Il
prolife che arriva al selfie col bambino Down è al penultimo scalino dell’abiezione,
più in basso c’è solo sparare al ginecologo non obiettore.
lunedì 2 febbraio 2015
Postilla
Prima
di passare alla seconda puntata della mia Mattarelliana, occorre dedicare due
righe a quanto oggi è riportato dal Corriere
della Sera (chi ha letto le bozze del discorso che Sergio Mattarella terrà
al suo insediamento dice che in esso vi è un richiamo ad innovare la
Costituzione, ma senza tradirla) e da la
Repubblica (Matteo Renzi dichiara che «l’elezione
del Capo dello Stato mette il turbo, non rallenta le riforme»). Sarà
interessante vedere come questo Presidente della Repubblica possa dare un’accelerazione,
per esempio, al varo dell’Italicum, che patentemente tradisce la Costituzione,
e proprio nei punti che l’apparentano strettamente al Porcellum, già bocciato con
voto unanime dalla Corte Costituzionale, di cui Sergio Mattarella era membro. Dunque
v’è da porre una clausola estensiva ai limiti temporali posti in premessa al
mio studiolo, perché, almeno per quanto attiene al sistema elettorale, la
nostra conoscenza di Sergio Mattarella non si ferma al 2008: nel dicembre del
2013 la pensava ancora come ai tempi in cui scriveva il Mattarellum. Poi,
ripeto, il Quirinale ti trasforma e ogni previsione diventa più aleatoria di un
oroscopo. D’altronde, il Nostro ha nel tema natale un Marte in Ariete leso da
una quadratura con Mercurio in Cancro…
[...]
«Si è sempre pensato – mi spiega Armando
Massarenti (Il Sole-24Ore, 1.2.2015 –
pag. 23) – che la Retorica […] fosse
stata composta da Aristotele nel suo secondo periodo ateniese, quando egli era
un maturo docente nel celebre Liceo. L’interpretazione di Ingemar Düring, che
ha modificato l’intera cronologia delle opere dello Stagirita, invece, fa oggi
risalire la stesura di questo testo al primo periodo ateniese, ovvero alla gioventù
del filosofo…». Qui mi fermo e faccio due conti: nasce nel 384 a.C., entra
nell’Accademia a 17 anni, cioè nel 367 a.C., e per i primi tre anni, come da
programma, studia matematica, per passare solo dopo alla dialettica, dunque nel
364 a.C., quando ha vent’anni. Vabbe’ che Aristotele è Aristotele e poteva aver
scritto la Retorica anche quand’era
ancora in fasce, ma come si spiega che, in I (A), 1, 1355a, scriva: «… come dicemmo anche nei Topici…»? Quando
cazzo li ha scritti, i Topici, per aver
scritto la Retorica, come Massarenti
dice sia «affascinante immaginare», «ancora giovanissimo»? Per carità di
Dio, il Düring non si mette in discussione. Turbare, poi, l’incanto di
Massarenti sarebbe da villani. Ma è credibile che Aristotele abbia scritto i Topici prima di apprendere i rudimenti
della dialettica? Se poi la Retorica
viene dopo i Topici – e su questo mi
auguro non ci piova – è credibile che «fresco
di studi […] mett[a] in pratica le raccomandazioni del maestro
Platone», peraltro lontano da Atene al momento in cui lo Stagirita entra nell’Accademia, per farvi ritorno solo tre anni dopo? Cerchiamo un compromesso, via, diciamo che, per essere stata scritta dopo i Topici, che peraltro a loro volta vengono dopo gli Analitici, la Retorica non può esser stata scritta prima dei 24-25 anni. Nella Grecia di allora, era età matura.
domenica 1 febbraio 2015
Mattarelliana / 1
Qui
parlo del Sergio Mattarella di cui posso avere un giudizio argomentato sulla
base dei suoi interventi pubblici (congressi, convegni, comizi, interventi
parlamentari, ecc.) recuperati dall’archivio storico di Radio Radicale e
relativi a un arco temporale di circa vent’anni (dal maggio del 1986 al settembre
del 2005), per un totale di 18h49'36" (5 sessioni di ascolto di circa 4h
ciascuna, da venerdì 27 gennaio a domenica 1 febbraio), dal quale ho escluso solo
gli interventi da lui tenuti nelle sedute delle Commissioni parlamentari di cui
è stato membro, ad eccezione di quelle della Commissione sulle riforme
istituzionali, che mi è sembrato potessero tornare di grande utilità, come in
effetti è stato. Quello di cui parlo, dunque, non è il Sergio Mattarella che
negli ultimi dieci anni è stato notoriamente avaro di dichiarazioni pubbliche,
tanto meno è il Sergio Mattarella che sarà, visto che l’esperienza insegna che il
Quirinale trasforma anche drasticamente l’inquilino che vi si insedia, a volte
da subito, più spesso nel giro di due o tre anni. Do per scontato, insomma, che
Sergio Mattarella sia ancora, e possa continuare ad essere per qualche tempo,
quello che era da esponente di spicco di una Dc morente e di un Ppi nascente,
tra i fondatori dell’Ulivo e i padri di un Pd da venire. Mi sento autorizzato a
questa congettura per la straordinaria omogeneità dei contenuti espressi nei
vent’anni che ho preso in oggetto, vent’anni che hanno costretto più di un
politico a rivedere anche profondamente le proprie convinzioni, anche se
dimostrando grossa difficoltà nell’ammetterlo: l’azzardo, perché sono disposto
a concedere che di azzardo si tratti, è di ritenere che Sergio Mattarella non sia
cambiato o, se è cambiato, non lo sia poi di molto, mantenendo immutato fino ad
oggi l’impianto del credo politico professato in quegli anni.
