venerdì 22 gennaio 2016

Corrispondenze

Ti risulta, come a me pare, che l’accentuazione di Dio come amore, fino a dire che l’essenza stessa di Dio è amore, sia una questione relativamente recente. Voglio dire, so bene che una teologia dell’amore è presente, almeno in nuce, già negli scritti giovannei, e che tutta la faccenda dell’amor dei è uno dei cardini della mistica cristiana e della teologia che ne deriva.
Però mi pare che nei scoli scorsi si ponesse più l’accento su quelle che potremmo chiamare le “qualità oggettive” di Dio: perfezione, giustizia, onnipotenza, eternità e così via, e che si facesse riferimento al suo essere summum bonum più che alla sua amorevolezza. Insomma, la concezione metafisica era ben salda e la centralità di Dio era affermata dall’ordine stesso dell’esistente. Mi pare che di recente, a seguito del crollo dell’edificio metafisico della creazione e alla sua sostituzione con una spiegazione scientifica dell’universo, la Chiesa sia passata, nei fatti anche se non nella dottrina ufficiale, a un generico deismo per quanto riguarda la creazione (un Dio che dà il la al Big Bang, non certo uno che presiede attivamente alla conservazione dell’essere), per costruire un rapporto con il divino che si gioca tutto sulla devozione e sul sentimento, non potendo più fondarsi su una necessità ontologica.
Ora, se la mia ricostruzione ha un senso (e ti prego di corroborarla o smentirla), mi pare che ci si trovi di fronte a una bella strettoia: se l’universo resta comunque una creazione divina, ne possiamo ammirare senz’altro la perfezione (e mi pare che una certa inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il principio della finalità), ma che non trabocca certo di amore. La natura si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una narrazione dell’amore divino: un Dio la cui essenza sia l’amore potrebbe, nella sua onnipotenza, aver creato qualcosa di diverso dalla catena alimentare.
Insomma, la mia è un’ipotesi, anzi, un abbozzo di ipotesi: porre l’accento tutto sull’amore è un modo per tenere in piedi la devozione uscendo dalle costrizioni della metafisica, ma è solo un modo per mettere la polvere sotto il tappeto, visto che comunque l’edifico metafisico, per quanto lo si nasconda, deve sempre reggere tutto. Se pensi che la cosa abbia un senso, e se hai qualche riscontro, ti prego di farmelo sapere.
Nane Cantatore



Una religione che postula lipostasi di Dio è giocoforza sottoposta a un inesorabile processo di immanentizzazione: non per attacco esterno, ma per erosione interna. Quando poi pretende che Fede e Ragione debbano andare a braccetto, è inevitabile che il dogma si metaforizzi e la dottrina si riduca a precettistica: dal greco al latino, il Logos di Giovanni diventa Verbum, e segue il destino della Parola, che nel tempo subisce lineluttabile trasformazione cui è soggetta per le sue declinazioni e coniugazioni. Il fenomeno che tu descrivi, insomma, era già tutto nel cristianesimo nel momento in cui incontrava lellenismo, e la tua ipotesi è anche la mia, daltra parte mi pare di averla anche illustrata in molte occasioni. Due soli rilievi rispetto a quanto mi scrivi: a) non mi pare che «una certa inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il principio della finalità»: direi che questo accada solo col travisamento della teoria di Darwin, in special modo col suo travisamento strumentale ad opera di chi sostiene la tesi del Disegno intelligente; b) «la natura [che] si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una narrazione dellamore divino» scioglie la sua contraddizione nella costruzione di una cosmogonia in cui peccato originario e libero arbitrio danno soluzione a ogni teodicea. Infine, e a cornice del tutto, il collasso dei sistemi metafisici (non solo di quello cristiano), che sposta il fuoco della dottrina morale dalla conquista della vita eterna alla ricetta dellanodino quotidiano.
Ti abbraccio,
L.



