giovedì 14 gennaio 2016
martedì 12 gennaio 2016
«Può accadere qualcosa di straordinario»
Nell’edizione
cartacea dell’intervista che Gennaro Nunziante ha concesso a Luca
Telese (Libero,
11.1.2016) va perso un passaggio che invece è riportato in quella on
line,
e sul quale credo sia interessante soffermarci.
«“Sole
a catinelle” –
dice Nunziante – era,
sotto l’apparenza giocosa, un film sulla crisi. “Quo vado?” è
un film sulla terribile condizione di questo tempo, vivere con la
precarietà».
«Cioè?»,
chiede Telese.
Nunziante
dice: «Guardare
il futuro provando paura. Una condizione che ti paralizza e che
scatena i lati peggiori degli umani. L’imprenditore vede come
minaccia il suo dipendente invece che considerarlo una risorsa, il
dipendente che non prova attaccamento per la sua azienda,
l’imprenditore che cerca di speculare il più possibile, il
lavoratore che non s’impegna nel lavoro perché avverte
l’imprenditore come uno speculatore».
«E
cosa può accadere con questo scenario?»,
chiede Telese.
«Può
accadere qualcosa di straordinario
– risponde Nunziante – se
parte una stagione riconciliante. In questo senso la politica deve
mostrarsi illuminante, dialogando con le parti, tutte le parti,
altrimenti non si va da nessuna parte».
È da rilevare che nell’edizione
cartacea compare, invece, un passaggio che è assente in quella on
line:
«Non
puoi far passare il mercato del lavoro da ipergarantito a
iperselvaggio, dalla mattina alla sera –
dice Nunziante – Servono
tutele, garanzie, non puoi lasciare la gente nel nulla e dirle:
“Arrangiati!”».
Tralasciando le ragioni che possano spiegare la differenza tra le due
edizioni, c’è da supporre che i due passaggi vadano integrati, con
ciò ricomponendo quello che a pieno diritto può dirsi un manifesto
politico. Ed è qui che trovo conferma di quella «insana
aspirazione a farsi Partito della Nazione»
(Malvino,
1.1.2016) che nel «fenomeno
Zalone» a
me pare più che evidente.
La «riconciliazione»
è intesa come sospensione della dialettica dei conflitti sociali,
come reductio
ad un unum
delle partes che giocoforza non possono esprimere altro che
interessi contrapposti, con la conseguente omogeneizzazione dei
partiti su un progetto senza alternative, sostanzialmente di tipo
organicistico. È il ritorno al corporativismo, ma ovviamente in
versione light, col tanto di vago che lasci nel dubbio se
l’intenzione
sia quella di andare a pescare nel Compendio
della Dottrina Sociale della Chiesa
o nella Carta
del Lavoro
del 1927.
So che solleverò perplessità con quanto dico: credo che siamo dinanzi al progetto di blocco sociale che abortì in
mano a Silvio Berlusconi, ma che, con la dovuta operazione di
restyling, è riproposto da Matteo Renzi. Con maggiori possibilità
di buona riuscita, occorre dire, perché stavolta il paternalismo è
assai meno arcigno: «Noi
vorremo dire, anche attraverso la maschera beffarda di Checco, che
non puoi colpire i più deboli».
Si dia inizio, ordunque, alla «stagione
riconciliante»:
promettano di non rompere il cazzo e chi di dovere riuscirà a
mostrarsi «illuminante». (Qui, forse, Nunziante intendeva dire «illuminato»,
ma Checco ha preso il sopravvento.)
Va un po’ meglio ultimamente
Dove
s’applica la sharia, se non hai
quattro maschi adulti disposti a testimoniare che davvero hai subito
uno stupro, passi per adultera, e ti lapidano. Qui da noi?
Ultimamente le cose vanno un po’
meglio, ma fino a ieri, in tribunale, c’era sempre un avvocato ad
insinuare che eri stata consenziente. Se poi al momento dello stupro
non indossavi uno scafandro, ma una gonna, l’onere della prova di
non essere una zoccola era a tuo carico: «Signorina, vorrà mica
rovinare la vita a questo povero ragazzo, colpevole soltanto di aver
ceduto alle sue esplicite profferte? Vorrà mica che sia lui a pagare
il prezzo della sua tardiva resipiscenza?».
Va
un po’ meglio ultimamente, ma poi non tanto. Apri Il
Foglio, ieri, e sui fatti
di Colonia eccoti Ferrara: «C’è del masochismo occidentale in
questo incontro e scontro di corpi e intorno al corpo secondo la
linea immemoriale dell’attrazione e della repulsione?».
Non
s’indigni, Fräulein, è solo una domanda, risponda senza
alterarsi: non è che sotto sotto, a Frankenplatz, la molestia le è
piaciuta? Via, sia sincera, non pensa che quanto le è accaduto
dipenda dal fatto che mancano «leggi di dissuasione della libertà
panica dei costumi»? Suvvia, non è disposta ad ammettere che quanto
le è accaduto dipenda dal fatto che intimamente lei è un po’
troia? No, aspetti, ho posto male la domanda, figurarsi se Ferrara è
tipo da darle esplicitamente della troia... Diciamo così: «La
brutalità dell’amore panico per tutti, questa specie di turismo di
massa delle anime e dei corpi, non porta con sé solo piacere». Insomma, lei
è troppo disinibita, dunque meritava una lezioncina.
Comunicazione di servizio
Non
so cosa sia successo, ma le email di avviso di commenti in
moderazione relativi agli ultimi post erano finite tutte nella cartella
dello spam. Mi scuso con quanti in questi ultimi giorni non hanno
visto pubblicati i propri commenti. Nei prossimi giorni risponderò a quelli che sollevano obiezioni, intanto un grazie a quanti mi hanno dato il bentornato.
lunedì 11 gennaio 2016
[...]
