domenica 1 marzo 2015

I gonzi di una volta e i gonzi d’oggi

Può darsi sia l’età a ingannarmi, ma a me pare che i gonzi di una volta fossero più furbi dei gonzi d’oggi. Sempre gonzi erano, sia chiaro, ma mi sembra che sapessero difendersi meglio da chi intendesse infinocchiarli. Non di troppo, a dire il vero, ma mi pare che la differenza sia sensibile, e cosa faccia questa differenza, è presto detto: dinanzi a un tentativo di infinocchiamento non del tutto consentaneo, i gonzi di una volta presentivano d’esserlo, subodoravano – poi, semmai, serviva a poco, ma chi voleva infinocchiarli doveva metterci più impegno, e almeno la partita diventata interessante – mentre quelli d’oggi respingono con forza ogni presentimento, consentendo che l’infinocchiamento sia comunque efficace, e spesso allora non c’è partita. Direi che i gonzi d’oggi, insomma, siano più gonzi di quelli di un tempo perché peccano di un maggiore orgoglio e che questo – paradossalmente – dipenda dai deleteri effetti di quella che si è solita chiamare istruzione di massa, che poi è cosa che con l’istruzione c’entra poco, tanto meno con l’intelligenza, men che meno con l’intelligenza che riesce a dare la misura dei propri limiti, riducendosi per lo più all’acquisizione di quell’illusoria sensazione di una padronanza di se stessi che nei fatti accentua la vulnerabilità ai congegni persuasivi dell’infinocchiatore: il gonzo di una volta era ignorante, e sapeva di esserlo, e non aveva nessuna difficoltà ad ammetterlo, e questa consapevolezza si traduceva in una maggiore cautela; oggi, invece, il gonzo fa difficoltà ad ammettere i propri limiti anche se stesso, e ostenta sicurezza, con quanto ne consegue nel darsi interamente al proprio istinto, che ovviamente è l’istinto del gonzo.
Prendete, per esempio, la questione del volontariato. L’istruzione di massa ha convinto il gonzo che lo stato non può – e forse neanche deve – far fronte ai bisogni essenziali dei miserabili, e che a questo può – addirittura preferibilmente deve – supplire l’attività benevolente del volontariato, che tuttavia non può farsene interamente carico, sicché necessita di un aiuto, e da chi se non dallo stato? Al gonzo si fa credere che questo si traduca comunque in un risparmio, e il gonzo, oggi, ci crede. Al gonzo d’una volta, invece, mancava il concetto di sussidiarietà: alla richiesta di denaro pubblico per fare beneficenza avrebbe drizzato le antennine, fottendosene altissimamente di poter apparire cinico, ancor meno di rivelarsi ignorante sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi. Il gonzo d’oggi non se lo può permettere. 

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Tutto secondo natura, a quanto pare, ma mettendomi nei panni di un Ferrara o di un Adinolfi – diversa sartoria, ma stessa stoffa, stesso taglio, stessa taglia, stesso drop – la notizia mi dà una fastidiosa inquietudine: c’è questa depravata sovrapposizione di tempi che dovrebbero essere ben distanti, e poi, metti caso che la mamma abbia partorito anche solo un quarto d’ora dopo la figlia, viene a crearsi la vertigine di uno zio più giovane del nipote, e queste sono cose che in quei panni danno un irritante fremere di ciccia. 

giovedì 26 febbraio 2015

E so che suona come una bestemmia

Le schifezze che Matteo Renzi si rivela in grado di far approvare da un Parlamento, la cui maggioranza è stata eletta con un programma che non le conteneva, sono le stesse che erano nel programma di un centrodestra che non era in grado di farle diventare leggi, nemmeno quando stravinceva le elezioni, perciò, se Silvio Berlusconi riesce a mettere insieme il quanto basta per avere una concreta possibilità di battere Matteo Renzi, faccio un serio pensierino all’eventualità di dargli il mio voto, e so che suona come una bestemmia, non è il caso di farmelo presente, ma meglio sorbirsi in ascensore la scoreggia di uno che mangia solo topi morti o essere suo ospite a colazione?

Dedalo di specchi

Daniele Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno questa sembra l’operazione che affida a Bloom (Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un Omero che si riprende il suo Ulisse dal plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al testo e in 103 voci bibliografiche.  