Sul punto b) non credo che la soluzione possa ricondursi al libero arbitrio: la questione che vorrei proporre a un ipotetico apologeta del Deus sive amor sarebbe proprio quella della sofferenza pura che pervade il creato, anche al di fuori del libero arbitrio. Per sviluppare la questione: il problema è che, se lessenza di Dio è amore, come diceva lemerito BXVI, se lamore non è attributo ma appunto essenza, allora la creazione, in quanto manifestazione di questa essenza, dovrebbe essa stessa essere amorevole, e a questo punto vorrei capire in che modo si spiega una natura fatta di predatori, di violenza e di sofferenza: perché il leone non giace con lagnello, se nessuno dei due ha libero arbitrio? La faccenda regge abbastanza bene con la concezione classica, per esempio la quarta e la quinta via di Tommaso (gradi di perfezione e finalità), ma regge proprio perché qui si tratta di unarchitettura razionale e non di un atto di amore e basta, che dovrebbe produrre semmai un mondo di minipony e cucciolotti, non certo di zanzare e squali.
N.



Sbaglio o stai chiedendomi di vestire i panni di un apologeta del Deus sive amor”? Non ho alcuna difficoltà: il copione è di una semplicità estrema. Il creato è pervaso dalla sofferenza come conseguenza del peccato che luomo ha liberamente scelto. Sì, mi dirai, ma il leone non giace con lagnello. Qui, da copione, sorrido paternamente e ti invito a non considerare luomo e lanimale sullo stesso piano, e ti rimando al Libro della Genesi. Tu, ovviamente, ti incazzi un pochino e mi dici, sì, ma i bambini? Non sono innocenti, i bambini? Rischiando un cazzotto in faccia, io ti rispondo che il peccato originario si eredita al momento della nascita, e che le sofferenze di quanti ti sembrano innocenti – qui calco un po su “sembrano” – sono parte essenziale di un progetto del quale non ci è dato sapere il fine, ma sulla cui bontà comunque non è dato sollevare dubbi, anzi, sarà proprio nel discioglimento di questo mistero che vi sarà la ricompensa per chi avrà voluto considerarlo divina provvidenza. E qui che cazzo potrai mai rispondermi? Ogni idea di amore che porterai a obiezione non sarà mai commensurabile a quella del sommo bene che è Dio. No, caro Nane, non c’è verso: la fede è un labirinto di specchi, e dallesterno si capisce che non c’è via d’uscita, mentre all’interno sei sempre in così buona compagnia che della via d’uscita neanche sai che fartene.

L.



Concordo in pieno sulla generale insensatezza della fede, ma ho qualche dubbio che il copione ben noto, che tu hai così efficacemente recitato, sia oggi non dico sostenibile (ché non lo è mai stato), ma praticabile.
Quello che salta agli occhi è che tutta la fregnaccia del Deus sive amor dovrebbe servire a trascendere in qualche maniera la classica architettura metafisica in un mondo che ha una concezione delluniverso difficilmente sostenibile, anche rispetto al suo target, a partire dal resoconto di Genesi, e che fatica un po a immaginare che miliardi di galassie esistano solo perché la signora Pina capisca lamore divino e porti i nipotini al Family day.
Insomma, tu mi riporti alla spiega classica del libero arbitrio, che è presa pari pari anche dalla catechesi di sempre; a me sembra che la menata dellamore come essenza di Dio renda ancora più difficile tutta la faccenda, che dovrebbe invece semplificare.
N.


Sono pienamente concorde, tranne nelle conclusioni: rende più difficile la cosa a me e a te, ma la cosa non è stata costruita così comè per me e per te: serve a chi in passato aveva il dogma (tutto intero: modo e topos) e oggi ne ha solo ciò che del contenuto non è diventato del tutto inservibile alla mitopoietica di un Dio immanentizzato, a una catechesi che ormai si è quasi del tutto psicologizzata, a una dottrina indistinguibile da un vademecum, a una teologia perennemente ondivaga tra mera glossa e licenza eretica. Dellinferno si parla pochissimo, di Satana quasi soltanto per mantenere il punto, e della Trinità quasi per niente. Mai tanto poco come in questi ultimi decenni si è parlato del destino transmondano dellanima, la sua salvezza si è ridotta alla conquista della serenità, mentre il timor di Dio sè esaurito nel senso di colpa. Vedi? Sono lamentele sovrapponibili a quelle che i cattolici più oltranzisti scaricano nei loro claustrofobici forum, e infatti il loro è lunico cattolicesimo che resiste. Ormai serve a ben poco decostruire ledificio: è già decostruito. 
L.