Col
cartello che recita «vietato
fumare» siamo
dinanzi al caso in cui la norma dichiara circoscritta la sua sfera
d’azione
indicandone i limiti: il divieto vige entro il perimetro del locale
nel quale è affisso il cartello. Solo apparentemente le cose stanno
in altro modo con l’imperativo
«non
uccidere» che
leggiamo sulle tavole mosaiche: qui sembrerebbe che il divieto valga
sempre e dappertutto, e tuttavia a dettarlo è lo stesso Dio che poi
comanda siano uccisi gli idolatri, gli apostati, le adultere, i
sodomiti, quanti non abbiano rispettato lo Shabbat, quanti abbiano
contravvenuto agli ordini paterni, ecc.
Si sarebbe autorizzati a credere che ogni divieto abbia dei limiti,
tanto meno precisabili quanto meno sembrerebbe che la norma intenda
darsene, com’è
nel caso di quella morale, che ha sempre in sé la vocazione a
dichiararsi universale e inderogabile, ma che immancabilmente è
costretta a concedere eccezioni, anche quando sembrerebbe non
ammetterne: «ama
il prossimo tuo come te stesso»
(Mt
22, 39), va bene, ma allora a che ti serve la spada (Mt
10, 34)?
Se è così per ogni norma, pare inevitabile
che questo accada anche nel caso della massima, che è sì il
principio che intende regolare una condotta, ma pure la sentenza, il
motto, il
brocardo attraverso cui questo si esprime: più lapidaria sarà la
frase, meno il principio che essa espone si rivelerà inviolabile,
perché è proprio la brevitas
in cui essa si dà a lasciar spazio per le note a pie’
di pagina, nelle quali anche la più «dura
lex» fa i conti con riserve, dispense e strappi.
In fondo, è proprio su questo paradosso che l’aforistica
ha costruito la propria fortuna: apodittica per statuto, esaurisce
tutta la sua cogenza precettistica nello
spazio di una frase, non di rado compiacendosi di contraddizioni
interne.
L’unico
ambito in cui la norma parrebbe farsi legge inviolabile è quello
della logica, ma pure qui, immancabilmente, si piega alle necessità
del suo più comune impiego, che è quello della persuasione. [Qui
evito ulteriori considerazioni rimandando altrove, ai punti III e V.]
Quando Ludwig Wittgenstein dice: «Lascia
al lettore ciò di cui è capace anche lui»,
sembra volerci dare un consiglio buono sempre. In realtà troviamo
questa frase tra quei Pensieri
diversi che
Georg Heinrik von Wright raccolse qua e là nei suoi manoscritti,
dove erano appuntati come annotazioni a margine della pagina. Così
contestualizzato, il monito è rivolto a sé solo, e per quella sola pagina,
sennò non si capisce che senso avrebbe nel suo Tractatus
logico-philosophicus il
punto 1.1 («Il
mondo è la totalità dei fatti, non delle cose»),
dopo averci già detto che «il
mondo è tutto ciò che accade»
(1) e dovendo poi affermare che «ciò
che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose»
(2). Per meglio dire: avrebbe senso solo per esplicitare un passaggio
implicito, ma da chiunque agevolmente desumibile.
E tuttavia «lascia
al lettore ciò di cui è capace anche lui»
sta
in esergo o a conclusione di questo o quel manuale di retorica, come tacita ammissione dell’inevitabilità
del vulnus
che la logica argomentativa deve subire nel foro in cui l’uditorio
sia gravemente incapace: per quanto si possa render conto nel dettaglio di ogni più minuto passaggio . Che mi pare sia la dolente ammissione che una
norma dinanzi alla quale siamo tutti eguali sostanzialmente non
esiste. E passi per quella giuridica, passi pure per quella morale,
ma doverlo ammettere pure per quella che dalla logica informa
l’argomentazione, da un lato, costringe all’apparentamento della democrazia con la pedagogia (non è un refuso per demagogia: proprio pedagogia) e, dall’altro, impone che la prima esaurisca ogni suo fine in ciò che è dato dai mezzi della seconda. Come ai maestri è dato constatare con i propri allievi, non viceversa.
domenica 10 gennaio 2016
Fossili di lunga cova
In
una scatola che avevo dimenticato di aprire dopo l’ultimo trasloco,
e che da anni riposava in un ripostiglio sotto una pila di vecchie
riviste, ho ritrovato le opere di Gaetano Mosca, più volte cercate
invano, e una dozzina di taccuini riempiti tra il 1985 e il 1988, che
credevo fossero andati definitivamente smarriti. Leggendoli, sono
stato ripetutamente tentato di postare su queste pagine quello che
scrivevo allora su Craxi e sui craxiani, per infine risolvermi a
desistere, certo che neppure un cane avrebbe creduto al fatto che si
trattasse di roba vecchia di trent’anni: anche il più candido dei
miei lettori avrebbe avuto buon diritto di leggere Maria Elena Boschi
dove trovava scritto Claudio Martelli, Oscar Farinetti invece che
Filippo Panseca, autorizzato a sospettare si trattasse di un patetico
artificio letterario. È che quei taccuini traboccano di profezie
avverate. Per meglio dire, di preghiere esaudite. Meglio ancora, di
maledizioni andate a segno. Se a quei tempi fosse esistito il web, le
avrei rese pubbliche? Ripensando a com’ero allora, non credo.
Dunque restino dov’erano, fossili di lunga cova.
[...]