L’avviso è il seguente

L’avviso è il seguente: «A partire dal 23 marzo 2015 non sarà possibile condividere pubblicamente immagini e video sessualmente espliciti o che mostrano nudità su Blogger. Le immagini di nudità sono consentite se il contenuto è di pubblica utilità, ad esempio in un contesto artistico, didattico, documentario o scientifico».
È uno di quei casi in cui legislatore e giudice coincidono e quindi ogni possibile interpretazione della norma non ammette contestazioni. Perché solo «immagini e video»? Se posto il file audio di un porno, altrettanto «sessualmente esplicito», non incorro in alcuna sanzione? E se il contenuto «sessualmente esplicito» sta in un testo scritto? E quali sono i parametri che delimitano i confini di ciò che è «artistico» rispetto a ciò che non lo è? Chi avesse l’intenzione di postare un ciclo di lezioni sul coito anale, naturalmente con supporto video, può legittimamente ritenersi in ambito «didattico»? Saremmo ancora in ambito «documentario o scientifico» con un post che avesse l’intenzione di smontare la bufala della minzione spacciata per squirting, giocoforza utilizzando spezzoni di film a luci rosse? E poi quand’è che «immagini di nudità» sono o meno «di pubblica utilità»?
Domande che naturalmente non ha senso porsi a priori, perché a posteriori ha forza di legge la discrezionale libertà di giudizio, che Blogger si riserva grazie all’inevitabile ambiguità della norma. Inevitabile perché la materia ha per sua natura contorni oggettivamente indefinibili, ma soggettivamente nettissimi, anche se pure la soggettività è estremamente mobile sull’oggetto in questione.
Penso sarebbe stato più onesto formulare l’avviso in questo modo: «A partire dal 23 marzo 2015 Blogger si riserverà di censurare quanto ritenga possa provocarle noie. Giacché il sesso, anche latamente inteso, è materia assai sensibile, comportatevi di conseguenza, ché non vi sarà consentito sollevare obiezioni. D’altronde la pagina vi è offerta a gratis, dunque cercate di non rompere il cazzo»

mercoledì 25 febbraio 2015

Massimo Fini, Una vita, Marsilio 2015

È il suo libro migliore, davvero molto bello, a tratti commovente, ma d’una commozione mai umida, mai ruffiana. Alla scrittura, da sempre d’ottima qualità, qui s’unisce la materia, ricchissima, estremamente varia, sapientemente ricomposta. Come per ogni autobiografia, e anche questa non fa certo eccezione, si potrebbe, volendo, star lì a perdere un’infinità di tempo a dissezionare e a catalogare reticenze che velano e iperboli che sparacchiano, ma la compiutezza del narrato fa passare la voglia: Massimo Fini si racconta e si fa prendere sulla parola. Una pessima copertina, occorre dire. Un sottotitolo fin troppo indisponente, che scimmiotta – chissà se ironicamente o no – lo Zarathustra nietzschiano, e dunque è civettuosamente depistante. Un indice dei nomi, poi, che in fondo a un’autobiografia sta sempre troppo come a piedistallo. Tolto questo, un libro eccezionale. Complimenti. E grazie.   

martedì 24 febbraio 2015

O-oh!

O-oh! A chi gli fa presente che sta a Palazzo Chigi senza essere passato per le urne, il Cazzaro risponde che la nostra è una democrazia parlamentare, e che il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma nominato dal Presidente della Repubblica. Non sono passati neanche due anni da quando, a Daria Bignardi che gli chiedeva: «Lei non vorrebbe governare questo Paese?», rispondeva: «Sì, ma passando dalle elezioni, non dagli inciuci di Palazzo» (Le Invasioni Barbariche, 17.4.2013): deve aver scoperto che non è indispensabile, ma solo dopo aver inciuciato il necessario. Ora – o-oh! – scopre che la nostra è una democrazia parlamentare, ma solo dopo aver scritto una riforma del Senato e una legge elettorale che riducono il Parlamento a un vidimatore di decreti del Governo, per giunta con l’obbligo di doverli vidimare prim’ancora di poterli leggere, sennò tutti a casa, e niente ricandidatura, perché nella lista bloccata c’entri solo se vuole il Segretario del Partito, che incidentalmente è pure Presidente del Consiglio: scopre che la Costituzione esiste solo dopo averla ignorata, il Cazzaro. Come in certi paesini siciliani, come presso certe tribù afghane: prima stupri la ragazza che ti piace, e poi la chiedi in sposa.