Bene, se
materiali e metodo non sono scorretti, comincerei col dire che l’elezione di
Sergio Mattarella sarà pure questo grande capolavoro di Matteo Renzi, come si
va dicendo, ma ora al Quirinale siede uno che, se dovesse essere coerente con quel che è stato, non gli tornerebbe affatto comodo, tutt’altro. Non risultano dichiarazioni di Sergio Mattarella a commento dei passaggi che hanno portato Matteo Renzi alla segreteria del Pd e alla Presidenza del Consiglio, tanto meno a commento delle iniziative del governo in merito a riforme istituzionali e legge elettorale, come d’altronde era da attendersi da un membro della Corte Costituzionale, che ogni giudizio su tali punti è abituato a esprimerlo solo ai suoi pari e quando l’organo di cui è membro viene chiamato a discuterne: probabilmente è stato questo, solo questo, a renderlo spendibile per una partita che Matteo Renzi giocava innanzitutto contro l’opposizione interna al suo partito, per non essere costretto a cambiare la maggioranza che lo sostiene in Parlamento trasformando il patto del Nazareno in una trappola per lui mortale. Se Sergio Mattarella non è cambiato da quel che è sempre stato fino a quando, nel 2008, si è ammutolito, non è difficile immaginare cosa possa pensare di Matteo Renzi. A costo di risultare un
tantinello ellittico, direi che, rispetto a Rosy Bindi, Sergio Mattarella ha in
più solo dieci anni e un pisello: l’universo etico-estetico è identico.
[segue]
venerdì 30 gennaio 2015
Scalfaro 2.0
Tutta
strumentale, da parte di Matteo Renzi, la scelta di Sergio Mattarella: pensata
per quello che doveva provocare, e in buona misura ha provocato, ma come sempre
accade per chi ha un’agenda svelta e corta, fitta di calcolo e di azzardo, malaccorta sugli effetti a distanza, che in questo caso saranno irrimediabili, il rischio incombe. Sarà un
nome che spariglia, Sergio Mattarella, senza dubbio, ma nel caso andasse al
Quirinale, e a questo punto è probabile che perfino i voti di Silvio Berlusconi
finiranno per unirsi a quelli di Nichi Vendola, sarebbe davvero un Presidente
della Repubblica comodo per Matteo Renzi? È in sonno da anni, questo è vero, ma
c’è indizio che faccia credere sia diverso da quello che è sempre stato? È un
moroteo, tutt’altra cosa che un fanfaniano. Ed è un professorone. Ha un’idea
della politica che è l’esatto contrario di quella fin qui mostrata da chi lo
candida a garante dell’unità nazionale: crede nella mediazione, nella
concertazione, e come tutti i democristiani che sono nati e cresciuti nell’Azione
Cattolica ha della sua missione politica una concezione quasi ieratica. In più,
è uno che crede nella Costituzione così com’è, ha palesato in più occasioni,
ancorché implicitamente, un animus ostile – garbatamente, ma fermamente ostile –
ad ogni forma di decisionismo, sempre in favore di scelte che in ambito partitico
e istituzionale privilegiassero il momento collegiale. Il Presidente della
Repubblica che può maggiormente somigliargli è un Oscar Luigi Scalfaro: se
provo a immaginare che tipo di rapporto ci sarebbe stato, nei passaggi istituzionali
che abbiamo avuto nell’ultimo anno, tra un tal genere inquilino del Quirinale e
l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, vedo solo attriti e scintille. Credo,
insomma, che Matteo Renzi sarà il primo a pentirsi di essere riuscito ad
ottenere una maggioranza parlamentare su Sergio Mattarella, se ci riuscirà.
giovedì 29 gennaio 2015
[...]
