo», «perché continuano ad intervistare Zangrillo?», «governo di pericolosi incapaci». A dar fastidio, tuttavia, sia chiaro, non è tanto il fatto che il Mantellini sia un fazioso come se ne incontrano ad ogni angolo del web, perché a suo tempo Gaetano Salvemini ci convinse: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere». Quello che dà fastidio nel Mantellini – e qui torno all’incipit – è l’ostinazione a volerci fare una carezza con la stessa mano con la quale si è grattato il culo.
Quanto si è fuori (o al di sopra) della contrapposizione «fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano»? Basta chiedersi se «minimizzare» non faccia più congrua dicotomia con «esagerare», «pompare», «drammatizzare», «esasperare». No, qui fa dicotomia con un «sottolineare» che, alla faccia del salveminiano «mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità», è un «segnalare», un «rilevare», un «evidenziare». Benedetta, allora, «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media» dei medici di opposta opinione sul Covid-19, che almeno prendono una posizione e se ne assumono per intera la responsabilità. Il Mantellini, no. Il suo mezzuccio retorico rivela che sta ben dentro la contrapposizione, ma, chissà perché (si fa per dire), ci tiene a dirsene fuori. Però rivendica il diritto di poter dir la sua, pretendendo abbia maggior autorevolezza di quella altrui «per via di una ormai trentennale frequentazione con la categoria», che impasta eufemismo e reticenza per porgerci, con quello che probabilmente ritiene sia garbo, il suo «io sono medico, sapete?, voi no». Questa è la chiave che dovrebbe aprirci la porta ai misteri della professione medica cui il Mantellini ci introduce: «Non fatevi ingannare dai titoli. Essere primario o professore, avere un lungo elenco di pubblicazioni su prestigiose riviste o essere il medico personale di famosi miliardari, non significa granché. Soprattutto in Italia, dove la carriera del medico esattamente come tutte le altre professioni intellettuali, è sottoposta a un percorso di selezione nel quale influiscono stabilmente variabili non esattamente edificanti. Non dico che chiunque raggiunga i piani alti della gerarchia medica sia arrivato da quelle parti attraverso percorsi – diciamo così – discutibili, ma ecco, capita molto più spesso di quanto non si pensi. Talvolta in cima alla piramide gerarchica in Italia c’è semplicemente il peggiore, il più cinico e senza scrupoli. Molto spesso no. Essere in cima alla piramide, insomma, non definisce niente». In parte è vero, ma in parte no. Diciamo che il discorso vale solo per la sanità pubblica: nel privato la selezione è affidata esclusivamente al mercato. Comunque è chiaro il senso che il Mantellini vuol dare al colpo al cerchio e al colpo alla botte: il fatto che il professor Zangrillo sia un primario non dice niente della sua preparazione, perché a quei livelli sia arriva «talvolta» anche se sei il peggiore, ma questa, però, non è la regola, come dimostra il fatto che anche il professor Galli è un primario. Certo, dire esplicitamente che Galli è persona degna e Zangrillo è una merda suonava male, e non sia mai, meglio insinuarlo, al resto pensi il lettore.
Tutta malafede? No, saremmo ingiusti nel liquidare il post del Mantellini a questo modo. Diciamo che accanto a una discreta dose di malafede ce n’è una altrettanto grossa di superficialità, che deriva da un difetto assai più comune di quanto si creda nelle ultime infornate di maître à penser, che è il deficit dei fondamentali: la loro cultura è piena di buchi e le lacune più vistose sono proprio quelle che spiegano gli abissi di superficialità in cui spesso sprofondano le loro riflessioni. Nel caso del Mantellini che soffre a vedere in campo le opposte pattuglie di medici darsele di santa ragione, il deficit sta nel non riuscire a comprendere che in gioco non ci sono solo vanità e ripicche. Per meglio dire, la contrapposizione non è tra persone, ma tra ruoli, perché in campo, in realtà, non ci sono due pattuglie di medici, ma una pattuglia di ricercatori ed una di clinici: lo scontro non è tra cauti e temerari, ma tra le ragioni che da sempre oppongono ricerca scientifica e pratica clinica. Ragioni che sono antichissime. Al Mantellini basterebbe aprire l’Etica Nicomachea al settimo capitolo del primo libro per trovarle in nuce: «Un costruttore e un matematico indagano in maniera diversa l’angolo retto, cioè l’uno studia l’angolo retto solo per quanto è utile alla sua opera, l’altro indaga cosa esso sia o quali siano le sue determinazioni» (1098a, 50). Ovviamente non si può pretendere che il Mantellini legga Aristotele, non ha tempo: twitta, fotografa nuvole e tramonti, trolla la Ferragni... Cose così.