lunedì 23 febbraio 2015

Li accarezzava come figli




Volevo scherzare un po’ sulla faccenda confezionando uno di quei video della durata di uno o due minuti ai quali mi lascio andare di tanto in tanto, ma poi ci ho ripensato e ho buttato nel cestino tutto il materiale, salvando solo un fotogramma, quello che ho riprodotto qui sopra. La faccenda nasce dall’Ansa Magazine #49 dello scorso 17 febbraio, a firma di Michela Suglia, dal titolo Li accarezzava come figli (Viaggio tra libri e cimeli del fondo Fallaci), e in particolare dall’intervista al bibliotecario della Pontificia Università Lateranense, depositaria del lascito che Oriana Fallaci ha espressamente destinato a quell’ateneo prima di morire: «li accarezzava come figli» è frase che esce di bocca proprio a lui e, almeno nel contesto in cui è pronunciata, sembra che abbia a oggetto tutti i volumi della biblioteca della scrittrice.
Ora non è che io voglia mettere in discussione l’amore che la Fallaci potesse realmente avere per quei libri, ma credo che considerasse figli solo quelli scritti da lei, peraltro presenti in diverse traduzioni tra i 627 volumi del fondo, sicché è lecito pensare che quelli di altri autori non superino i 500-550. L’espressione, d’altronde, torna in due interviste del 1990 e del 1991 che è facile trovare su Youtube e in cui la scrittrice racconta, più o meno con le stesse parole, di come abbia inizialmente perso tempo prezioso nella sua lotta contro il cancro per dedicarsi alla traduzione in inglese del suo Insciallah, ma che non se ne pente, perché «tra me e i miei libri c’è un rapporto materno e, tra la propria salute e quella del proprio figlio, quale madre non sceglie la salute del proprio figlio?». Possibile che tale affetto fosse pari a quello riservato ai libri di cui era in possesso e di cui non era autrice? Non si può escludere, ma è più verosimile che la Fallaci abbia espresso lo stesso concetto anche al bibliotecario della Lateranense e che questi abbia equivocato l’affermazione come estesa a tutti i volumi della sua biblioteca.
Sia lecito stupirci, en passant, del fatto che fossero assai meno di quanti ci saremmo aspettati in possesso di chi posava a vestale della civiltà giudaicocristiana. Neppure sulla qualità dei volumi, poi, sembra si possano rilevare elementi notevoli, se il volume più prezioso è una malconcia copia del Delle rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina, per giunta in un’edizione posteriore alla morte dell’autore. Il valore del lascito, insomma, sembra tutto e solo nel fatto che questi libri siano stati di proprietà della Fallaci, e che qualcuno rechi qualche nota autografa, qualche altro un post-it a far da segnalibro. Il sospetto è che si voglia accrescerne il pregio spacciandoli come figli, mentre dei veri figli erano tutt’al più compagni di scaffale.

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Se non avesse rotto il patto del Nazareno, «errore blu» che lo ha lasciato senza uno «scudo» politico, ora Silvio Berlusconi non rischierebbe «la gogna della galera» che la Procura di Milano potrebbe infliggergli con una nuova accusa, quella di aver pagato i testi chiamati a deporre nel processo d’appello sul caso Ruby, «coriacea e subdola riproposizione del teorema dell’Arcinemico, del male assoluto, dell’uomo da sfasciare», che alla vigilia della pronuncia della Cassazione sull’assoluzione impone una «nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice», il che implica necessariamente «il “pentimento”, cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso».
Così Giuliano Ferrara (Il Foglio, 23.2.2015), ma chi vuol bene a Silvio Berlusconi può star sereno, perché a difenderlo, nel caso venga incriminato, sarà quasi certamente Franco Coppi, il quale si guarderà bene dall’inguaiarlo con argomenti così idioti. Provate a immaginare: «Signori della Corte, il mio assistito è chiamato a rispondere delle accuse che gli vengono mosse solo perché ha avuto qualche ruggine con Matteo Renzi, sennò col cazzo che il pm avrebbe osato metterlo in galera, sarebbe bastata una telefonatina e oggi non sarebbe in quest’aula, ma a riscrivere la Costituzione insieme al Royal Baby». C’è da supporre che il processo non avrebbe storia.