Quanto
il potere abbia capacità di subornare anche chi sembrerebbe dover essere del
tutto immune alle sue lusinghe, non già per l’aver fama di sapersene schermire,
ma perché ultimo tra quanti ci si aspetterebbe possa esserne fatto oggetto, ci
è esemplarmente dimostrato dalle dichiarazioni rilasciate da Magalli riguardo alla
sua candidatura al Quirinale che alcuni buontemponi hanno provocatoriamente lanciato
in rete, riuscendo a farne una felice parodia di plebiscito: Magalli sa che non
potrà mai essere Presidente della Repubblica, sa che si è trattato di uno
scherzaccio, ma pare seriamente intenzionato a prendersi quanto pensa che l’occasione
gli abbia offerto, e si mette a capo di un fantomatico partito che lo avrebbe
eletto a leader con un mandato ben preciso: denunciare la ridda che impazza
attorno alle elezioni per mandare al Quirinale chi torni utile alla Casta: in
sostanza, tirato in mezzo da sagoma di cartone, si mette a fare l’outsider.
Voilà, corrotto.
mercoledì 28 gennaio 2015
[...]
Un
po’ presuntuosetto, Tommaso Campanella: non a «pugnar», che già sarebbe da titano, ma addirittura a «debellar», certo di vincere. Sappiamo come andò: più
volte sottoposto a tortura, decenni e decenni di prigione, «tirannide, sofismi,
ipocrisia» più rigogliosi dopo che prima. E tuttavia campò più a lungo di
Torquato Accetto, quello che consigliava la dissimulazione, ancorché onesta.
martedì 27 gennaio 2015
[...]
Non
ha senso ricordare la Shoah ogni 27 gennaio senza aver ben chiaro chi siano
quelli che oggi compirebbero lo stesso crimine, o lascerebbero si compisse, poco
importa quanto soddisfatti o quanto indifferenti, tutt’al più cavillando se
siano stati sterminati ebrei, giudei o israeliti. Dura da millenni, cambiano le
facce, i moventi dichiarati e quelli reali, soprattutto cambiano i metodi, l’antisemitismo si fa mimetico, ma
il tentativo di annientarli non cede. Senza aver ben chiaro chi siano, è meglio
non commemorare niente.
[...]
«Di
fronte al fenomeno dell’autoproclamato Stato Islamico e al numero di coloro che
lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida, l’Occidente dovrebbe fare
un serio esame di coscienza e chiedersi il perché di questo arruolamento
violento e suicida. Perché? Una ragione è che un certo islamismo fondamentalista
riempie il vuoto nichilista dell’Occidente. L’anima di un uomo, come di un
popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali:
queste sono necessarie, ma non danno senso alla vita. Il senso si trova su un
piano diverso, qualitativo. Il mondo occidentale ha svuotato la coscienza collettiva
di valori spirituali e morali soffocandola di cose, ma non di bene, di verità e
di bellezza».
Probabilmente crede davvero in ciò che dice, il cardinale Angelo Bagnasco, qui nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Non possiamo esserne del tutto sicuri, perché quella qui esposta è la tesi che la macchina propagandistica ruiniana ha confezionato all’indomani dell’11 settembre 2001, e da allora non s’è avuto modo di rivederla, non se n’è trovata una meno sciatta. Può darsi, dico, che Sua Eminenza ripeta quello gli hanno dato da ripetere, ma in fondo sappia che è tesi rozza. D’altro canto, non è mai stato testa, ma solo braccio, dunque può darsi non lo sappia, può darsi ritenga sia davvero una spiegazione ragionevole del fenomeno, o può darsi che a forza di ripeterla abbia finito per crederci: «coloro che lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida» lo fanno perché in occidente il cristianesimo non è più centrale; lo fosse ancora, non partirebbero per arruolarsi nelle milizie islamiste; giacché «l’anima di un uomo, come di un popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali», togli il cristianesimo, e lasci spazio all’islam, anzi no, a «un certo islamismo fondamentalista». Regge?
Può reggere, ma solo se il cristianesimo, quello che trabocca «di bene, di verità e di bellezza», è alternativo al «fanatismo omicida», e viceversa: chi cerca l’uno, e non lo trova, si risolverebbe a cercare l’altro, trovandolo. Così equipollenti, dunque, «per l’anima dell’uomo»? Ma, poi, davvero non è dato, a chi voglia, essere un buon cristiano in una società che abbia «svuotato la coscienza collettiva di valori spirituali e morali»? In altri termini, occorre che questi valori nutrano la coscienza collettiva perché possano nutrire la coscienza di un individuo che altrimenti non trova adeguate motivazioni ad essere un buon cristiano e diventa un feroce islamista? Ma allora costui non cerca valori: cerca una società in cui dei valori, non importa quali, siano collettivamente condivisi, necessariamente condivisi. Costui non cerca un certo tipo di credo religioso, cerca un certo tipo di società. Cerca una società in cui è la fede a dare la cittadinanza: in realtà, dunque, non cerca una società, ma un’umma. E si può ben capire che, non trovando in occidente lo stato organico, lo stato etico, la società cristianamente intesa come corpo mistico, cerchi altrove e ovviamente possa trovare ciò che cerca solo nel peggior islam. E non è meglio perderlo, uno così?