Potendo
scegliere – anzi, no, diciamo: costretti a scegliere –
preferireste che vostra madre, vostra moglie, vostra figlia fosse
molestata, aggredita, stuprata da un senegalese, da un rumeno, da un
canadese o da un vostro connazionale? Domanda stronza, vero? Concordo, ma è
che resto ai margini della questione sollevata dai fatti di Colonia
incapace di affrontarla come pare sia d’obbligo,
e onestamente mi pare che sia posta in modo davvero infelice, quasi a volerla rendere irrisolvibile, buona tutt’al
più a rimarcare posizioni di principio, irriducibili. Più in
generale, mi pare che questo accada per quasi tutte le questioni
sollevate, più o meno direttamente, dal processo di trasformazione cui le nostre società
occidentali sono indotte dal fenomeno migratorio. E mi chiedo quanto vi sia di intenzionale.
Per quanto attiene
al terrorismo di matrice islamista, ad esempio, mi verrebbe da
chiedere: costretti a scegliere, preferireste morire sotto i colpi di
un AK-47 imbracciato da un autoctono o da
un allogeno? Per meglio dire: costretti a dover subire una morte
violenta, considerereste rilevante che a farvi fuori sia un pazzo
uscito da una madrasa wahhabita o da un college dell’Oregon? Se sì,
preferisco restar fuori dalla discussione. Se invece non vi fa
differenza, parliamo pure, ma liberando il problema dal bozzolo in
cui è stato avvolto dall’isterica logica emergenziale.
martedì 5 gennaio 2016
[...]
a M.B.
È vergognoso che i responsabili della morte di Stefano Cucchi restino ancora impuniti. Ciò detto, è così difficile aggiungere che è vergognoso pure ciò che ha fatto sua sorella? Beh, pare lo sia, e le ragioni che ella ha addotto a spiegazione del suo gesto, risibili a ogni onesto intelletto, trovano un’indulgenza che mai ti aspetteresti dal fior fior di garantisti che son pronti a bacchettarti senza pietà se neghi la presunzione d’innocenza pure a chi è stato sorpreso in flagranza di reato.
«Volevo
farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati
di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo.
Le facce di coloro che lo hanno ucciso».
Neanche c’è
stato il primo grado di giudizio, e già siamo sicuri che a pestarlo e
ucciderlo sia stato chi Ilaria Cucchi è convinta l’abbia
fatto. Possiamo esserne convinti anche noi, ma siamo certi che in
attesa della condanna sia opportuno esporlo alla gogna per poi far
finta di essere sorpresa e dispiaciuta che su di lui sia piovuto il
peggio del peggio? «Volevo
vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio
fratello»,
ma evidentemente non bastava averle viste, era necessario darle in
pasto alla bestia.
«Volevo
farmi del male»?
Ma non diciamo sciocchezze, a premere era l’urgenza
di avere un acconto di risarcimento per il dolore provato. E sì che
«chiedo
scusa per aver fatto una stronzata» sarebbe stato tanto più
dignitoso.
Macché, «se
volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono
stati usati per lui»,
come a declinare ogni responsabilità per ciò che nella migliore
delle ipotesi era stata una leggerezza.
«Noi
crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la
violenza»,
ma «noi»
chi? Se gli insulti e le minacce che non sono tardati a gonfiare la
pagina dei commenti sono violenza in risposta alla violenza, quale
potere pretende di poter avere, Ilaria Cucchi, nel neutralizzarla
dopo averle dato la più irresistibile delle occasioni per
scatenarsi?
E che cazzo di spiegazione è quella che offre alla
decisione di postare una foto del carabiniere indagato per la morte
del fratello? Ha
detto che intendeva mostrare al gentile pubblico di un social network
«la
fisicità e la mentalità di chi ha fatto del male».
Dalla «fisicità» è possibile dedurre la «mentalità»? Non lapideremmo chiunque
cercasse di convincerci che è dall’aspetto fisico di Tizio che
possiamo attribuirgli o meno questo o quel particolare vizio morale?
Ma sia,
concediamo a Ilaria Cucchi tutte le attenuanti del caso: ha fatto una
stronzata, non è stata capace di riconoscerla in quanto tale, nel
caso sarà chiamata a risponderne nelle sedi deputate. A far girare i
coglioni, tutto sommato, non è lei, ma quello che è potuto uscir di
penna a chi si è affrettato a indossar la toga per difenderla.
Tralascio le arringhe di Mantellini e di Capriccioli – per una
volta la veritas si fotta perché Plato resti amicus – e prendo
in considerazione solo quella di Manconi.
«Non
è accaduto a me che uno stretto familiare trovasse la morte in un
carcere... dunque, non posso e non devo — e non voglio —
valutare...». Ma che cazzo stai a di’, Manco’? Perché non hai
mai subito la perdita di un familiare messo sotto dall’auto guidata
da un rumeno ubriaco, ti astieni dal giudizio su chi l’ha subita e
chiede che il colpevole sia condannato a morte? Non ti ci vedo
proprio.
«Viviamo
in un paese dove alcuni sindacalisti felloni e pavidi, che dicono di
rappresentare le forze di polizia perché ne difendono gli esponenti
più criminali, da anni oltraggiano i familiari delle vittime. E in
un paese dove politici senza vergogna e senza Dio così hanno
definito Stefano Cucchi: “tossicodipendente anoressico epilettico
larva zombie”; e un pubblico ministero, responsabile della prima e
sgangherata inchiesta sulla morte del giovane geometra, invece di
perseguire i responsabili così parlava della vittima:
“tossicodipendente da quando aveva 12 anni”. E ora tutti questi
sono lì, col ditino alzato e l’aria severa, che impartiscono
lezioni di galateo a Ilaria Cucchi. È davvero irresistibile la
voglia di mandarli, come minimo, al diavolo».
