Fino
a non molto tempo fa nel salotto buono di casa nostra tornava ad
intervalli regolari una questione che suonava più o meno a questo
modo: c’è
ancora una differenza tra destra e sinistra e, se sì, qual è?
Superfluo dire che nel salotto buono era ammesso solo chi fosse di
sinistra, quindi, seppure formulata tirando in gioco una dicotomia,
la domanda rivelava un bisogno di ridefinire la propria identità, non quella di chi fosse di destra.
Nulla
di intellettualmente disonesto in questo, sia chiaro, perché i
concetti di destra e di sinistra erano nati insieme, e antitetici fin
dalla nascita, fin dalla nascita quindi tenuti a dar conto delle
proprie identità come di opposte posizioni.
Sei
membro dell’Assemblée
nationale constituante, appartieni alla nobiltà o al clero e dunque
difendi l’Ancien Régime? Vai a sederti su uno dei seggi che stanno
a destra, ché su quelli a sinistra sono seduti i rappresentanti del
Terzo Stato, quasi tutti democratici, liberali e repubblicani. Fin da
subito, allora, la tua identità è caratterizzata dall’avere un
opposto con cui misurarti: sai chi sei dalla posizione che occupi, e
stai qui perché non stai lì, stai lì perché non stai qui.
Facile,
quando la posizione è il luogo fisico in cui mi trovo, no? Un po’
più complicato, converrete, quando invece è l’opinione che ho –
chessò – riguardo al sistema capitalistico: nel 1948, per esempio,
credo sia necessario abbatterlo perché è un tritacarne e per stella
polare ho il compagno Giuseppe Stalin; nel 1978, però, penso che,
certo, ’sto cazzo di capitalismo avrà i suoi limiti, ma un governo
socialdemocratico può temperarlo, guarda la Svezia di Olof Palme,
guarda la Francia di François Mitterand; nel 2008, poi, metto in
soffitta aggettivi sconvenienti come comunista o socialista, e in un
partito che anodinamente è detto democratico trovo a lottare al mio
fianco De
Benedetti, Benetton, Della Valle, Soru, Illy e Colaninno; mi si vorrà
negare che sono sempre stato, e sono, di sinistra? Di là c’è
la destra, di qua che altro ci può essere se non la sinistra?
Come
dite? Dove sto vi è chiaro, ma quel che voglio no? E che volete
esattamente? La Weltanschauung? Ok, però che palle! E dunque.
Non
è una Weltanschauung marxista, innanzitutto, o comunque non più, e
da un bel pezzo. Volete che vi citi qualche brano del Norberto Bobbio
di Quale
socialismo?,
che è del 1976, per dimostrarvi che da quasi mezzo secolo non è
necessario essere marxisti per potersi dire di sinistra? «Mi
domando quale sia il beneficio che possiamo trarre per la soluzione
dei problemi del nostro tempo dall’ennesima
chiosa a Marx. Mi domando persino se in un certo senso non sia
dannoso».
Con
chi ho sostituito Marx? Con nessuno in particolare, dipende dal
momento. Ultimamente, per esempio, mi piace molto Bergoglio, lo trovo
molto equo e solidale, molto ecologista, favorevole allo sviluppo ma
solo se sostenibile.
Vi
vedo storcere il muso, è segno che vi siete persi tutti i dibattiti
che si sono tenuti nel salotto buono dal 1994 ad oggi. (Non ad oggi,
in realtà, perché da una dozzina d’anni
pare che la questione possa esser data per risolta. Ma di questo
diremo poi.)
Era
il 1994, infatti, quando Bobbio s’accorse
che, tolto Marx, alla sinistra restava un buco. Tolto Marx, infatti,
veniva meno l’incompatibilità
tra sinistra e democrazia rappresentativa, quella che da marxisti si
era tenuti a considerare «democrazia
borghese»,
strumento col quale il capitale aveva illuso i suoi schiavi di poter
contare qualcosa in quanto aventi diritto al voto, mentre in realtà
lo Stato era già da tempo il suo fedele cane da guardia: sinistra e
democrazia rappresentativa, ora, potevano andare d’amore
e d’accordo.