Probabilmente crede davvero in ciò che dice, il cardinale Angelo Bagnasco, qui nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Non possiamo esserne del tutto sicuri, perché quella qui esposta è la tesi che la macchina propagandistica ruiniana ha confezionato all’indomani dell’11 settembre 2001, e da allora non s’è avuto modo di rivederla, non se n’è trovata una meno sciatta. Può darsi, dico, che Sua Eminenza ripeta quello gli hanno dato da ripetere, ma in fondo sappia che è tesi rozza. D’altro canto, non è mai stato testa, ma solo braccio, dunque può darsi non lo sappia, può darsi ritenga sia davvero una spiegazione ragionevole del fenomeno, o può darsi che a forza di ripeterla abbia finito per crederci: «coloro che lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida» lo fanno perché in occidente il cristianesimo non è più centrale; lo fosse ancora, non partirebbero per arruolarsi nelle milizie islamiste; giacché «l’anima di un uomo, come di un popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali», togli il cristianesimo, e lasci spazio all’islam, anzi no, a «un certo islamismo fondamentalista». Regge?
Può reggere, ma solo se il cristianesimo, quello che trabocca «di bene, di verità e di bellezza», è alternativo al «fanatismo omicida», e viceversa: chi cerca l’uno, e non lo trova, si risolverebbe a cercare l’altro, trovandolo. Così equipollenti, dunque, «per l’anima dell’uomo»? Ma, poi, davvero non è dato, a chi voglia, essere un buon cristiano in una società che abbia «svuotato la coscienza collettiva di valori spirituali e morali»? In altri termini, occorre che questi valori nutrano la coscienza collettiva perché possano nutrire la coscienza di un individuo che altrimenti non trova adeguate motivazioni ad essere un buon cristiano e diventa un feroce islamista? Ma allora costui non cerca valori: cerca una società in cui dei valori, non importa quali, siano collettivamente condivisi, necessariamente condivisi. Costui non cerca un certo tipo di credo religioso, cerca un certo tipo di società. Cerca una società in cui è la fede a dare la cittadinanza: in realtà, dunque, non cerca una società, ma un’umma. E si può ben capire che, non trovando in occidente lo stato organico, lo stato etico, la società cristianamente intesa come corpo mistico, cerchi altrove e ovviamente possa trovare ciò che cerca solo nel peggior islam. E non è meglio perderlo, uno così?
[...]
«Il voto per il Quirinale non è un referendum su
di me o sul governo», dice Matteo Renzi. Del voto per le Europee diceva la
stessa cosa, prima, ma è da otto mesi che spaccia quel 40,8% come un plebiscito
che lo legittimi a Palazzo Chigi, come non fosse noto come ci sia arrivato e
con quali mezzi ci resti. Farà lo stesso col Quirinale: se riuscirà a piazzarci
chi vuole, si intesterà la vittoria come l’ennesimo voto di fiducia strappato a
un Parlamento sotto ricatto. Bugiardo, sleale, arrogante, quintessenza di
volgarità e di supponenza, Matteo Renzi è il peggio che potesse capitare a
questo paese, che naturalmente se lo merita. Peggio di Silvio Berlusconi? Senza dubbio.