Beh, Manco’,
da un fine polemista come te, sempre così attento alle fallacie
altrui, non mi aspettavo una confutatio così grossolana.
È come
dici, non c’è
dubbio, per coerenza ’sta
manica di stronzi non dovrebbe aprir bocca. Ma un’affermazione
non dovrebb’esser
vagliata indipendentemente da chi l’ha
fatta? Chi è d’accordo
con la tua rappresentazione del paese, chi ritiene che i colpevoli
della morte di Stefano Cucchi debbano pagare per quanto hanno
commesso, avrà il diritto di dire che sua sorella si è comportata
di merda? O vige la regola che i nostri hanno sempre ragione?
Guerre di religione
Negli
oltre trent’anni
in cui cattolici e protestanti si sono scannati in Irlanda del Nord
(1972-2005) v’è
mai stato qualcuno che abbia tentato di spiegarci quel conflitto come
una disputa teologica sugli effetti della Grazia? Quando, ad esempio,
l’Ira
fece 28 morti e 36 feriti con un’autobomba
a Omagh – era il 1998, praticamente l’altrieri
– vi fu chi rubricò la strage come ennesimo capitolo di una guerra
di religione? Macché, il coro fu unanime: si trattava di un
attentato terroristico, l’ennesimo
attentato ad opera di un movimento armato che rivendicava
l’indipendenza
dell’Irlanda
del Nord dal giogo del Regno Unito. E il fatto che questo movimento
si dichiarasse cattolico? Del tutto strumentale, non v’era
dubbio.
Per meglio dire, qualche dubbio poteva anche esservi: in prigione
perché pesantemente indiziato di aver compiuto un attentato, un membro dell’Ira
come Bobby Sands non aveva ricevuto un rosario mandatogli dal Papa?
Ma no, la religione rimaneva un elemento tutto sovrastrutturale allo
scontro tra unionisti ed indipendentisti, i terroristi dell’Ira ne facevano il paravento dietro il quale si battevano per una posta in gioco che era tutta politica. E il fatto che gran parte dei loro attentati cadessero in date dichiaratamente evocatrici dei più salienti episodi delle guerre di religione del XVII secolo? Un tentativo di accreditarsi come i discendenti della nobile schiatta di martiri cattolici immolatisi per strappare l’Irlanda all’eresia anglicana. Ma era religiosa la posta in gioco per la quale tra il 1641 e il 1653 persero la vita più di 20.000 indipendentisti e quasi 15.000 unionisti? Gli storici dissentono.
Come andava affrontata,
dunque, la notizia della strage di Omagh, nel 1998? Prendiamo
dall’emeroteca
un giornale a caso.
Il Foglio, 18 agosto 1998 - pag. 1 |
Sette righe, nessun riferimento alla matrice cattolica del gruppo terrorista, nessun articolo di approfondimento sulla relazione tra fede e violenza, e sì che la storia del cristianesimo è sempre stata un mattatoio a cielo aperto. La religione non era in discussione, punto. Strumentale era l’uso che ne facevano i terroristi, strumentale sarebbe stato riconoscergliene la legittimità.
Veniamo
all’oggi,
a quella che, quando non è spacciata come guerra di religione che
l’islam
avrebbe dichiarato all’occidente giudaico-cristiano, ci si
accontenta di spacciare come conflitto tra sciiti
e sunniti. Prendiamo un giornale a caso dalla mazzetta.
Il Foglio, 5 gennaio 2016 - pag. 4 |
Sciiti contro sunniti, ma, sia chiaro, in quanto sciiti e sunniti, e cioè rappresentanti di due
correnti religiose che in seno all’islam sono da sempre irriducibili: Iran e Arabia Saudita sono ai ferri corti per la vexata quaestio tra imamato e califfato, mica per il controllo dell’area mediorientale. È guerra di religione, signora mia, poco importa se dall’islam – tutto – in guerra contro l’occidente giudaico-cristiano passiamo in un battibaleno a due pezzi d’islam in guerra l’uno contro l’altro.
domenica 3 gennaio 2016
[...]
Quasi
subito si scoprì che i dati dai quali Lancet aveva pensato di
poter concludere che fossimo il paese dalla più bassa mortalità
materna al mondo (2010) fossero stati ampiamente sottostimati, e che, volendo, si potesse addirittura dire il contrario, cioè che per numero di
donne morte ogni anno a causa di eventi patologici correlati alla
gravidanza, almeno in Europa, ci spettasse la «maglia
nera» (2012). Un’esagerazione,
in entrambi i casi, e di lì a poco un rapporto dell’Istituto
superiore della sanità chiarì che in Italia, per cause legate alla
gestazione e al parto, si morisse né più né meno che nel resto
d’Europa (2014), con percentuali
che a tutt’oggi, e ormai già da
qualche decennio, sono le più basse sul pianeta. Stavolta non
potevamo sentirci scandinavi, come nel 2010, né sub-sahariani, come
nel 2012: sempre di circa 20 donne all’anno si trattava, come nel
2010 e nel 2012, ma non c’era
«notizia». Oggi, invece, la «notizia» c’è: ne
sono morte 4 in 4 giorni, e quanto può importare che la media annua
non ne risenta?