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Nel caso dei tweet di Gasparri in risposta alle dichiarazioni di Renzi sulla ventura riforma della Rai, c’è da rammaricarsi che, dalla preistoria ad oggi, la disputa a colpi di selce aguzza con la quale i nostri progenitori si sfondavano a vicenda il cranio sia diventata un inoffensivo scambio di battute: invece della povertà dei rispettivi argomenti sarebbe assai più edificante veder da quelle zucche schizzare la pupù, così non rimarremmo nel dubbio su quale ne contenga di più.

Dominus Iesus, 15 anni dopo

Al pari di ogni altro strumento, anche la parola muta nel tempo la specifica funzione per la quale è stata creata per l’ampliarsi o il ridursi delle occasioni in cui ne è richiesto l’uso. Così è per la vis che sta in violentus, dove l’-olentus è quasi pleonastico ad indicare l’eccesso di energia. A differenza della fortia, infatti, che si esprime nella capacità di sostenere un peso e di resistere ad una spinta, e perciò trova sinonimo nella solidità e nella fermezza che implicano uno sforzo isometrico, la vis è eminentemente dinamica, sicché la violenza non sta in una forza che sia solo «soverchia, [ma che sia pure necessariamente] messa in moto» (Niccolò Tommaseo), per lo più nell’impeto di un attacco potenzialmente distruttivo di tutto ciò che le si oppone.
Ciò detto, come altrimenti che violenta potremmo definire la fede che si dà mandato di far trionfare una verità su tutte? Non si ha, questo trionfo, senza che ogni altra verità venga distrutta riducendola a menzogna, e questo rende ineluttabilmente violento il mezzo efficace al conseguimento di tal fine, anche quando è dichiarato esclusivamente persuasivo.
Si prenda il Corano: «Non v’è costrizione nella religione, giacché la retta via ben si distingue dall’errore» (2, 256); «Se Dio volesse, tutti crederebbero in Lui. Tu pensi sia necessario costringerli?» (10, 99); «A chi porta la parola di Dio spetta solo il trasmetterla» (5, 99). Si tratta di versetti che solo in apparenza contraddicono i tratti dell’jihad che si fa truculento quando da lotta interiore per raggiungere il perfetto grado della fede diventa guerra santa contro gli infedeli, perché il dinamismo della vis proselitaria è sempre per sua natura pleomorfo e opportunista.
Si pensi al Manuele II Paleologo caro a Ratzinger: afferma che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza» (Dialoghi con un persiano, VII, 93), ma nella storia del cristianesimo questo sta senza eccessivo imbarazzo accanto ai battesimi forzati di ebrei, indios e neonati.
Tutto sta, in fondo, nella forma che assume la violenza e nella sensibilità a coglierla quando è dissimulata. Così, mentre si preferisce definire «guerra santa» la catena degli eventi che scuotono il mondo islamico, dimentichiamo che tra qualche mese ricorre il 15° anniversario della Dichiarazione «Dominus Iesus» della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermazione della legittimità della vis proselitaria che la Chiesa di Roma non ha mai rinunciato a esercitare al fine di estendere κατά όλος il suo credo, giacché la sua missione non si esaurisce nell’annuncio evangelico, ma nell’«instaurarlo tra tutte le genti» (18).
Certo, «al termine del secondo millennio cristiano questa missione è ancora lontana dal suo compimento» (2), per giunta certi strumenti del passato sono diventati inutilizzabili. Si pensi a come, per secoli, colonialismo ed evangelizzazione sono andati a braccetto e si prenda atto che non è più possibile: occorre che la vis perda il dinamismo della conquista militare e potenzi il carattere isometrico della fortia che resiste alla conquista militare dei competitori.
«Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio […] [possa] arriva[re con profitto] ai singoli non cristiani [in queste mutate condizioni storiche]» (21), occorre constatare che le cose si son fatte assai più difficili: giocoforza si deve ripiegare sul dialogo, ma senza dimenticare che «la parità, presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali» (22). Siamo alla constatazione che «lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino», ma che i tempi costringono al sospiro del «vorrei ma non posso». Poi, come sempre, ci si può far prendere dall’abbrivio, e allora si può arrivare a bestialità del tipo «la Chiesa non fa proselitismo» (Ratzinger, 13.7.2007).  