lunedì 26 gennaio 2015
Un omaggio all’innocenza
Vabbe’ che sono uno cui piace molto stare a
casa. Poi, certo, c’è che solo raramente leggo le pagine di cronaca locale ed è
già tanto se guardo un Tg Campania a settimana. Voglio dire: ammetto che non
sono molto attento a quello che accade quotidianamente nella città in cui vivo,
ma com’è possibile che a Napoli si sia tenuto un Forum Universale delle
Culture, sia durato un anno intero, ed io non ne abbia saputo niente? C’è una
spiegazione: il Forum c’è stato, ma è come se non ci fosse stato. Recupero dal
blog di Maria Lorenzi, Presidente della Commissione Cultura e Turismo del
Comune di Napoli, tutte le informazioni necessarie: l’evento è stato
organizzato a cazzo di cane, preceduto da sanguinose faide interne alle forze
politiche presenti in Consiglio Comunale e da un logorante braccio di ferro tra
Comune, Provincia e Regione su chi dovesse metterci le mani sopra, rimandato di
mesi rispetto alla data che era stata stabilita per l’apertura, presto ridotto
a un mucchietto di appuntamenti di scarsissimo interesse, senza un progetto che
desse loro un’articolazione decente, insomma, la solita occasione sprecata,
nella migliore delle ipotesi per incompetenza, nella peggiore per poterci
rubacchiare sopra. Andate a porgere una parola buona alla Lorenzi, fatemi ’sto
favore, ché se la merita. Nata in Piemonte e vissuta nel Veneto – recita la
scheda autobiografica – la signora è venuta a Napoli nel 1976 e, anche se vi è
restata il necessario per capire come vadano le cose da queste parti, si è
prestata alla politica con tanta buona volontà, probabilmente illudendosi di
poter essere utile. La sua amarezza ha un che di tragico e di nobile, e la sua
pertinacia sa di onestà e di coraggio. Se non le spareranno per come insiste a
chiedere un resoconto di come sono stati spesi milioni e milioni d’euro per un
Forum che ha lasciato come traccia solo qualche minuscola cagatina di mosca,
alle prossime elezioni, non importa in quale lista sarà candidata – se sarà
candidata – le do il mio voto. Un omaggio all’innocenza.
[...]
Francamente assurde, le pretese di Raffaele
Fitto. Sembra gli sfugga la ragione prima e ultima di Forza Italia, partito che
è proprietà privata di Silvio Berlusconi, fondato per tutelare i suoi
interessi. Lamenta «una resa incondizionata ai diktat di Matteo Renzi»,
Raffaele Fitto, e sembra non aver chiaro che il sì di Silvio Berlusconi a ciò
che Matteo Renzi chiede potrà far perdere altri voti a Forza Italia, forse, ma
torna utile a Silvio Berlusconi, senz’alcun dubbio. Il sì all’Italicum, col
premio di maggioranza attribuito alla lista e non più alla coalizione, coi
cento capilista bloccati: Raffaele Fitto lamenta che questo significa rendere
insignificante l’opposizione di Forza Italia, peraltro limitando enormemente il
numero dei deputati eletti con le preferenze. Appunto, no? Chi in Forza Italia
può contare su un consenso personale, per aver radicato bene sul territorio, lo
piglierà in culo e abbasserà la cresta. Un numero di parlamentari forzisti
assai più esiguo, poi, sarà un problema solo apparente: saranno sempre
abbastanza per tornar utili a Matteo Renzi, se le opposizioni interne al Pd
dovessero minacciare di far venir meno la maggioranza parlamentare. Raffaele
Fitto sembra non voler capire che, per tornare utile a chi ne è proprietario, un
partito non ha bisogno necessariamente di vincere le elezioni. Basta che torni
utile, meglio se indispensabile, a chi va al governo. Il patto del Nazareno, in
fondo, non è che questo: Silvio Berlusconi sfrutta al meglio la crisi di
consenso, e Matteo Renzi non può che accontentarlo, per poter fare del Pd un
partito personale, in cui le opposizioni interne contino meno di quello che
contano adesso, contino quanto Raffaele Fitto conta in Forza Italia. Se
stupisce che Raffaele Fitto non l’abbia capito, stupisce ancora di più non l’abbia
capito Daniele Capezzone, cui non dovrebbero essere ignote le logiche di un
partito personale: dovrebbe sapere che agli interessi personali del leader che
è proprietario del partito si può e si deve sacrificare tutto, anche il
consenso elettorale. Passi per Raffaele Fitto, che sembra non capirlo, e si
muove come un signorotto della Dc dei tempi andati: per Daniele Capezzone è
lecito pensare si tratti di stupidità, stupidità senza speranze.
domenica 25 gennaio 2015
«Che pretendi?», ho detto
L’odio è un sentimento
che si è soliti infamare, ma per mera convenienza, per quel debito di ipocrisia
che ci accolliamo per essere accettati in società. Non lo infamiamo solo per
offrire agli altri la faccia più gradevole, quella mansueta, quella non
pericolosa: quello che ci costringe a dire che siamo incapaci di odiare, o
almeno che evitiamo, e sempre con piacere, senza sforzo, fino al paradosso di
dichiarare che odiamo l’odio, è il fatto che, quando non produce gli effetti
voluti, spesso assai al di sopra delle nostre forze, l’odio rivela un nostro fallimento,
rendendoci ridicoli, e in società il ridicolo uccide. Questo accade pure con l’amore,
ma l’amore si accontenta d’essere ricambiato, mentre l’odio è sempre più
esigente, spesso chiede l’impossibile, soprattutto fa più fatica dell’amore ad
arrendersi, anzi, nel non trovare soddisfazione s’invigorisce, e non è affatto
raro che per trovare ristoro si ritorca su chi odia, infliggendogli una doppia
sconfitta, dunque rendendolo ancor più ridicolo. Chi odia, insomma, rischia di
più, molto di più. Si finisce per risolversi a non odiare, il che è disumano,
sennò a dissimulare l’odio al meglio, per lo più sublimandolo. Conveniente,
senza dubbio, ma profondamente ingiusto. C’è sempre un prezzo da pagare nel
rinunciare all’odio e spesso è sempre più salato del ridicolo che ci si procura
odiando senza riuscire a produrre gli effetti voluti. L’odio è un sentimento
forte, bello, nobile, tragico come tutti i sentimenti, e come tutti i
sentimenti va curato, certo, ma non corrotto.
