Ti
risulta, come a me pare, che l’accentuazione di Dio come amore,
fino a dire che l’essenza stessa di Dio è amore, sia una questione
relativamente recente. Voglio dire, so bene che una teologia
dell’amore è presente, almeno in nuce, già negli scritti
giovannei, e che tutta la faccenda dell’amor dei è uno dei cardini
della mistica cristiana e della teologia che ne deriva.
Però
mi pare che nei scoli scorsi si ponesse più l’accento su quelle
che potremmo chiamare le “qualità oggettive” di Dio: perfezione,
giustizia, onnipotenza, eternità e così via, e che si facesse
riferimento al suo essere summum bonum più che alla sua
amorevolezza. Insomma, la concezione metafisica era ben salda e la
centralità di Dio era affermata dall’ordine stesso dell’esistente.
Mi pare che di recente, a seguito del crollo dell’edificio
metafisico della creazione e alla sua sostituzione con una
spiegazione scientifica dell’universo, la Chiesa sia passata, nei
fatti anche se non nella dottrina ufficiale, a un generico deismo per
quanto riguarda la creazione (un Dio che dà il la al Big Bang, non
certo uno che presiede attivamente alla conservazione dell’essere),
per costruire un rapporto con il divino che si gioca tutto sulla
devozione e sul sentimento, non potendo più fondarsi su una
necessità ontologica.
Ora,
se la mia ricostruzione ha un senso (e ti prego di corroborarla o
smentirla), mi pare che ci si trovi di fronte a una bella strettoia:
se l’universo resta comunque una creazione divina, ne possiamo
ammirare senz’altro la perfezione (e mi pare che una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità), ma che non trabocca certo di amore. La
natura si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una
narrazione dell’amore divino: un Dio la cui essenza sia l’amore
potrebbe, nella sua onnipotenza, aver creato qualcosa di diverso
dalla catena alimentare.
Insomma,
la mia è un’ipotesi, anzi, un abbozzo di ipotesi: porre l’accento
tutto sull’amore è un modo per tenere in piedi la devozione
uscendo dalle costrizioni della metafisica, ma è solo un modo per
mettere la polvere sotto il tappeto, visto che comunque l’edifico
metafisico, per quanto lo si nasconda, deve sempre reggere tutto. Se
pensi che la cosa abbia un senso, e se hai qualche riscontro, ti
prego di farmelo sapere.
Nane
Cantatore
Una
religione che postula l’ipostasi
di Dio è giocoforza sottoposta a un inesorabile processo di
immanentizzazione: non per attacco esterno, ma per erosione interna.
Quando poi pretende che Fede e Ragione debbano andare a braccetto, è
inevitabile che il dogma si metaforizzi e la dottrina si riduca a
precettistica: dal greco al latino, il Logos di Giovanni diventa
Verbum, e segue il destino della Parola, che nel tempo subisce
l’ineluttabile
trasformazione cui è soggetta per le sue declinazioni e
coniugazioni. Il fenomeno che tu descrivi, insomma, era già tutto
nel cristianesimo nel momento in cui incontrava l’ellenismo,
e la tua ipotesi è anche la mia, d’altra
parte mi pare di averla anche illustrata in molte occasioni. Due soli
rilievi rispetto a quanto mi scrivi: a) non mi pare che «una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità»: direi che questo accada solo col
travisamento della teoria di Darwin, in special modo col suo
travisamento strumentale ad opera di chi sostiene la tesi del Disegno
intelligente; b) «la natura [che] si presta molto più a una
descrizione hobbesiana che a una narrazione dell’amore
divino» scioglie la sua contraddizione nella costruzione di una
cosmogonia in cui peccato originario e libero arbitrio danno
soluzione a ogni teodicea. Infine, e a cornice del tutto, il collasso
dei sistemi metafisici (non solo di quello cristiano), che sposta il
fuoco della dottrina morale dalla conquista della vita eterna alla
ricetta dell’anodino
quotidiano.
Ti abbraccio,
L.
Sul
punto b) non credo che la soluzione possa ricondursi al libero
arbitrio: la questione che vorrei proporre a un ipotetico apologeta
del Deus sive amor sarebbe proprio quella della sofferenza pura che
pervade il creato, anche al di fuori del libero arbitrio. Per
sviluppare la questione: il problema è che, se l’essenza
di Dio è amore, come diceva l’emerito
BXVI, se l’amore
non è attributo ma appunto essenza, allora la creazione, in quanto
manifestazione di questa essenza, dovrebbe essa stessa essere
amorevole, e a questo punto vorrei capire in che modo si spiega una
natura fatta di predatori, di violenza e di sofferenza: perché il
leone non giace con l’agnello,
se nessuno dei due ha libero arbitrio? La faccenda regge abbastanza
bene con la concezione classica, per esempio la quarta e la quinta
via di Tommaso (gradi di perfezione e finalità), ma regge proprio
perché qui si tratta di un’architettura
razionale e non di un atto di amore e basta, che dovrebbe produrre
semmai un mondo di minipony e cucciolotti, non certo di zanzare e
squali.
N.
Sbaglio
o stai chiedendomi di vestire i panni di un “apologeta
del Deus sive amor”?
Non ho alcuna difficoltà: il copione è di una semplicità estrema.