L’impressione
è che in Italia ne stia morendo una al giorno, la cosa merita le
prime pagine, i titoli di testa dei tg, la discussione nei social
network. La coincidenza non può essere casuale, è d’obbligo
sia «inquietante», «allarmante», «sospetta», azzardarsi a
sollevare qualche dubbio sul fatto che si tratti di un’«emergenza»
comporta il rischio di beccarsi il severo biasimo di voler
minimizzare, ovviamente per torbidi interessi di parte. È
consigliabile, dunque, che i medici tacciano. In momenti delicati
come questi è poco opportuno che tentino di spiegare che certi
eventi patologici con esito anche letale siano imprevedibili anche
nelle migliori condizioni di monitoraggio. Men che
meno si azzardino a dire che la gravidanza sia in sé e per sé una
condizione di rischio, turberebbero la bucolica convinzione che si
tratti di una «cosa naturale», meriterebbero l’accusa di stare a
cercar scuse per negare i micidiali guasti della malasanità. È
vero, la signora ha messo 25 chili in 9 mesi, ma, se è morta,
qualcuno ha da pagare.
venerdì 1 gennaio 2016
[...]
«Anche
se in vita era un gran pezzo di merda, di un morto non si può dir
altro che bene, perché il piacere che ci ha dato levandosi dai
coglioni è tale da obbligarci a un tocco di gratitudine, e tacere
per non doverne dir male è l’oblazione minima, mentre a non saper
proprio star zitti è indispensabile riconoscergli qualche merito,
che a frugar bene nella merda si trova sempre...».
Si
tratta dell’incipit di un coccodrillo che ho scritto due o tre anni
fa in morte di ***, e che tuttora riposa nell’apposita cartella in
attesa di essere postato su queste pagine, quando sarà il momento,
ma che qui mi sembra possa tornar buono anche a spiegare la ragione
che ci impone il «nihil nisi bonum» anche su alcuni – pochissimi,
in realtà – che sono ancora in vita: è che sono inoffensivi come
lo sono i morti, e anche a loro d’altronde non manca qualche
merito, che quasi sempre basta a che si taccia di tutto il resto.
Così
mi pare accada per Luca Medici, cui non si può negare il merito di
far ridere, che a tutti sembra poter bastare per sospendere ogni
giudizio critico sulle cause e sugli effetti del riso che suscita,
come fosse sconveniente, nella duplice accezione del termine
(inopportuno fino disdicevole e infruttuoso fino al
controproducente). Chi è morto non dà più fastidio, requiescat in
pace, parlarne male è così inutile che arriva a sembrare ingiusto,
perfino odioso: così con la comicità del Checco, perfettamente
innocua, perché studiata al meglio per non ferire alcuno.
Si
obietterà che, se fa ridere, la comicità ha necessariamente da
avere un bersaglio, e quella del Checco ne ha tanti, a destra e a
sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro, e tutti vengono
colpiti, per giunta con la forza di una franca incorrectness. È
vero, ma il trucco che la rende inoffensiva sta nel fatto che il
colpo si compiace oltremodo dell’esser becero: in questo modo, e
nello stesso tempo, a un certo pubblico è offerta l’occasione di
un liberatorio sfogo a quello stesso tratto di becerume, mentre al
bersaglio è dato il miglior agio di potersi difendere per
l’esplicita bassezza del colpo.
Il
caso più evidente è quello della canzoncina dedicata agli
«uominisessuali», scritta nel modo giusto per poter piacere a
tutti: agli omofobi, che nel «cozzalone» che definisce
l’omosessualità «una brutta malattia» vedranno l’innocente
naturalezza disintermediata dall’ossequio al conformismo che ha
sdoganato «un’altra sessuità», esigendo l’equiparazione dei
gay a «persone sani»; ma anche agli stessi gay, oltre a chiunque
ritenga che i gay siano «gente tali e quali come noi, noi normali»,
perché l’attacco è neutralizzato dalla sua stessa sguaiataggine,
ritorcendosi peraltro contro chiunque abbia intenzione di sferrarne
uno simile.
Se
si può far fatica a riconoscere questo espediente nella gag della
durata di una canzone o di un’imitazione, esso diventa di piana
evidenza nella trama del lungometraggio, che trova immancabilmente il
suo lieto fine nel ravvedimento dello zotico che per un’ora e mezza
ha squadernato quanto di meglio sapesse offrire in cinismo ed
egoismo, in sessismo e razzismo. Ed è qui che la comicità di Luca
Medici rivela il suo punto debole: non sapersi accontentare del far
cassa in equilibrio sul sottile filo dell’ambiguità, che ancora
miracolosamente regge, per l’insana aspirazione a farsi Partito
della Nazione.
domenica 27 dicembre 2015
Un volgarissimo puttanone
Arrivi
a una certa età che ne hai viste d’ogni tipo, quindi sei sensibile
solo a quelle che hanno qualcosa di speciale, che d’altronde non
mancano mai, neppure quando ti ostini a dire che l’una vale
l’altra, ben sapendo che invece non ce ne sono due uguali. Con gli
anni, insomma, si attenua quella smania che da giovane può renderti
insaziabile: diventi estremamente selettivo, presti attenzione solo a
quelle che davvero meritano. Non è detto, tuttavia, che questo possa
bastare a risparmiarti cocenti delusioni, perché non è affatto
raro, anche a una certa età, che tu ne veda una all’apparenza
estremamente interessante, assai ben fatta, poi basta darle
un’occhiata quando è nuda, senza trucco, e ti vergogni d’averci
sprecato tempo sopra. Diciamo che l’esperienza aiuta, ma solo fino
a un certo punto, perché il fascino di queste misteriose creaturine
sta proprio nell’inganno che è la loro intima, prima e ultima,
natura.
A
scanso di equivoci, s’è capito che parlavo delle mistificazioni?