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Più di mille musulmani, a Oslo, fanno da scudo umano ad una sinagoga, scandendo lo slogan «no all’antisemitismo, no all’islamofobia». È una ben strana guerra di religione, quella in corso.

domenica 22 febbraio 2015

Graziano Delrio, finissimo biblista


«Il Signore gli disse: “Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, e che darò alla tua discendenza. Ho voluto che i tuoi occhi la vedessero, ma tu non vi entrerai”. […] Quando morì, Mosè aveva centoventi anni»
Dt 34, 4-7


Radiomonitor


Pauroso calo degli ascolti di Radio MariaFatta eccezione per il programma mattutino di quel maestro della satira agrodolce che è padre Livio Fanzaga, sempre seguitissimo, pare che il restante palinsesto abbia scassato la uallera a una discreta percentuale di radioascoltatori.

sabato 21 febbraio 2015

Altro che figlio di Silvio Berlusconi

Abbiamo fatto un grosso torto a Matteo Renzi nel ritenerlo un cazzaro privo di una qualsiasi Weltanschauung: i decreti attuativi del suo Jobs Act rivelano che una visione del mondo ce l’ha ed è quella del ragazzotto che ha visto il babbo condannato sette volte tra cause civili e del lavoro per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro irregolare e roba simile. Da ingenui stavamo lì a tenerlo sotto la lente per cogliere i tratti genetici che lo rivelassero come figlio di Silvio Berlusconi, lasciandoci sfuggire l’ovvio, cioè che il nostro Presidente del Consiglio altro non è che il figlio di un furbastrello di provincia, uno che la sera, tornato a casa, affliggeva moglie e figli coi mugugni per le rotture di cazzo che gli procuravano i dipendenti. Altro non è che il figlio di Tiziano Renzi, il nostro Presidente del Consiglio, la Weltanschauung è quella.

Immaginate che uno storico...

Immaginate che uno storico vi faccia una lezioncina sul ventennio che ha insanguinato l’Irlanda del Nord nella seconda metà del Novecento spiegandovelo come una feroce disputa tra cattolici e protestanti sulla natura della Grazia, sull’esistenza o meno del Purgatorio e sull’argomento dell’autorità sufficiente delle Scritture: suppongo che lo mandereste a fare in culo, vero? Avreste tutta la mia comprensione, ma per un attimo fate finta di essere personcine educate, di quelle che non mandano mai a fare in culo nessuno, e dite: come controargomentereste?
Probabilmente direste che in campo, in quel caso, cerano senza dubbio cattolici e protestanti, ma che da qui ad affermare che tutto quel sangue – oltre tremila morti su poco più di un milione di irlandesi – sia stato versato per motivi religiosi ci vuole una gran testa di cazzo, perché pure per le personcine educate, alla fin fine, est modus in rebus. Cattolici e protestanti, in Irlanda del Nord, si sono massacrati a vicenda per contendersi un territorio, né più né meno come hanno fatto nel resto d’Europa per oltre due secoli, tra il XVI e il XVII. Passano alla storia come guerre di religione, certo, ma c’è qualche storico che azzarda a dire siano state combattute tra chi sosteneva che per la salvezza eterna può bastare la sola fede e chi affermava che invece sono indispensabili le opere?
Ora, se lo sforzo di immaginazione non vi affatica troppo, fate finta di essere a Parigi all’alba del 24 agosto del 1572, quando le strade erano ingombre dei cadaveri di oltre 8.000 protestanti sgozzati dai cattolici (almeno altri 15.000 saranno massacrati nei giorni seguenti, in città e nel resto della Francia), e dite: definireste quella carneficina il risultato di una contesa teologica? Certo, nella cattedrale di Notre Dame si canta il Salmo 138 («Non odio forse, o Signore, quelli che ti odiano e non detesto forse i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei stessi nemici»), ma questo vi può bastare per poter ragionevolmente concludere che la strage degli ugonotti consumatasi la notte prima sia espressione di una fede barbara e sanguinaria? Se il conflitto che oggi va consumandosi tra sciiti e sunniti vi pare trovi ragion sufficiente in alcuni passi di alcune sure del Corano, vi potrà bastare. Ma poi chiedete scusa allo storico che avreste mandato a fare in culo. 

venerdì 20 febbraio 2015

«Santità, che bell’anello!»