Ma allora cosa distingueva la sinistra dal liberalismo che con la
democrazia rappresentativa andava d’amore
e d’accordo
da assai più tempo? Un problema non da poco per una sinistra che nel
1994 ancora non aveva preso il vezzo di dirsi liberale. Comincerà a
farlo di lì a poco, per smettere solo con la grande crisi del 2008,
però per un decennio almeno fu uno spasso sentir fare professione di
liberalismo da ex-comunisti e post-fascisti: erano tutti liberali,
perfino Ratzinger, e qualche ultima ritrosia lasciava traccia solo in
qualche variante lessicale, sicché la destra preferiva dirsi
«liberista»,
il centro «liberaldemocratico»
e la sinistra «liberalsocialista».
Il maggioritario, però, aveva spaccato il centro in due, metà di
qua, metà di là, sicché la confusione era alle stelle. Per fortuna
c’era
Bobbio. Nel gran troiaio di liberalismi a righe, a quadretti e a
pois, procedeva lesto e a testa alta però lasciandosi dietro delle
bricioline di filosofia politica come Pollicino. E noi dietro, per
uscirne fuori salvando almeno la faccia.
In
questo senso il suo Destra
e Sinistra (Donzelli,
1994) fu provvidenziale: eravamo di sinistra perché credevamo
nell’eguaglianza,
quelli di destra no. Perfetto, non vi pare? Certo, qualche anno dopo
avremmo perso sangue dalle orecchie a sentire l’osannato
opinionista di sinistra mettere in discussione le ragioni del
suffragio universale all’indomani
d’ogni
vittoria elettorale della destra, perché la nostra presunzione di
superiorità morale e culturale gli rendeva intollerabile che l’idea
di eguaglianza si sostanziasse in parità di voto. Sarebbe arrivato a
osare la proposta di un esamino di educazione civica per il rilascio
della tessera elettorale, ovviamente davanti a una commissione di
superiore livello morale e culturale, in sostanza davanti a una
commissione di sinistra, altrimenti che?, ma questo, appunto, sarebbe
venuto dopo, al momento Bobbio aveva dato una risposta che trovammo
fighissima. D’altronde,
via, l’antecedente
c’era
e fu lo stesso Bobbio a segnalarcelo. Nelle note in calce alla
Prefazione,
riandò agli atti di un convegno tenutosi nel 1981 (pubblicati l’anno
dopo da Bompiani in un volume dal titolo Il
concetto di sinistra),
di cui scrive: «Percorre
tutto il libro una critica della sinistra per essersi venuta
identificando con il marxismo, pur riscattata dall’esigenza,
variamente formulata, di riscoprire le proprie ragioni oltre la crisi
del marxismo»,
sottolineando come più incisivi gli interventi di un Massimo
Cacciari che «si
domanda non solo come ridefinire la sinistra, ma anche se abbia
“ancora senso volerlo fare”»,
e di un Paolo Flores d’Arcais
che propone di interpretare il concetto di sinistra come «stenogramma
di libertà, eguaglianza, fratellanza».
Eccola lì, l’eguaglianza!
Sfavillava come una perla in una delle due valve dell’ostrica,
la sinistra dell’Assemblée
nationale constituante: eravamo ancora Terzo Stato, con un po’ di
fantasia potevamo addirittura sentirci Quarto.
En
passant,
qui occorre sottolineare quanto sia stronzo l’esprit
du temps: la critica mossa alla sinistra da quel convegno era di
segno diametralmente opposto a quello della critica che sempre più
spesso invece le è mossa oggi, quella di aver accettato fin troppo
supinamente le logiche del capitale, di aver troppo frettolosamente
liquidato come fatale la crisi del marxismo. Ma questo è cinico
moralismo di chi qui ha scelto di vestire panni che non sono i suoi
per lasciarsi andare alla più grossolana delle ironie. Procediamo.
