Sul
farsi prendere la mano dinanzi a un’opera d’arte mi sono già intrattenuto in
cinque o sei occasioni su queste pagine, oggi vi ritorno sollecitato da un
articolo a firma di Maddalena Spagnolo apparso ieri su Domenica de Il Sole-24 Ore,
che fin dal titolo (Il Pasquino di
Caravaggio) offre un altro esempio di quel piegare le evidenze a un’interpretazione
che poi ci viene offerta come folgorante scoop. Peccato, perché l’articolo, che
una nota in coda al testo ci informa essere il sunto di una relazione che l’autrice
ha tenuto ad un convegno su Society and
Culture in the Baroque Period (Roma, 17-19 marzo 2014), sembrava accogliere
sennatamente il «limite» oltre il
quale l’analisi si fa «sfida» così
spesso destinata a un esito tragicomico. Ma veniamo al dettaglio.
Dopo aver accuratamente
ripercorso le vicende relative al frammento scultoreo «dissotterrato a Roma nel tardo Quattrocento e presto denominato
Pasquino», per secoli ritenuto «opera
d’arte antica di eccelso valore» in virtù della «resa accurata della muscolatura delle due figure», Maddalena
Spagnolo ci dice che l’esserci giunto mutilo ha «stuzzicato» intere generazioni di artisti e di critici alle più
bislacche ipotesi riguardo a cosa raffigurasse originariamente: sulla base di
solidi argomenti oggi
è concordemente riconosciuto come ciò che resta di «una scena di pietas militare» (quasi certamente un Menelao che
sorregge un Patroclo morente), ma in passato si offrì alle più fantasiose
interpretazioni, di quelle affini al «guardare
le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini
nascoste», con ciò segnando la superiorità del «nostro approccio» alle opere d’arte del passato per «il pregio di essere filologicamente più
corretto rispetto a quello degli artisti di un tempo…»; e qui scapperebbe
un «brava», ma non si fa in tempo, perché
la frase chiude a questo modo: «… ma ha
il limite di allontanarci dal loro modo fantasioso di guardare alla statua».
E che, sarebbe un «limite», questo?
Per Maddalena Spagnolo, in buona evidenza, sì, e non indugia a darcene conferma
con la fantasiosa ipotesi che il Caravaggio si sarebbe ispirato al Pasquino per
la sua seconda versione del San Matteo e
l’angelo che oggi si ammira nella Cappella Contarelli in San Luigi dei
Francesi, «qui presentata in versione speculare», ribaltata sull’asse verticale, per meglio venire incontro alla tesi.
«La
postura del santo, con il ginocchio poggiato sullo sgabello, ricorda da vicino
quella di Pasquino la cui gamba spezzata all’altezza del ginocchio tocca il
piedistallo», e «il capo dell’apostolo che si volge di scatto e si inarca
leggermente per dialogare con l’angelo crea un analogo contrapposto con l’arco
disegnato dal braccio» dando all’insieme un «analogo tipo di torsione
serpentinata», mentre di poi «perfino la mano sul libro […] rievoca la mano che
sorregge il corpo di Patroclo nel gruppo scultoreo» e «le scanalature delle
costole del petto che emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo si
apprezzavano un tempo anche dal chitone di Pasquino, come si vede in un disegno
di Francisco de Hollanda», prima che fossero cancellate;
d’altronde,
«Pasquino troneggiava all’angolo di Palazzo Orsini, a poche centinaia di metri
dalla chiesa di San Luigi dei Francesi» ed «è possibile che anche Caravaggio,
nel momento in cui si trovò a ideare una pala d’altare destinata a rimpiazzare
il lavoro di uno scultore, Jacon Cobaert, si sia soffermato a guardare quel “nobilissimo”
gruppo», per ispirarvisi: senza riuscire a fare lo stesso scoop di Maddalena Spagnolo, non era lo stesso Roberto Longhi a
ravvisare in quel San Matteo «una
rinnovata “maniera grande” [e] l’adozione di un “costume aulico” e “quasi una
classicità”»?
Siamo
dinanzi a molte sconvenienti forzature. Il fatto che un autorevole studioso del
Caravaggio abbia intravvisto stilemi classicheggianti in quel San Matteo porta
di fatto prove certe alla fantasticheria? E se l’autorevolezza di Roberto Longhi è
surrettiziamente richiamata per dare solidità alla tesi esposta, si può poi sminuirla con l’implicito rilievo che non fu in grado di cogliere così evidenti
analogie con Pasquino?
Certo, è possibilissimo che Caravaggio abbia avuto modo
di soffermarsi a studiare Pasquino e a trovarvi più o meno conscia ispirazione
per il suo San Matteo, ma gli elementi formali che lo caratterizzano sono così
intelligibilmente riferibili al residuo gruppo scultoreo? Dov’è l’analogia tra
la mano del santo poggiata sul libro e quella di Menelao che sorregge il torso
di Patroclo? Dov’è l’analogia tra «le scanalature delle costole del petto che
emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo» e quelle che nessuna
incisione raffigurante Pasquino, nemmeno quella di Francisco de Hollanda, può riportare, e
per la semplice ragione che Menelao ha un vigoroso pettorale destro e quello sinistro è coperto da un pannato? E quanti dipinti della stessa epoca, caravaggeschi e no, ritraggono figure con
«analogo tipo di torsione
serpentinata»? Tutte ispirate a Pasquino?
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.