«A
trentasette anni dalla sua morte
– scrive Raffaele Alberto Ventura (Domani,
17.4.2021) – Michel
Foucault è ovunque. Nei grandi dibattiti del nostro tempo aleggia
l’influenza
del filosofo francese: su sesso e genere innanzitutto, ma anche sulla
medicina e in generale sui rapporti tra scienza e potere».
Verissimo, e questo, prima di ogni altra considerazione sul suo
pensiero, ci obbliga a chiederci di quanti pensatori del Novecento si
possa dire altrettanto: quanti di essi, a decenni dalla loro morte,
restano centrali nelle discussioni che oggi ci impegnano, e che sono
stati proprio loro ad aprire? Prima ancora di pronunciarci sulle tesi
di Foucault, accoglierle o rigettarle, come non riconoscere che le ha
formulate in termini che oggi sono imprescindibili? È possibile,
oggi, un discorso sul potere o sul sapere, sulla società o sulla
sessualità, senza dover fare i conti con ciò che Foucault ne ha
scritto?
Prim’ancora,
però: era un filosofo? Sociologo, senza dubbio. E storico,
naturalmente: storico delle culture e delle scienze. Antropologo,
potremmo aggiungere, naturalmene d’una
specie assai diversa da quella dei Frazer, dei Malinowski e dei Levi
Strauss. E scrittore. Anzi, in virtù di una scrittura sfavillante,
mi azzarderei a dire: straordinario scrittore. Ma filosofo? Ventura è
tra quanti credono lo fosse, e proprio nell’attualità
di Foucault vede smentita l’opinione
di chi ritiene che «la
filosofia è inutile, morta, resa obsoleta dal trionfo delle scienze
quantitative»,
perché «alla
fine le questioni di cui passiamo più tempo a discutere, e che poi
determinano gli orientamenti politici, sono di ordine valoriale:
visioni del mondo, interpretazioni della storia e progetti di
futuro»,
sicché – deduce – «la
filosofia non è mai stata così attuale».
Il
piglio è di chi sembra crederlo davvero, ma l’argomentazione
regge? Solo nella temeraria convinzione che storia, politica,
economia, psicologia, sociologia, linguistica non si siano già
conquistate, e da almeno due secoli, la
piena autonomia
di materiali e metodo. In realtà, la figura cui Ventura fa dire che
«la
filosofia è inutile, morta, resa obsoleta dal trionfo delle scienze
quantitative»,
è caricaturale: di fatto, l’unica
filosofia ancora possibile a fronte dello sviluppo delle scienze
umane e di quelle sociali, per non parlare della matematica e della
fisica, e per molti aspetti perfino della logica formale, è quella
teoretica. In quanto al filosofo come costruttore di un sistema, le
cose stanno messe pure peggio: non diremmo mai di un critico musicale
o di uno storico della musica che è un musicista, ma chiamiamo
filosofo chi fa storia della filosofia o tutt’al
più oggi riflette sulle riflessioni fatte su chi ha riflettuto su
questo o quel filosofo una, due o tre generazioni fa: glosse di
glosse di glosse. D’altronde
sono state proprio le scienze umane e quelle sociali a spiegarci
perché ogni sistematizzazione del pensiero non può aspirare ad
altro che offrire un modello, sempre parziale, sempre effimero. Se
poi guardiamo alla
filosofia come campo delle «questioni
di ordine valoriale»,
definire Foucault filosofo arriva ad essere addirittura paradossale,
perché la sua lezione è quella di un corso superiore di Scuola del
Sospetto: dopo i corsi propedeutici di Nietzsche, che ci ha spiegato
la genealogia della morale, di Marx, che ci ha mostrato quali siano i
reali interessi che stanno dietro le verità di volta in volta
dichiarate incontestabili, di Freud, che ci ha dissuaso a ritenere
l’Io,
e dunque il soggetto, l’autore,
l’attore,
non altrimenti che come luogo del conflitto tra pulsioni, ecco che
arriva in aula Foucault e ci dice che un valore non è altro che un
punto di vista, inteso come postazione: sta lì a farsi valere, non
vuole altro che valere. Foucault demistifica le «questioni
di ordine valoriale»,
e in tal senso, dunque, è anti-filosofo per eccellenza, e in ciò
s’apparenta
a Carnap: dove Carnap compie l’Überwindung
der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache,
Foucault rivela la natura irriducibilmente relativa della morale; col
primo, i cieli cadono, e si frantumano a terra; col secondo, la terra
trema, e cadono gli edifici, mostrando nude le loro fondamenta.
Avevamo
sotto gli occhi che la morale non parla che di mores,
che l’etica
sta tutta nell’ethos,
che «ogni
società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica
generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che
fa funzionare come veri»
(L’ordine
del discorso
– Einaudi, 1972), e dunque non dovevamo essere troppo all’oscuro
riguardo all’inscindibile
relazione tra sapere e potere, perché l’esercizio del potere dà
costantemente vita a nuove forme di sapere, mentre il sapere implica
sempre effetti di potere, ma facevamo fatica a trarne le conseguenze:
Foucault ci ha costretti a farlo, e si capisce perciò perché si sia
procurato tanto odio, come accade a chiunque osi il pensiero estremo.
Tanto più intensamente odiato oggi, da morto, di quanto lo sia stato
ieri, quand’era
ancora in vita, perché oggi assai più di ieri il suo pensiero
interroga e perturba, e soprattutto non è eludibile.