La notiziola del bambino autistico di Valmontone cui si è impedito di seguire il resto della scolaresca in visita al Vaticano mi fa tornare in mente la barzelletta del ragazzo gay che il parroco non vuole portare all’udienza papale temendo che le sue eloquenti movenze possano causare qualche increscioso imbarazzo, ma che alla fine riesce a strappare il consenso, giurando che saprà contenersi. Tutto fila liscio fino a quando il ragazzo non arriva dinanzi al papa, s’inginocchia e, baciandogli la mano, esclama con tono fin troppo esageratemente effeminato: «Santità, che bell’anello!», e il papa gli risponde: «Non me ne parlare, sapessi come sono belli gli orecchini che gli fanno da parure, ma questi stronzi non me li fanno mai mettere». Nel caso del bambino autistico, il motivo del divieto alla visita in Vaticano è stato il fatto – dicono – che il caso fosse ingestibile. Come se Bergoglio non desse alla Curia le stesse preoccupazioni. 

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Dovremmo essere contenti della sentenza che dichiara illegittima l’espulsione di Luigi Lusi dal Pd, ma ormai siamo abituati a considerare i partiti politici come ditte, e Luigi Lusi è stato condannato in primo grado a otto anni di reclusione per essersi indebitamente appropriato di oltre 25 milioni di euro di fondi pubblici destinati alla ditta di cui era il tesoriere, dunque ha il marchio del ladro, e quindi il Pd ha espulso un ladro, e allora siamo contenti che l’abbia espulso, o almeno riteniamo fosse sacrosanto, e la sentenza ci sconcerta, e a leggerla ci sembra assurda. Già, ma cosa dice, la sentenza? Dice che l’espulsione deve considerarsi illegittima perché non è stata preceduta dalla contestazione in ordine agli addebiti sui quali l’irrogazione della sanzione si fondava. In sostanza, Luigi Lusi è stato espulso dal Pd in violazione della procedura che un partito politico è tenuto a seguire in questi casi. Oibò, cosa obbligherebbe un partito politico al rispetto di questa procedura? È presto detto: l’art. 49 della Costituzione, il quale riconosce a tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti, ma obbliga questi ultimi a darsi uno statuto che rispecchi il metodo democratico, il quale, non sarà superfluo rammentarlo, contempla ben precise garanzie, non ultima quella del diritto di difendersi da addebiti che prevedano una sanzione.
C’è poco da stracciarsi le vesti per scandalo, dunque. La sentenza non dichiara che Luigi Lusi sia innocente, e nemmeno che il Pd non avesse il diritto di espellerlo: si limita a considerare che la procedura di espulsione è stata illegittima ai sensi della norma costituzionale che obbliga un partito politico a rispettare le regole del metodo democratico nelle topiche della sua vita interna. Di converso, e di fatto se non di diritto, potremmo arrivare a dire che nella violazione di queste regole non c’è partito politico, ma associazione privata, con quanto ne consegue, in primis per quanto attiene al finanziamento pubblico. Ecco perché dovremmo essere contenti della sentenza, soprattutto se costituisce un precedente: ce n’è di che poter dichiarare illegittimo quanto in un partito neghi la democrazia interna. Ancora una volta siamo dinanzi ad un’azione vicariante della magistratura a colmare un vuoto, che in questo caso è quel deficit di democrazia interna che ha ridotto tutti i partiti a comitati d’affari, a imprese private, e di questa azione vicariante ovviamente ci sarebbe di che lamentarsi. Ma dove la politica si dimostra incapace di rispettare la legalità, ben venga la magistratura a rammentargliela. 

