venerdì 20 febbraio 2015

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Dovremmo essere contenti della sentenza che dichiara illegittima l’espulsione di Luigi Lusi dal Pd, ma ormai siamo abituati a considerare i partiti politici come ditte, e Luigi Lusi è stato condannato in primo grado a otto anni di reclusione per essersi indebitamente appropriato di oltre 25 milioni di euro di fondi pubblici destinati alla ditta di cui era il tesoriere, dunque ha il marchio del ladro, e quindi il Pd ha espulso un ladro, e allora siamo contenti che l’abbia espulso, o almeno riteniamo fosse sacrosanto, e la sentenza ci sconcerta, e a leggerla ci sembra assurda. Già, ma cosa dice, la sentenza? Dice che l’espulsione deve considerarsi illegittima perché non è stata preceduta dalla contestazione in ordine agli addebiti sui quali l’irrogazione della sanzione si fondava. In sostanza, Luigi Lusi è stato espulso dal Pd in violazione della procedura che un partito politico è tenuto a seguire in questi casi. Oibò, cosa obbligherebbe un partito politico al rispetto di questa procedura? È presto detto: l’art. 49 della Costituzione, il quale riconosce a tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti, ma obbliga questi ultimi a darsi uno statuto che rispecchi il metodo democratico, il quale, non sarà superfluo rammentarlo, contempla ben precise garanzie, non ultima quella del diritto di difendersi da addebiti che prevedano una sanzione.
C’è poco da stracciarsi le vesti per scandalo, dunque. La sentenza non dichiara che Luigi Lusi sia innocente, e nemmeno che il Pd non avesse il diritto di espellerlo: si limita a considerare che la procedura di espulsione è stata illegittima ai sensi della norma costituzionale che obbliga un partito politico a rispettare le regole del metodo democratico nelle topiche della sua vita interna. Di converso, e di fatto se non di diritto, potremmo arrivare a dire che nella violazione di queste regole non c’è partito politico, ma associazione privata, con quanto ne consegue, in primis per quanto attiene al finanziamento pubblico. Ecco perché dovremmo essere contenti della sentenza, soprattutto se costituisce un precedente: ce n’è di che poter dichiarare illegittimo quanto in un partito neghi la democrazia interna. Ancora una volta siamo dinanzi ad un’azione vicariante della magistratura a colmare un vuoto, che in questo caso è quel deficit di democrazia interna che ha ridotto tutti i partiti a comitati d’affari, a imprese private, e di questa azione vicariante ovviamente ci sarebbe di che lamentarsi. Ma dove la politica si dimostra incapace di rispettare la legalità, ben venga la magistratura a rammentargliela. 

4 commenti:

  1. mmmh. Si tratta, se vogliamo, di un vizio di forma, visto che l'espulsione se non erro è stata successiva alla condanna in primo grado. Per difendersi avrebbe giusto potuto affidarsi al teorema delle toghe azzurre, o delle toghe atee (in fondo era della Margherita).
    E' vero che in democrazia la forma è sostanza, e su questo non ci piove. Però è oggettivamente difficile rallegrarsi quando un boss della camorra viene scarcerato perchè mancava un timbro su un atto.

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    1. Stefano, qui mi pare che le cose siano un poco diverse. Ripeto: siamo dinanzi a un giudice che dichiara illegittimo un provvedimento interno ad un partito. Possiamo farci venire le crisi epilettiche per l'ennesima intrusione della magistratura nella politica o possiamo essere contenti che finalmente i fatti interni ad un partito non siano considerati insindacabili dall'esterno. Tutt'è nel metterci d'accordo su cosa sia un partito politico: se un istituto che la Costituzione contempla come mezzo per la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica o un'azienda con un padrone sopra e dei dipendenti sotto.

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    2. Ok, non avevo capito che al centro del tutto stava la definizione di 'partito'. Sono effettivamente decenni che la magistratura si intromette nella politica, a causa della palese incapacità di quest'ultima nel gestirsi in autonomia. Ancora una ventina d'anni di intromissioni e forse la capiranno.

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  2. Aridatece Di Pietro...

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