Organizzare
nel 1981 un convegno per discutere su cosa fosse allora la sinistra,
su come la si potesse ridefinire, addirittura se ne valesse la pena o
meno, non deve farci credere che su di essa già da qualche tempo le
cose non dovessero essere poi troppo chiare? È evidente, dunque, che
la questione fosse già sul tavolo da qualche tempo, comunque da ben
prima della caduta del Muro di Berlino, e sempre in stretta relazione
a quella «morte
delle ideologie»
di cui qualcuno aveva cominciato a parlare fin dalla metà degli anni
Cinquanta (Aron, Bell, Meynaud), poi destinata ad essere pressoché
unanimemente accettata come dato incontestabile e da qualcuno perfino
interpretata come sintomo di una certa prossima «fine
della storia»
(Fukuyama). Stranamente, invece, è proprio in Destra
e Sinistra che
Bobbio contesta questo dato: «Le
ideologie non sono affatto scomparse. Alle ideologie del passato se
ne sono sostituite altre, nuove o che pretendono di essere nuove. […]
Oltretutto, non vi è nulla di più ideologico –
aggiunge in modo assai apodittico – che
l’affermazione
della crisi delle ideologie».
In modo assai apodittico, perché in realtà, riguardo a ciò che è
un’ideologia,
le cose non sono affatto così semplici da poter credere che tutto si
risolva col decidere se stare con Marx o con Mannheim, con Adorno o
con Ricoeur, col ritenere insomma che un’ideologia
sia una mera sovrastruttura o l’anima
stessa di una struttura: se, infatti, è impossibile parlare di
ideologia fuori da ogni dimensione ideologica, è allo stesso modo
impossibile negare che la postmodernità ha reso sempre più
difficile distinguere tra struttura e sovrastruttura, perché, quando
destrutturate, non si capisce più a quale delle due appartenesse
questo o quel pezzo.
Pericoloso
divagare sul punto – già mi sento preso di mira da cerbottane
armate con freccette al curaro – meglio tornare a Bobbio. La sua
risposta rimanda,
in tutta evidenza, a categorie che sono proprie della filosofia
politica, cioè di quel «programma
–
ha scritto Badieu – che,
ritenendo la politica, o meglio ancora
il politico,
un dato oggettivo o addirittura invariante dell’esperienza
universale, si propone di consegnarne il pensiero al registro della
filosofia [sicché]
toccherebbe
alla filosofia produrre un’analisi
del politico e, ovviamente, sottomettere in
fine questa
analisi alle norme dell’etica»
(Abrégé
de Métapolitique).
Se accettiamo l’assunto
wittgensteiniano che «etica
ed estetica sono un tutt’uno»
(Tractatus
logico-philosoficus,
6.421), che forse è la miglior definizione di Weltanschauung, il
Bobbio di Destra
e Sinistra
non va troppo più in là del Gaber di Destra-Sinistra,
che, manco a farlo apposta, è dello stesso anno, ma che, dovendo
consegnare armi e bagagli intellettuali al Moloch etico-estetico
della filosofia politica, almeno ha il pregio di premettere che «è
evidente che la gente è poco seria / quando parla di sinistra o
destra».
Vogliamo astrarre un concetto dalle ragioni storiche che l’hanno
prodotto e dal modo in cui la storia l’ha
incessantemente rimodellato per credere che sia germinato
dall’iperuranio
per essere precipitato nella storia ad incarnare istanze che seguono
la moda? Sia, ma almeno si premetta che è una finzione, un gioco,
tutt’al
più un’allegoria.
Ma
cosa dicevamo? Dicevamo che fino
a non molto tempo fa nel dibattito pubblico la questione tornava ad
intervalli regolari e posta sempre negli stessi termini. Come a dire
che si ridava in eco. Ora la fisica ci dice che la
differenza tra eco e riverbero sta tutta nella distanza posta tra la
fonte che emette l’onda
sonora e l’ostacolo
su cui essa impatta e rimbalza: da questo dipende se una frase torna
ben distinguibile all’orecchio
di chi l’ha
pronunciata, eventualmente più d’una
volta e a intervalli regolari, oppure no. Bene, sarà che lo spazio
dedicato al dibattito pubblico italiano è diventato sempre più
angusto, ridotto all’asfissiante
room di un social, ma la domanda che fino a non molto tempo fa la
sinistra si poneva con una certa regolarità oggi ritorna in uno
spento e confuso riverbero che in sé ha pure la risposta: sinistra è
la legittima pretesa di superiorità antropologica. Risposta che
taglia la testa al toro e, soprattutto, fa a meno del velo
d’ipocrisia
in cui erano avvolte le risposte che in passato erano suggerite dalle
più autorevoli voci della sinistra.