Ci vuol niente a beccarsi l’accusa di sessismo, e con quella sei
segnato a vita. Ripeto: parlavo delle mistificazioni. E la premessa
di cui al primo capoverso era solo per strapparvi un briciolo di
comprensione per la disavventura che mi sono procurato e che qui
passo a narrare. E dunque.
È
la vigilia di Natale e Il Foglio, a pag. 3, dà notizia di una
sentenza della Cassazione.
Cedo
all’incantevole
leggerezza con la quale vien lasciato scivolare che «non
esiste un diritto a non nascere se non sani»
(già diverso dal «non
esiste un diritto a non nascere sani»
che sta a titolo dell’editoriale)
sia l’«inverso»
dell’affermazione
che «chi non è
sano non ha il diritto di nascere» («base
di tutte le teorie di selezione eugenetica»).
Ovviamente non è così, perché il diritto di voto, tanto per fare
il primo esempio che mi capita sotto mano, non
necessariamente nega il diritto di astenersene; così, affermare che
«non
esiste un diritto a non nascere se non sani» (che
d’altronde
la sentenza non fa altro che limitarsi a rammentare sia già un dato
di fatto giurisprudenziale in Italia, in Europa e negli Stati Uniti)
non esclude affatto che «chi
non è sano non ha il diritto di nascere»,
perché, come la stessa sentenza rammenta col richiamo all’art.
6 della legge n. 194 del 22.5.1978, è consentito negare questo
diritto «quando
siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a
rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un
grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»:
in buona sostanza, a «chi
non è sano» la
legge non assicura affatto «il
diritto di nascere»,
se la sua nascita può essere di nocumento alla salute fisica o
psichica della donna. Potrà piacere o non piacere, ma questo assunto
non è neppure scalfito dalla sentenza della Cassazione, che anzi ne
ribadisce il principio che vi sta a fondamento, con quanto recita
l’art.
1 del Codice Civile («La
capacità giuridica si acquista dal momento della nascita»).
E allora in cosa, questa sentenza della Cassazione, peraltro vecchia di tre mesi, «chiudere[bbe] una contesa etica e giuridica che aveva aperto spazi a una concezione della persona e della vita condizionata, mentre la unicità della persona è e deve restare un valore assoluto»? La contesa resta aperta, ma solo perché c’è chi si ostina a riaprirla, in opposizione alla giurisprudenza che nega capacità giuridica al feto, e pone condizione alla sua nascita laddove questa metta a rischio la salute della gravida, che può, nel caso, se vuole, far prevalere il proprio interesse su quello del prodotto del concepimento.
E allora in cosa, questa sentenza della Cassazione, peraltro vecchia di tre mesi, «chiudere[bbe] una contesa etica e giuridica che aveva aperto spazi a una concezione della persona e della vita condizionata, mentre la unicità della persona è e deve restare un valore assoluto»? La contesa resta aperta, ma solo perché c’è chi si ostina a riaprirla, in opposizione alla giurisprudenza che nega capacità giuridica al feto, e pone condizione alla sua nascita laddove questa metta a rischio la salute della gravida, che può, nel caso, se vuole, far prevalere il proprio interesse su quello del prodotto del concepimento.
E
quindi dov’è
che questa sentenza compie il «passo
indispensabile»
per evitare le paventate «derive
eugenetiche»?
Rigetta il ricorso di due genitori lì dove questi pretendevano che
nell’omessa
diagnosi prenatale di una grave malformazione genetica vi fosse
vulnus a un opinabile diritto del nascituro a nascere sano, ma lo
accoglie – guarda caso – proprio al punto in cui la controparte
pretenderebbe che l’accertamento
del «grave
pericolo per la salute fisica o psichica della donna»
posto in essere dalla nascita di un feto gravemente malformato
dovesse essere preventivamente certificato, e fosse a carico della gravida. In sostanza, ribadisce
che la nascita di un feto gravemente malformato costituisca di per se
stessa quel «grave
pericolo».
Che c’è
da festeggiare per un antiabortista?
La
mistificazione sembrava fine, intrigante, con tutte le sue cosine al
posto giusto, aveva pure un certo fascino, diciamo. Eccola lì: sotto
un leggero strato di fondotinta, un volgarissimo puttanone.
venerdì 7 agosto 2015
Ciao a tutti
Io
non vedo alcun risultato positivo in ciò che Renzi ha combinato da
quando è capo del governo, anzi, ci vedo realizzato in buona misura
il pericolo che vado segnalando fin dalla prima Leopolda, quando
il serpente era nell’uovo, e non era detto che arrivasse alla
schiusa, sicché mi limitavo all’ironia. Sottovalutavo l’ottusità
del paese che di lì a qualche anno l’avrebbe incoronato come
opzione senza alternativa, un paese che pure ho sempre ritenuto
ottuso, ma non al punto da farsi fottersi da un Renzi dopo essersi
fatto fottere per vent’anni da un Berlusconi. Sbagliavo,
ovviamente, e in fondo tutto ciò che ho scritto su Renzi da quando è
capo del governo può esser letto come denuncia del guasto che
affligge il paese piuttosto che come accusa a chi gli dà ciò che
merita. In buona sostanza, io mi riconosco nel gufo cui Renzi
rinfaccia di non essere disposto a farsi fottere. Anzi, per meglio
dire, in quel gufo mi riconoscevo fino a qualche ora fa, perché
qualche ora fa, alla Direzione nazionale del Pd, Renzi ha detto che
«non
valorizzare i risultati positivi [che fin qui sarebbero dovuti al suo
governo] oggi non è da gufi, ma da persone che non aiutano la
propria comunità».