Ogni
tanto prendo a caso uno dei tanti quadernetti riempiti in gioventù e rileggo
qualche pagina. Quella che ho ritrascritto qui sopra, mettendo solo un poco d’ordine
alla punteggiatura, reca la data del 6 luglio 1980: l’ho riletta stamane,
fumando la prima sigaretta della giornata. Ero più saggio allora, ho pensato. Forse
un po’ più goffo, com’è naturale quando si ha solo poco più di vent’anni, ma senza
dubbio assai più saggio. Nel fondo, mi son chiesto, queste cose non le pensi
anche adesso? E saresti capace di scriverle esattamente come le scrivevi allora?
Vabbe’, mi son risposto, che ci vuole? Copio e pigio «invia». E così mi ero
ripromesso di fare, ma poi all’ultimo momento ho constatato che in calce avevo
scritto «6.7.1980»: una vigliaccheria, tentavo di dissociarmi.
«Hai
visto?», m’ha chiesto il ventitreenne di allora. «La pensi come me, ma non
riesci a sottoscrivere quello che ho scritto senza prendere le distanze. E che
distanze! Ci metti in mezzo sette lustri e così salvi la faccia, fellone!».
«Che
pretendi?», ho detto.
«Che
ti prendi la tua parte di ridicolo: spara il nome di uno che odi. Ma di uno che
odi veramente, fino alla tua ultima cellula. Uno che, potendo, ti lavoreresti
di rasoio e fiamma ossidrica per secoli e secoli».
«Mi
vergogno», ho detto.
Mi
ha riso in faccia e ha detto: «Vabbe’, lasciamo perdere. Rimettimi nello
scaffale e cerca di non venire più a rompere il cazzo».
sabato 24 gennaio 2015
Al netto
Pensate
un attimo alla differenza che, almeno sulla carta, sta tra un matrimonio
religioso, che è un sacramento, e cioè un «segno
sensibile ed efficace della grazia, istituito da Cristo per la santificazione
dei fedeli», e un matrimonio civile, che invece è un negozio giuridico, e cioè
un «atto mediante il quale il privato è
autorizzato dall’ordinamento giuridico a regolare interessi individuali nei
rapporti con altri soggetti». Differenza enorme, senza dubbio, ma appunto
solo sulla carta, perché basta mettere a confronto Codice di Diritto Canonico e Codice
Civile per constatare che i diritti dei coniugi sono pressoché simili, e
così i doveri, sia quelli reciproci, sia quelli verso i figli. Ad
evitare che quanto affermo sollevi contestazioni, ripeto: diverso il
significato che i due codici danno al matrimonio, diverso l’apparato normativo
che ne regola la fattispecie, ma il carico dato ai coniugi è sostanzialmente lo
stesso, e ovviamente parlo dei codici attualmente vigenti.
Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti.
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?
Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti.
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?
venerdì 23 gennaio 2015
[...]
In
Isole, il secondo dei capitoli di Caro Diario, c’è uno straordinario Renato
Carpentieri che interpreta Gerardo, «un amico
[di Nanni Moretti] che si è ritirato
lì [a Lipari] undici anni fa [e
che] da allora sta studiando solamente l’Ulisse
di Joyce». Gerardo vanta con orgoglio di non guardare mai la tv («Mai, sono trent’anni che non la guardo più»),
ma è accompagnando l’ospite in un giro per le Eolie, alla ricerca di un’isola
in cui poter lavorare in pace, che incappa in una puntata di Beautiful che fatalmente lo incanta da
un televisore acceso a bordo di un traghetto. Un Ulisse che cede al canto delle
Sirene, potremmo dire. In un niente, Gerardo diventa teledipendente, al punto
che alla fine dell’infruttuosa ricerca del posto giusto dove trovare un po’ di
concentrazione, approdando ad Alicudi, «l’isola
più lontana, l’isola più selvaggia», dove non arriva l’energia elettrica e
dunque neanche la tv, è preso da una violenta crisi d’astinenza, e fugge via, imprecando
contro Enzensberger e Popper: ma quale zero-medium,
ma quale unftaithful servant, la tv è
l’Omero dei tempi moderni.