Sì, certo, a prendere sul serio la Chiesa siamo rimasti solo noialtri atei, e i conservatori più oltranzisti, nei cui confronti condivido la tua simpatia. Ormai è chiaro che tutta la vecchia baracca è unaccozzaglia di sentimentalismo condito da una spiritualità che se fosse un po più accentuata sarebbe quasi new age, di consigli della nonna e di abitudini e tic identitari, inglobato nella più grande ONG di servizi sociali al mondo, che come ogni ONG si specializza nellopacità dei bilanci e nella veemenza dellazione lobbystica. Da questo punto di vista il buon Bergoglio, che ogni giorno somiglia di più a Giovanni Rana, è il testimonial perfetto.
Però, visto che le ubbie teologiche sono un passatempo innocuo, un po come i cruciverba o la filatelia, mi diverto ancora a vedere come si inventino toppe che peggiorano il buco: la vecchia teodicea riusciva in qualche maniera a venire a capo del problema del male nella creazione, o per lo meno a fare ammuina in modo passabile, ma tutta questa faccenda dellamore come essenza mi pare che finisca per porre in modo inedito il problema della forma del creato, che è evidentemente inconciliabile.
N.

Un tempo la baracca produceva rompicapo sfiziosi, ora sta manica di assistenti sociali del cazzo è capace solo di sofismi fessi. Ancora con Ratzinger riuscivi ad arrabbiarti, ora è noia senza fine. Distinto, per riflesso condizionato, ti verrebbe di commentare ogni uscita di Bergoglio, ma, appena ci metti mano, ti senti più cretino di quanto lui si sforza di essere.  Caro Nane, è finita un’epoca: 
L.




[...]

Sul caso che ha visto per protagonisti Sarri e Mancini pare vada acquistando un certo peso l’opinione che Sarri abbia sbagliato, è vero, ma che Mancini abbia sbagliato anche di più, perché quanto accade su un campo di calcio è meglio che rimanga lì. Nessuno aveva sentito, Mancini avrebbe fatto meglio a non sollevare il polverone. Peraltro le sue lamentele hanno un tono che sembra eccessivamente vittimistico, insinuando il sospetto che almeno in parte siano strumentali. Se si volessero applicare al calcio le regole del vivere civile – si argomenta – si ammazzerebbe la poesia del gioco, si violerebbe il suo statuto di extraterritorialità rispetto al mondo che sta oltre i tornelli, nel quale daltronde galateo e codice penale faticano comunque nell’ottenere il rispetto che pretendono: dovremmo star di continuo a biasimare il terzino che sputa sull’erbetta la saliva resa densa dai suoi picchi di cortisolo e adrenalina, e su ogni sputo che riceve in faccia dal centrocampista che si è rotto il cazzo per il suo marcamento troppo stretto dovremmo sollecitare l’apertura di un fascicolo in Procura per il reato d’ingiuria, peraltro aggravato dall’essersi consumato in presenza di più persone. Tra insulti, minacce, pestoni e gambe tese, alla fine di ogni partita dovrebbero scendere in campo dozzine di avvocati? Nello specifico, poi, Mancini non è gay, dunque avergli dato del «frocio», peraltro nel vivace battibecco di prammatica a bordocampo, non ha gli estremi delloffesa dalla valenza discriminatoria, tutt’al più stava per l’ellissi di «questo non è un gioco da signorine».
È argomentazione che non mi convince e che ritengo addirittura pericolosa nella sua implicita pretesa di dare legittimità alleccezionalità di un contesto: può darsi che io esageri – sono disposto a concederlo – ma il fatto che quello del calcio sia diventato un mondo sempre più ingovernabile, così spesso legibus solutus, non può trovare origine nellaver dato per scontato che dare del «cornuto» allarbitro non implicasse diffamazione della di lui signora?