Di
qui il bisogno di demonizzarlo, di cui la pagina di Giulio Meotti
(Processo
al mostro sacro
– Il
Foglio,
17.4.2021) è un esemplare saggio, per metà spesa a rilanciare la
calunnia di pedofilia, già ampiamente destituita d’ogni
fondamento, sicché, seppure a malincuore, ci si accontenta di poter
dire che «la
vicenda non è dunque affatto chiara» (siamo
tanto abituati a queste schifezzuole retoriche, il più
caratteristico marchio di fabbrica de Il
Foglio,
che neanche più un refolo di indignazione ci sfiora: leggiamo, la
pena vince la nausea e proseguiamo). L’altra
metà della pagina, invece, raccoglie gli sbocchi di bile di un tale
Robert Redeker, che Wikipedia
ci informa essere stato insegnante di filosofia in un liceo e autore
di sei o sette saggi, l’ultimo
dei quali del 2010, e che Meotti ci presenta come «filosofo
e saggista francese»
facendoci sentire un po’
in colpa per non averne mai sentito parlare prima. Redeker dice che
«quello
di Foucault è un pensiero che lancia un no radicale alla società e
alle istituzioni, con l’obiettivo di liberare la barbarie. Parliamo
di un nichilismo attivo rivolto contro la forma occidentale di
società e civiltà. È un pensiero che spalanca le porte alla
violenza, purché provenga dal basso, nella speranza che questa
violenza sia uno tsunami che travolge ogni cosa sul suo cammino. […]
Tutta l’opera di Foucault è permeata di odio assoluto, odio
portato al suo livello assoluto, contro ogni forma di istituzione.
[…] Ogni giorno doveva andare oltre nella dissoluzione del vecchio
mondo. Dei suoi valori. Delle sue istituzioni. Delle sue strutture.
L’ospedale, il manicomio, la prigione, la scuola, l’esercito, la
polizia, l’occidente, il bianco borghese euroamericano dovevano
essere distrutti».
Rideva, Foucalt, rideva spesso, e Redeker trova che la sua era «la
risata del diavolo».
«Ha
appiccato il grande incendio in occidente
– aggiunge – quello
che ancora brucia attraverso la tirannia del politicamente corretto».
Ventura
sostiene che questo è falso, perché «il
filosofo [aridàje!]
mostra
quanta poca simpatia abbia per ogni disciplina del linguaggio nella
sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1971: in ogni
epoca, secondo lui, “la produzione del discorso è insieme
controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo
numero di procedure con la funzione di scongiurarne i poteri e i
pericoli”»;
e aggiunge che «a
essere distante dalla sensibilità libertaria di Foucault […] è
proprio ogni aspirazione a tracciare nuove linee di demarcazione tra
norma e deviazione, foss’anche
a fin di bene»;
il che ci appare assai più sennato di un buttarla lì a cazzo di
cane come fa Redeker. Dove invece Ventura non convince è quando
afferma che il «corpus
foucaultiano, a forza di essere bagnato dalla schiuma delle
interpretazioni, ha assunto la consistenza del mare».
Metafora infelice, cui è evidentemente spinto dal sentirsi in dovere
di chiudere l’articolo
con una belluria: ha detto che «Foucault
scriveva che l’uomo
è un’invenzione
che forse finirà per cancellarsi come un volto di sabbia sul
bagnasciuga» e
lì per lì non deve aver trovato di meglio. Si può chiudere un
occhio sulla forma, non sulla sostanza. Perché, al netto dei
fraintendimenti colposi o dolosi di quanto ha scritto, Foucault parla
chiaro, ed è destinato a durare, non foss’altro
per la sua riflessione sul potere, che attraversa tutte le sue opere.
Riflessione copernicana.
Per
Foucault, «il
potere non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o
coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo
subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che
circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è
mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è
mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si
esercita attraverso un’organizzazione reticolare» (Microfisica
del potere
– Einaudi, 1977); e «si
produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione
fra un punto e un altro»
(La volontà di
sapere –
Feltrinelli, 1978), perché è «coestensivo
al corpo sociale»
(Poteri e
strategie
– Mimesis, 2014). Questa «microfisica
del potere»
non cerca alcuna integrazione in una «teoria
del tutto»
con la «macrofisica»
marxiana, e tuttavia, nel chiarire il concetto di «plebe»,
Foucault riscrive Il
manifesto del partito comunista:
per lui, la «plebe»
è «il fondo
costante della storia, l’obiettivo finale di ogni assoggettamento,
il focolaio mai del tutto spento di ogni rivolta. Non c’è
assolutamente realtà sociologica nella plebe. Ma c’è comunque
sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli
individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere;
qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o
resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto,
l’elemento sfuggente. Non esiste “la” plebe, c’è “della”
plebe. C’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel
proletariato e nella borghesia» (ibidem,
2014).
Di qui, una lettura della storia – anch’essa
copernicana – come carotaggio geologico delle stratificazioni di
violenza e resistenza: una storia che, attraverso il conflitto,
costruisce corpi, desideri, moventi. È in questo senso che la storia
«inventa»
l’uomo,
è in questo senso che la politica è sempre «biopolitica»,
è in questo senso che il potere non è da intendere come entità
onnisciente e onnipotente, ma come «campo
relazionale» in
cui la resistenza è immanente al potere.
Si
diceva del bisogno di demonizzare Foucault, che però rivela
l’impotenza
dinanzi al suo pensiero. Più furbo chi, appena un anno dopo l’uscita
del primo volume de La
volontà di sapere,
esortava, in Francia, a Oublier
Foucault
(Editions Galilée, 1977) e, qui da noi, in Italia, a Dimenticare
Foucault
(Cappelli, 1977). Chi? Non ricordo.