Calcando
un po’ la mano, com’è naturale quando si vuole pungere sul vivo, Brunella mi ha
paragonato a Gerardo per l’attenzione che durante le vacanze di fine anno ho
dedicato alle dodici puntate di Gomorra,
la serie televisiva tratta dall’omonimo volume di Roberto Saviano, andata in
onda l’anno scorso su Sky Atlantic e
da me allora fieramente snobbata. È cominciato coll’incappare in una parodia
della saga dei Savastano (The Jackal),
la curiosità m’ha portato all’originale (su Youtube
ho trovato tutte le puntate della prima serie) che ho letteralmente divorato
con godimento non inferiore a quello provato qualche anno fa, quando m’incapricciai
della Congiura dei Pazzi sprofondandomi nella lettura di tutto ciò che ne era
stato scritto. Quando poi sono passato a colmare un’altra enorme mia lacuna tra
i fondamentali, guardando tutte le puntate della prima e della seconda serie di
Romanzo criminale, che fino a quel
punto avevo sempre evitato anche di striscio, ho avuto serio conflitto interno
e, temendo di scivolare sempre più in basso, semmai arrivando ai Sopranos, ad House of Cards e Dio solo sa a cos’altro, ho messo fine all’andazzo,
mi sono ricomposto e per punizione mi sono inflitto la rilettura dell’Estetica di Benedetto Croce.
E
però bisogna dirlo, Stefano Sollima è un gran figlio di puttana. Come sirena,
dico, ha un canto ammaliatore niente male. Un poco ti vergogni a dire che sa
cucinare intingoli da farti sbavare, anzi, te ne vergogni assai, ma, quando
capisci che devi cominciare a vergognarti, è tardi: l’hai fatto e t’è piaciuto.
E allora ti castighi considerando che «l’arte
contemporanea, sensuale, insaziabile nella brama dei godimenti, solcata da
torbidi conati verso una malintesa aristocrazia che si svela ideale voluttuario
o di prepotenza e crudeltà, sospirando talora verso un misticismo, che è
altresì egoistico e voluttuario, senza fede in Dio e senza fede nel pensiero,
incredula e pessimistica, e spesso potentissima nel rendere tali stati d’animo,
quest’arte che i moralisti vanamente condannano, quando sia poi intesa nei suoi
profondi motivi e nella sua genesi, sollecita l’azione, la quale non volgerà
certo a condannare, reprimere o raddrizzare l’arte, ma a indirizzare più
energicamente la vita verso una più sana e profonda moralità, che sarà madre di
un’arte più nobile di contenuto e, direi anche, di una più nobile filosofia»,
ma poi fanculo Benedetto Croce, che solo per il tempo che ti ha fatto perdere
dovresti spararlo in bocca.
giovedì 22 gennaio 2015
Il royal baby
Troverete
ben poca politica nel libricino scritto da Giuliano Ferrara (Il royal baby, Rizzoli 2014), anche se si
presenta come «breve conversazione sul
nuovo nato», e cioè su Matteo Renzi, a mo’ di instant book sul Patto del Nazareno. In realtà, si tratta di un monologhetto
dal quale si potrebbe trarre il testo d’una pièce teatrale, coll’io narrante in
proscenio e sul fondale, a scorrere, immagini d’archivio, quelle sì tratte
dalla cronaca politica, da quella più recente a quella che ormai data trent’anni.
La politica, insomma, sta dietro il discorso, che qui non è lectio e non è oratio, anche se assume la maniera qua dell’una e là dell’altra: va
in scena il caso umano, il personaggio che tira le somme della propria
esistenza, nella quale la politica – più che altro, i suoi rumori – hanno fatto
da colonna sonora.
In questo senso, l’incipit è onesto: «A me è necessaria la politica. Non posso vivere senza i suoi
travestimenti, le frodi, l’impostura, i segreti […] Non posso vivere senza
l’imprevisto, l’inimmaginabile, il callido. Ho bisogno della legge bronzea,
della forza che dispiega l’intelligenza di una cause célèbre, la controversia,
il bagno di odio metaforico, la violenza della rottura costruita con il compromesso
necessario». Della politica, in buona evidenza, qui si descrive l’atto, non
già il fatto – d’altronde non è escluso che per Giuliano Ferrara la politica
possa ritenersi puro atto (ovviamente cosa un po’ diversa dal gentiliano «atto puro», ma non troppo distante) – e
tuttavia che il fatto abbia una sua ratio,
di cui l’atto non è che rappresentazione, ci era sembrato non gli sfuggisse in
pagine più seriamente meditate, come nella prefazione a Scrittura e persecuzione di Leo Strauss (Marsilio, 1990) o in
quella a La saggezza della fronda. Massime
del Cardinale di Retz e di François de La Rochefoucauld (Giuseppe Laterza,
2001). Qui, no.