martedì 19 gennaio 2016

L’apocatastasi bergogliana

Cercherò di renderla semplice e breve, perché, a trattarla come si dovrebbe, la questione dell’apocatastasi prenderebbe pagine e pagine, mentre qui la evoco solo per la sua relazione con la peraltro controversa faccenda dell’illimitatezza della misericordia divina, che troverebbe una insanabile aporia nel limite impostole dal fatto che Dio sarebbe anche somma giustizia, con quanto di inesorabile vè nella somministrazione della pena, soprattutto se eterna. Cè chi afferma, in realtà, che l’apocatastasi sia da intendersi come il compiersi della definitiva sovranità di Dio sulla totalità dell’Essere, nella quale, dunque, non avrebbe senso rappresentare alcun genere di contraddizione o, ancor peggio, di conflitto tra piena giustizia e infinita misericordia. Di fatto, tuttavia, pare di piana evidenza che il Sommo Bene non possa esercitare la sua piena sovranità sulla totalità dell’Essere senza che il Male sia annullato nelle cause e negli effetti, e che in sostanza non possa esservi apocatastasi laddove il peccato lasci traccia di sé fosse pure nella sola espiazione della colpa. Tanto basterebbe a quanto ci serve, ma nel caso vogliate approfondire, vi suggerisco quanto ne ha scritto Vito Mancuso ne Lanima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007) e quanto ne ha detto monsignor Manfred Hauke in una lectio che non faticherete a trovare su Youtube (Apocatastasi della Chiesa antica), meglio se dopo aver dato una scorsa al lemma su Wikipedia, tutto sommato abbastanza precisa e con un discreto corredo bibliografico a supporto.
A renderla semplice e breve, invece, qui basterà dire che, se fosse mantenuta la promessa che alla fine dei tempi vi sarà una restaurazione (αποκαταστασεως) di tutti e tutto in Dio (At 3, 21), dovremmo aspettarci una redenzione universale che escluda ogni possibilità di dannazione eterna: per quanto a lungo possano durare, infatti, i sæcula sæculorum sono tempo di cui è certo si avrà una fine, oltre la quale, perché la promessa sia mantenuta, anche il più grave peccato dovrà trovare perdono, al punto che lo stesso Satana si ravvederà e si convertirà, sicché linferno che il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce come «separazione eterna da Dio» (1035) non avrebbe senso se non nei sæcula sæculorum che danno la misura di una «eternità» che è comunque un concetto temporale, ma non dopo di essi, quando i tempi avranno avuto la loro fine.
Volendo, ve ne sarebbe abbastanza per dare una solida base teologica allinfinita misericordia divina che è il gonfalone di questo pontificato, e che fa impazzire gli orfani di Ratzinger, nutriti per otto anni dalla solida certezza che a ogni peccato debba necessariamente corrispondere una pena, salvo il pentimento che ristabilisca la perfetta coincidenza di Buono, Giusto e Vero: un misericordia infinita rende superfluo il pentimento, con quanto ne consegue in detrazione alla Verità, in sospensione della Giustizia e, ciò che è peggio, in perdita di quella cogenza precettistica che sta nel Bene come retta via da seguire per evitare punizioni. Che fine potranno mai fare i comandamenti di un Dio che, dovendo reintegrare tutti nella totalità dellEssere di cui sarà sovrano, sappiamo che perdonerà comunque ogni peccato? Se non è vuoto, l’inferno dura appena per l’eternità che precede l’apocatastasi? E chi sarà dissuaso dal peccare, o persuaso al pentirsi dopo aver peccato, sapendo che un Dio infinitamente misericordioso alla fine dei tempi chiuderà un occhio?
Il problemino – perché un problemino c’è – nasce dal fatto che l’apocatastasi è un’eresia ripetutamente condannata nel corso della storia della Chiesa, ma nessuno riesce a costruire per Bergoglio un capo d’accusa che la additi a substrato della sua pastorale. Probabilmente neanche sanno cosa sia. 