Chi non è disposto a farsi fottere, insomma, è un sociopatico. Ci
manca solo scatti l’imputazione
di sabotaggio, chissà che non stia pensando a un ritocchino al
codice penale. Bene, io non voglio essere preso in contropiede e con
questo post do un taglio. Grazie per l’attenzione fin qui concessami,
ciao a tutti.
giovedì 6 agosto 2015
mercoledì 5 agosto 2015
[...]
Da
ansa.it
apprendo che giovedì 6 agosto lo Zimbabwe presenta all’Expo
lo zebraburger, hamburger con carne di zebra, variante del cocroburger, hamburger con
carne di coccodrillo, che sempre lo Zimbabwe ha presentato all’Expo
a metà luglio, e che pare sia andato a ruba. Toccagli il leone Cecil, agli zimbabwesi, e si incazzano di brutto, ma zebre e coccodrilli te li buttano in faccia. Idem per gli animalisti, di cui non ho notizia di proteste per il cocroburger, sicché suppongo se le risparmieranno pure per lo zebraburger. Probabilmente non c’è contraddizione, la vedo solo io, dunque fate finta che queste righe siano la confessione di uno che comincia a far fatica a spiegarsi le cose.
martedì 4 agosto 2015
Di ragni e di cavalli
Sull’immunità
parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in
tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono
eccessivamente ridimensionate dalla revisione dell’art.
68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di
garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo
capo del suddetto articolo: «I
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle
opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni».
Poteva avere un senso, in passato: tutelava l’oppositore
che un regime avesse l’intenzione
di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente
asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione
che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla
razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola
– ad un comune
cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata
offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per
meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un
deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi
sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere
giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al
terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera
alla quale appartiene, nessun membro
del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti
privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo
che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se
sia colto nell’atto
di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta
per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in
qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza».
Sorvolando sull’efficacia
sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni
preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta
la questione dell’autorizzazione
della Camera a che la magistratura possa procedere nelle
attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di
misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato
dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero
indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di
chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di
appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a
carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene
all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è
scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di
essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso
reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da
attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia
subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo
secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel
reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla
magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un
comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro
eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse
lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due
rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale
fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di
un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne
hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta
l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del
senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto
approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne
potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere
siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in
grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in
volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che
un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte
inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che
senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura
della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore
circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque
cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è
evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno
dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato,
inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima
questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi
dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi
quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale
il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a
carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di
ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero
intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea
Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea
necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla
Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e
allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che
di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per
infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci
guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.
lunedì 3 agosto 2015
«Ricetta per l'Italia»
Da affaritaliani.it copio-incollo la «ricetta per l'Italia» di Marco Rizzo, leader del Partito Comunista (ilpartitocomunista.it):
«Essendo a conoscenza della differenza che ci sarebbe tra “avere” il potere ed “esser” al governo (la stessa differenza che passa dalla Rivoluzione alle Elezioni), spiego comunque quella che sarebbe la ricetta per l'Italia del Partito Comunista:
- Rottura unilaterale dei trattati economici e politici europei e di quelli militari con la Nato.
- Remissione del debito estero (con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori).
- Nazionalizzazione di tutte le banche e le grandi imprese con affidamento di gestione e controllo ai lavoratori.
- Tutti i settori strategici della Nazione (sanità, trasporti, formazione, grandi cantieri ecc…) assumono carattere statale ed annullano qualunque precedente privatizzazione.
- Viene istituito il salario minimo da lavoro garantito per tutti.
- Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari.
- Sono equiparati i contratti di lavoro ed ogni diritto per i cittadini italiani ed i migranti. Tutti sono tenuti al rispetto totale della legalità socialista, pena severe sanzioni previste dal nuovo codice penale.
- La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza.
- È ristabilita la leva militare obbligatoria per il nuovo Esercito Popolare.
- Lo Stato Socialista è laico. Sono permesse tutte le religioni (senza alcuna spesa per lo Stato), sono aboliti i Patti Lateranensi».
È da quel «ricetta» che inizierei l’analisi del testo: sta per «programma», è ovvio, ma il termine ha un evidente richiamo alla preparazione in ambito gastronomico. Dice niente? Bravi, anch’io pensato subito alla cuoca di Lenin. Senza dubbio, infatti, qui siamo di fronte ad un timballo nel quale son presenti molti ingredienti della cucina comunista (esproprio, nazionalizzazione, leva obbligatoria, ecc.). La cuoca che Lenin sosteneva avrebbe ben potuto amministrare la cosa pubblica, tuttavia, era il risultato di quella rivoluzione che invece lo stesso Marco Rizzo non ha difficoltà a concedere sia cosa ben diversa dal raccogliere consenso su un programma di governo. Ma poi, siamo onesti, si è mai vista una cuoca a capo del Cremlino? Quello di Lenin era un paradosso, via, e in ogni caso calava in tutt’altro contesto da quello in cui cala Marco Rizzo, pure lui bel paradosso, senza dubbio, ma qui senz’altro fine che darsi per sproposito.
In altri termini, invece di dirci come ha intenzione di prendere il potere, il leader del Partito Comunista ci espone la sua agenda dei primi 100 giorni, al pari di un qualsiasi spacciabubbole a capo di un partito borghese. Lungo la lista, peraltro, non si scorge traccia di quel caposaldo della dottrina marxista-leninista che commisura il fine al mezzo, e non dà l’uno senza l’altro.
Non è tutto. Per quasi ogni ingrediente non è indicata la dose. Non vengono indicati tempi e modi della preparazione. Ma quello che per certi versi arriva addirittura a dare una puntina di sconcerto – non più di una puntina, ovviamente – è il fatto che la nostra cuoca non sembra avere neanche i fondamentali della cucina comunista, o almeno faccia di tutto per dar mostra di ignorarli.