Qui, come in una fin de
partie, sembra che la categoria del politico
(schmittianamente inteso) riduca amico
e nemico a mere marionette di un
teatrino, svilendo la tragedia a dramma, a comédie
humaine, mentre l’Ausnahmezustand si
contrae in un eccitato stato d’ansia, che ci si sforza di sentire stuzzicante. Quanto possano aver giocato i recenti
problemi di salute e la severa dieta alimentare cui è stato sottoposto (al
momento con buoni risultati, nell’ultimo anno deve aver perso almeno venti
chili) è questione che andrebbe approfondita, sta di fatto che in questo
libricino (poco più di 120 pagine, di 21 righe ciascuna, per 50 battute a riga:
su Il Foglio sarebbe entrato tutto in
tre paginoni di inserto) c’è solo una patina di dottrina, e ad un colpetto d’unghia
salta, rivelando che sotto c’è solo umore, e solo in apparenza buono. Anche dove parrebbe dispiegarsi un metodo, nel tentativo di costruire un sistema, tutto abortisce nella provocazione, nel gusto un po’ malato di scandalizzare: «Quel
che serve non è un Paese migliore […] Quel che serve è una rete di interessi
corporativi combinati, che non esclude patti trasversali e inconfessabili
doppi, tripli giochi, sempre nascosti dietro la fiera denuncia dei patti col
demonio stipulati dagli avversari del momento». Così quando sembrerebbe stia prendendo avvio un ragionamento sulla natura del potere in era postdemocratica: «La leadership personale [...] è questo: non ci sono più partiti come sistema, non c’è un ceto produttivo e borghese, non c’è l’intellighenzia, non c’è la classe con la sua rappresentanza, il populazzo è come in Guicciardini “mille
volte uno pazzo”, si muove flessuoso tra un’elezione e l’altra, è disponibile all’avventura, al fidanzamento, non appartiene più, non resta che la persona, l’uomo solo al comando di se stesso che prova a manovrare il consenso diffuso dell’interdizione del mugugno, dell’influenza e della furbizia». Bene, e dunque? «In questo, Renzi, allievo naturale del suo venerato predecessore, è ben piazzato». Stop.
Nulla del
trattatello, dunque, anche se di tanto in tanto il tono fa il verso all’encomiastica
di certi scrivani del XVI e del XVII secolo, che tra un inchino e l’altro
infilavano un consiglio. C’è tanto di quell’io, in questo libricino, che Silvio
Berlusconi e Matteo Renzi sembrano maschere, e maschere sembrano i tanti citati
nelle ultime 20 pagine, dove l’io si veste addirittura di terza persona, per
una breve autobiografia che cede alla celebrazione e pecca di pesante
autoindulgenza, sebbene un po’ attenuata da qualche gigionismo e tante
strizzatine d’occhio. Per chi conosce i fatti come davvero sono andati (Pino
Nicotri, L’arcitaliano Giuliano Ferrara,
Kaos 2004), questa storiella, che negli ultimi dieci anni ci è stata riproposta
almeno cinque o sei volte, sembra un training autogeno. Così con Matteo Renzi,
che poi «non è nemmeno il mio tipo», ma è
che «volevo un vendicatore di questi vent’anni
[e] l’ho avuto». Non gli è difficile
convincersi che può dirsi soddisfatto del film che ha visto: ha vociato durante
la proiezione, la trama ha preso la piega che voleva, esce dal cinema con la
sensazione di aver concorso alla sceneggiatura. Non gli è difficile,
soprattutto, presentare Matteo Renzi come figlio naturale di Silvio Berlusconi:
stessa tecnica d’un Marco Travaglio, ovviamente rovesciando il segno.
Nulla di
nuovo, dunque, si tratta di un libricino pressoché inutile. Prezzo di copertina
15 euro, scontato del 25% già a due settimane dall’uscita, a presto sulle
bancarelle degli invenduti a 2 euro. Se volete comprarlo, vi conviene aspettare.
[...]
Guarda
un po’ a cosa ci riduce, l’andazzo dei tempi: siamo costretti a trovare sennate,
addirittura bene argomentate, perfino ottimamente espresse, le ragioni di un
Paolo Cirino Pomicino. Certo, conviene chiudere un occhio sulle cause che trova all’andazzo (tutto sarebbe dovuto allo smarrimento di una democristiana arte di governo) e alle soluzioni che prospetta (ci vorrebbe il presidenzialismo, ancorché con opportuno sistema di contrappesi), ma l’analisi non è corretta?
martedì 20 gennaio 2015
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