Abbiamo
detto di Bobbio, vogliamo dire di Vattimo? Trovando che
l’egalitarismo
come valore fondativo della sinistra potesse sembrare «un’ideale
grigio»,
disse che alla destra è intrinseca la violenza, mentre alla sinistra
no. Detta così, faceva un po’
ridere, ma chiarendo che la violenza sta nella competizione, nella
concorrenza... «Quando
io parlo di violenza – provò
a chiarire confrontandosi con lo stesso Bobbio e con Giancarlo
Bosetti ne La
sinistra nell’era
del karaoke (Reset,
1994) –
non mi riferisco solo all’uso di mezzi coercitivi e polizieschi,
come quelli che furono tipici del fascismo. Penso ad una violenza più
generale, a quella che può praticare una democrazia ispirata a
valori di destra e che esalta la competizione».
Questo nel mentre la sinistra si preparava a esaltare le ragioni del
merito come fattore di promozione sociale, scavalcando a destra il
cadavere di Craxi per andare ad applaudire Blair ed inaugurare la
stagione del petting spinto con qualsiasi imprenditore che le desse
uno straccio di pretesto per considerarlo illuminato. Bastava fossero
carini con le Coop, dessero una mesata al giornalista o allo
scrittore caro al salotto buono, ed erano tutti degli
adrian’olivetti.
Era
chiaro che la risposta di Vattimo non calzasse proprio come un guanto
su una sinistra come quella italiana, e allora ci provò Galli della
Loggia (Intervista
sulla destra
– Laterza, 1994), che buttò lì un’altra
bell’equipollenza:
anche nelle sue espressioni più spregiudicatamente politicistiche,
la destra ha un’anima
pre-politica, dunque ancorata a valori che dichiara inattaccabili dal
divenire, perché spirituali, quando non biologici o addirittura
psicologici; anche nelle sue espressioni più istintuali, invece, la
sinistra cerca di stare al passo con la storia. La destra, insomma,
si riduce al riproporsi in sempre uguali pose irrazionalistiche ed
estetizzanti, mentre la sinistra macina dialettica e produce
progresso.
Un
modo di guardare alla dicotomia che, invertendo i segni valoriali,
era in tutto simile a quello del Prezzolini del Manifesto
dei conservatori (Rusconi,
1971), che inciampa pure lui nella filosofia politica: «destra
= conservazione e tradizione, sinistra = novità [...] destra = il
mondo come è sempre stato, sinistra = il mondo come si vorrebbe che
fosse [...] destra = prima i doveri, sinistra = prima i diritti»;
e così via, senza riuscire a liberare dal momentum il nodo
etico-estetico della dicotomia neppure dove il momentum era già da
tempo giunto al termine («destra
= il libro, sinistra = la televisione […] destra = la musica
classica, sinistra = il jazz […] destra = i propri odori, sinistra
= il puzzo degli stranieri»).
E almeno nelle fogne la questione finisce lì.
Nel
salotto buono, no. Lì ci sono anime delicate, perennemente
insoddisfatte, non c’è
risposta che possa mai dirsi definitiva. E allora ecco un altro
Destra
e Sinistra,
stavolta di Santambrogio (Laterza, 1998), dove la dicotomia tra
conservatorismo e progressismo si impreziosisce di sociologismo, e a
contrapporsi sono individualismo e socializzazione, con quanto ne
consegue per il momento normativo, che la destra vuole sia
semplicemente riconosciuto perché già radicato nella realtà,
mentre la sinistra vuole sia realizzato superandola.
Ma ci
siamo lasciati dietro Pizzorno, per il quale la sinistra è
inclusione, mentre la destra è esclusione. E qui, mettendo insieme
eguaglianza, non violenza, socializzazione e inclusione, provate
ancora a storcere il muso su Bergoglio come soluzione per tappare il
buco lasciato da Marx. La presunzione di superiorità morale ci guadagna.