Il creato è pervaso dalla sofferenza come conseguenza del peccato
che l’uomo
ha liberamente scelto. Sì, mi dirai, ma il leone non giace con
l’agnello.
Qui, da copione, sorrido paternamente e ti invito a non considerare
l’uomo
e l’animale
sullo stesso piano, e ti rimando al Libro della Genesi. Tu,
ovviamente, ti incazzi un pochino e mi dici, sì, ma i bambini? Non
sono innocenti, i bambini? Rischiando un cazzotto in faccia, io ti
rispondo che il peccato originario si eredita al momento della
nascita, e che le sofferenze di quanti ti sembrano innocenti – qui
calco un po’
su “sembrano”
– sono parte essenziale di un progetto del quale non ci è dato
sapere il fine, ma sulla cui bontà comunque non è dato sollevare
dubbi, anzi, sarà proprio nel discioglimento
di questo mistero che vi sarà la ricompensa per chi avrà voluto
considerarlo divina provvidenza. E qui che cazzo potrai mai
rispondermi? Ogni idea di amore che porterai a obiezione non sarà
mai commensurabile a quella del sommo bene che è Dio. No, caro Nane,
non c’è verso: la fede è un labirinto di specchi, e dall’esterno
si capisce che non c’è
via d’uscita, mentre all’interno sei sempre in così buona
compagnia che della via d’uscita neanche sai che fartene.
L.
Concordo
in pieno sulla generale insensatezza della fede, ma ho qualche dubbio
che il copione ben noto, che tu hai così efficacemente recitato, sia
oggi non dico sostenibile (ché non lo è mai stato), ma praticabile.
Quello
che salta agli occhi è che tutta la fregnaccia del Deus sive amor
dovrebbe servire a trascendere in qualche maniera la classica
architettura metafisica in un mondo che ha una concezione
dell’universo
difficilmente sostenibile, anche rispetto al suo target, a partire
dal resoconto di Genesi, e che fatica un po’
a immaginare che miliardi di galassie esistano solo perché la
signora Pina capisca l’amore
divino e porti i nipotini al Family day.
Insomma,
tu mi riporti alla spiega classica del libero arbitrio, che è presa
pari pari anche dalla catechesi di sempre; a me sembra che la menata
dell’amore
come essenza di Dio renda ancora più difficile tutta la faccenda,
che dovrebbe invece semplificare.
N.
Sono
pienamente concorde, tranne nelle conclusioni: rende più difficile
la cosa a me e a te, ma la cosa non è stata costruita così com’è
per me e per te: serve a chi in passato aveva il dogma (tutto intero:
modo e topos) e oggi ne ha solo ciò che del contenuto non è
diventato del tutto inservibile alla mitopoietica di un Dio
immanentizzato, a una catechesi che ormai si è quasi del tutto
psicologizzata, a una dottrina indistinguibile da un vademecum, a una
teologia perennemente ondivaga tra mera glossa e licenza eretica.
Dell’inferno
si parla pochissimo, di Satana quasi soltanto per mantenere il punto,
e della Trinità quasi per niente. Mai tanto poco come in questi
ultimi decenni si è parlato del destino transmondano dell’anima,
la sua salvezza si è ridotta alla conquista della serenità, mentre
il timor di Dio s’è
esaurito nel senso di colpa. Vedi? Sono lamentele sovrapponibili a
quelle che i cattolici più oltranzisti scaricano nei loro
claustrofobici forum, e infatti il loro è l’unico
cattolicesimo che resiste. Ormai serve a ben poco decostruire
l’edificio:
è già decostruito.
L.
Sì,
certo, a prendere sul serio la Chiesa siamo rimasti solo noialtri
atei, e i conservatori più oltranzisti, nei cui confronti condivido
la tua simpatia. Ormai è chiaro che tutta la vecchia baracca è
un’accozzaglia
di sentimentalismo condito da una spiritualità che se fosse un po’
più accentuata sarebbe quasi new age, di consigli della nonna e di
abitudini e tic identitari, inglobato nella più grande ONG di
servizi sociali al mondo, che come ogni ONG si specializza
nell’opacità
dei bilanci e nella veemenza dell’azione
lobbystica. Da questo punto di vista il buon Bergoglio, che ogni
giorno somiglia di più a Giovanni Rana, è il testimonial perfetto.
Però,
visto che le ubbie teologiche sono un passatempo innocuo, un po’
come i cruciverba o la filatelia, mi diverto ancora a vedere come si
inventino toppe che peggiorano il buco: la vecchia teodicea riusciva
in qualche maniera a venire a capo del problema del male nella
creazione, o per lo meno a fare ammuina in modo passabile, ma tutta
questa faccenda dell’amore
come essenza mi pare che finisca per porre in modo inedito il
problema della forma
del
creato, che è evidentemente inconciliabile.
N.
Un tempo la baracca produceva rompicapo sfiziosi, ora ’sta manica di assistenti sociali del cazzo è capace solo di sofismi fessi. Ancora con Ratzinger riuscivi ad arrabbiarti, ora è noia senza fine. D’istinto, per riflesso condizionato, ti verrebbe di commentare ogni uscita di Bergoglio, ma, appena ci metti mano, ti senti più cretino di quanto lui si sforza di essere. Caro Nane, è finita un’epoca:
L.