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Digitando nella finestrella di Google «tifoseria Napoli vandalismo», ottengo paginate e paginate di episodi a dir poco disdicevoli attribuibili ai tifosi del Napoli, in casa e in trasferta, d’altronde sono certo che avrei ottenuto risultati analoghi per qualsiasi altra squadra di calcio italiana, perché non ce n’è una che non abbia al seguito, più o meno nutrito, il suo bravo manipolo di esaltati per i quali ogni scusa è buona per lasciarsi andare ad atti di violenza su cose e su persone. Stando così le cose, non si capisce proprio cos’abbia potuto autorizzare Il Mattino a uscirsene bel bello, stamane, con una prima pagina come quella che ho riprodotto qui sopra. Per meglio dire: si capisce, ed è in linea con la tradizionale politica del giornale, ma quanta malafede è necessaria per decidere di aprire un numero in questo modo?

mercoledì 18 febbraio 2015

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Di Michel Houellebecq ho letto solo Le particelle elementari, appena uscì in Italia, e poi più nulla, perché quel libro – uso un eufemismo – non mi piacque affatto. Trovai balorda la trama, irritante la scrittura, e infine, a chiudere definitivamente la faccenda, non ricordo più se in un risvolto o in quarta di copertina, c’era quella faccia da omino viscido e dinoccolato che probabilmente m’avrebbe reso difficile anche la lettura di un capolavoro, ammesso e non concesso che Le particelle elementari, come pare, lo siano. Non sono neanche sicuro di essere arrivato alla fine, di certo non ho più riaperto quel libro, e insomma prima di Sottomissione, che ho acquistato oggi, a Michel Houellebecq ho associato in tutti questi anni l’idea di un tizio insopportabile, per giunta sopravvalutato dalla critica, a rafforzare ulteriormente, se possibile, la mia ultraventennale idiosincrasia per la letteratura contemporanea, salvando solo Philip Roth e Ian McEwan.
Non ho ancora iniziato a leggere Sottomissione, probabilmente lo metterò a stagionare per qualche mese, perché non c’è niente di peggio, ritengo, che leggere un libro mentre ancora se ne parla, e  troppo. Non escludo che anche questa «fiction politica», com’è nella definizione dell’autore, non mi piacerà affatto, anzi, ne ho come la certezza, però nella ragione che mi ha spinto ad acquistarlo c’è ben poco dell’investimento che si fa per un genere voluttuario. C’è che ieri sera, a Ballarò, Michel Houellebecq ha detto due o tre cose sulle quali sono perfettamente d’accordo e che in buona sostanza dovrebbero scoraggiare una lettura strumentalmente reazionaria della prognosi sociologica che affresca nel suo romanzo, anche se ha tenuto a precisare che non gli importa molto se dovesse accadere, come in realtà già accade, che la Francia del 2022 da lui immaginata sia usata come spauracchio da chi nell’Isis cerca un pretesto per favorire la deriva autoritaria, già da qualche tempo in atto in Europa, che mira allo smantellamento dello stato di diritto.
Michel Houellebecq ha detto che a minare la società francese non è il nichilismo, epiteto col quale sempre più spesso si diffama la laicità dello stato, ma la mancanza di democrazia. Ha detto che i partiti non rappresentano più nulla e che dunque il voto non ha più senso, che il dibattito pubblico si è trasformato che da qualche tempo in una rancorosa contesa che oppone i privilegi delle élites alla rabbia e alla frustrazione della gente comune. E ha detto che per quanto attiene all’Isis il problema non è il Corano, che al pari della Bibbia, assai poco letta dai cristiani, è assai poco letto dai musulmani, e ancor meno dai jihadisti, che ha degnato d’un solo aggettivo: stupidi. Il problema non è il Corano – ha detto – ma il ruolo degli imam, perché tutti i musulmani che hanno compiuto violenze sono di regola passati per le mani di guru spirituali che hanno loro indicato la via. E ha indicato nel passato coloniale di questo o di quel paese l’elemento che lo rende più o meno odioso all’Isis, anche quando quel passato è ormai alle spalle, e con ciò mi pare abbia centrato in pieno il movente psicologico che muove il sogno del califfato: quello del riscatto da una storia vissuta come umiliazione. E tutto questo l’ha detto con una faccia che, tre lustri dopo, era assai diversa: un mix di Céline e di Iggy Pop, con una zazzera rada e spiovente, un po’ alla Ceronetti, una specie di clochard tra il misantropo e lo strafottente. Simpatico.