Si prenda, per esempio, il punto 8: «La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza». Quali saranno mai, questi «criteri di uguaglianza», in grado equiparare i possessori di seconde case a quanti ne posseggono una sola? In relazione al punto 6 («Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari»), quali «criteri di uguaglianza» reggono l’assegnazione di una casa a chi non l’ha e il fatto che chi ne abbia due, di cui una necessariamente sfitta, possa conservarle entrambe? E qual è il parametro che farà la differenza tra «grandi proprietà immobiliari» e quelle medie o quelle piccole? (Analogo problema si pone al punto 2, con la «remissione del debito estero, con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori», che è cosa semplice a dire e pressoché impossibile a fare: quanto «piccolo» dovrà essere il debito, e farà differenza se i «piccoli risparmiatori» hanno investito in titoli azionari?) E come dovrà intendersi il trasferimento delle proprietà confiscate dai vecchi ai nuovi proprietari? Voglio dire: vi sarà intermediazione di proprietà da parte dello Stato e, nel caso, con quali strumenti giuridici?
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
venerdì 31 luglio 2015
#facciadiculo
Nella
seduta dell’8 luglio, facente seguito a quelle del 23 giugno e del
7 luglio, nelle quali il caso era stato ampiamente analizzato e
discusso sulla base degli atti della Procura di Trani, la Giunta
delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato approvava la
proposta del suo Presidente, Dario Stefano, volta alla concessione
dell’autorizzazione
all’esecuzione
dell’ordinanza
applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari nei
confronti del senatore Antonio Azzollini. Mi scuso per il burocratese, ma è solo per rimarcare il dato bruto che tre settimane dopo, ribaltando il parere della Giunta, il Senato gli
salvava il culo.
Non ha importanza, ora. se fosse giusto o meno che il
senatore se ne stesse in custodia cautelare, ma che il commento di
Matteo Renzi al voto del Senato sia il seguente: «Chi
ha letto le carte ha ritenuto in larga maggioranza di votare contro
l’ipotesi dell’arresto. Lo considero un segno di maturità».
Sarebbe da ritenere, in sostanza, che la Giunta non abbia letto le
carte con la stessa attenzione che ci ha messo chi ha votato contro
l’autorizzazione
a procedere, anche se è dimostrato che c’è
chi l’ha
negata senza neppure averle sfiorate, le carte. E tuttavia chi appena
l’anno
scorso aveva imposto al proprio gruppo a Montecitorio
il voto favorevole all’arresto
di Francantonio Genovese, deputato del Pd, twittando subito dopo: «Il
Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica sempre.
Anche quando si tratta dei propri deputati»,
mettendoci per hashtag un fiero #avisoaperto,
stavolta ha ritenuto più opportuno lasciare «libertà
di coscienza»
al gruppo parlamentare di Palazzo Madama.
Ogni considerazione sul
perché Genovese andasse sacrificato e Azzollini risparmiato non può
che essere segnata da sospetti che peraltro sono ampiamente
suffragati da fatti inoppugnabili come l’enorme quantità di favori
concessi da Azzollini ai suoi colleghi nei lunghi anni in cui ha
presieduto la Commissione Bilancio del Senato e il suo essere
esponente di spicco di un partito i cui numeri esigui sono comunque
indispensabili a tener su il Governo. Ma si sa che, in mancanza di
prove, i sospetti restano sospetti, e non hanno dignità di
argomento.
Di notevole resta solo la dichiarazione di Renzi, che al
voto del Senato cerca di dare un significato palesemente diverso da quello che
ha, e con la risibile spiegazione che il fumus
persecutionis, di
cui
al parere della Giunta non v’era traccia nella richiesta avanzata dalla Procura di Trani, è stato rintracciato da
chi neanche ha sfogliato gli atti allegati alla richiesta di custodia
cautelare per Azzollini. Roba che stavolta l’hashtag giusto è
#facciadiculo.
Merde sotto il sole di luglio
S’apre
la stagione che lascia vuoti molti spazi nell’informazione,
occasione imperdibile per chi è affamato di visibilità. A
settembre, sa bene, tutto ridiventerà più difficile, occorre ne
approfitti, e che si affretti, perché la concorrenza è spietata.
Con un minimo di esperienza, che di solito non manca mai a questi
coatti, la cosa si fa più facile, perché d’estate,
sarà per l’afa, i riflessi
dell’opinione pubblica diventano
ancora più meccanici di quanto non lo siano di solito, e
provocazioni che meriterebbero solo un velo di riprovazione sotto un
macigno di indifferenza riescono ad ottenere l’attenzione
cercata. In realtà è così tutto l’anno,
d’estate accade solo che tutto diventi
più evidente per l’acuirsi del fenomeno, e poco importa se si
tratti di Pannella che litiga con Bonino o di Razzi che balla con
Luxuria, perché in fondo non fa molta differenza: degni di nota sono
solo i tratti disperati che assume la contesa per occupare gli spazi
lasciati vuoti nell’informazione da quanto manchi del minimo per
dirsi notizia, e il fatto che l’attenzione sia estremamente mobile
e mostri la voracità del nugolo di mosche che sta sempre sulla merda
più fresca. Il punto, tuttavia, è un altro: la merda è merda, non
si discute, ma le mosche? Non sono loro, in fondo, ad essere il vero
problema? Intendo dire: passi per chi, pur di dar segno che esiste,
ha bisogno di cagare in piazza, ma un po’ di segatura sopra, e via,
no? Chi è più malato: chi caga in piazza o chi d’attorno gli fa capannello?
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