lunedì 18 gennaio 2016

Tanti saluti

Il matrimonio tra due persone dello stesso sesso, no, per carità di Dio. Però neppure qualcosa che somigli troppo a un matrimonio, chessò, si parli di formazione sociale specifica, in modo che lo specifico sottolinei la diversità. E ovviamente no alladozione di un bambino, neppure se è figlio di uno dei due: ladozione renderebbe troppo genitore anche quello che non lo è, meglio qualcosa tipo un affido rafforzato, ma, mi raccomando, senza rafforzarlo troppo...
Ecco, quando non è un no secco al riconoscimento giuridico dellunione di due gay o di due lesbiche, questo è pressappoco quanto si è disposti a conceder loro in questo paese di merda, e per giunta a fatica: briciole di diritto. Poi, se e quanto saranno concesse, saremo costretti pure a considerarla una rivoluzione culturale, perché a dire che è poco cè il rischio di sembrare degli oltranzisti.
Di più non si poteva – verrà a spiegarci quel brachicefalo di uno Scalfarotto nei tg della sera – e poi si tratta comunque di una grande conquista. In fondo mica siamo lInghilterra. E nemmeno la Spagna, nemmeno lArgentina, nemmeno lUruguay. Un po meglio della Bielorussia e dellArabia Saudita, però, sì. E mica è poco, via, gonfiamoci dorgoglio. Con moderazione, però, sennò chi voleva che tutto rimanesse uguale a prima può irritarsi e cè il pericolo che si creino lacerazioni.
Prendiamola con ironia, su, tanto siamo etero e può fregarcene solo fino a un certo punto, sai a quanto può servire star lì ad argomentare che, no, la Corte costituzionale non ha posto alcun divieto al matrimonio gay. Ciascuno lotta con le forze che ha, ed è evidente che la fantomatica lobby gay ne aveva meno di quella dei tassisti: non meritava di più, non stessero a romperci i coglioni. Altro che pubblicare i nomi dei cattodem contrari alla Cirinnà, avrebbero potuto almeno romperne le ossa a due o tre, ma, si sa, son cose incivili. E allora è giusto che vada così. Tanti saluti.

sabato 16 gennaio 2016

Puff!

Ve la siete persa? Oh, era uno spettacolo. Roteava gli occhi come il nonno alle parate militari, strillava come la zia ne La Ciociara... Parlo di Alessandra Mussolini, se non s’è capito? L’altrieri era a La7, si parlava della Cirinnà... Che temperamento! E che cuore! Dovevate sentirla...
«I bambini, no!... Una coppia omosessuale adotta dei bambini: di chi?... Nessuno pensa a cosa succede nella psiche del bambino?... A questo bambino tu gli dovrai dire: “Guarda, amore, la mamma è questa, però non vive col papà, ma con quest’altra donna. E il papà? No, il papà non c’è: c’è un seme che mammina è andata a prendere in una banca...”. Io dico: perché tu devi violentare un figlio e farlo crescere in una situazione anomala?».
Dite quello che volete, ma vi confesso che, pur essendo a favore della stepchild adoption, ho avuto un moto simpatetico. Cazzo, mi son detto, mica ha tutti i torti. Vaglielo a spiegare, a un bambino... È imbarazzante, via.
Poi, d’un tratto, mi si è acceso un lume. Mi son detto: ma sbaglio o questa qui è la moglie di Mauro Floriani, quello pizzicato a Roma con le puttane minorenni? Sbaglio o i due hanno tre figli? E allora che senso ha sollevare la questione dell’imbarazzo? Come avrà spiegato ai figli, la Mussolini, che il loro babbo dava dei soldi a delle ragazzine per inchiappettarsele? E potrà essere stato meno imbarazzante di quanto può esserlo per una mamma lesbica dire al figlio che è nato grazie alla fecondazione assistita? E allora di che parliamo?
Puff! Del moto simpatetico, manco più l’ombra.  

venerdì 15 gennaio 2016

Diciamo

«La verginità è lideale verso cui deve orientarsi
la vita di qualunque cristiano. Daltra parte,
la realtà del rapporto uomo-donna ha sostanziale
funzione di arricchire di figli la Chiesa»

Luigi Giussani,
Il Movimento di Comunione e liberazione,
Jaka Book 1987 - pag. 102


In attesa che limputazione a carico di Stefano Binda trovi riscontro in una condanna, ci è lecito considerare il quadro che emerge dallipotesi accusatoria? Si tratterebbe di un omicidio maturato nel mondo di Comunione e liberazione in difesa del principio che i rapporti sessuali prematrimoniali sono moralmente deprecabili.


[...]

Chi ha letto ciò che in passato ne ho scritto su queste pagine saprà che col M5S non sono mai stato tenero. Qui non starò a ripetere il già detto, ma, a scanso di equivoci su quanto segue, premetto che non ho cambiato idea, anzi, penso sia del tutto irrilevante ciò che fa la differenza tra il M5S di due anni fa e quello di oggi: quella grillina resta cosa populista, tuttal più buona, nel caso vi riuscisse, a levarci dai coglioni quella gran merda di Matteo Renzi, dinanzi al quale perfino Silvio Berlusconi riesce ad acquistare qualche merito. In tal senso, credo che un ballottaggio tra M5S e Pd sarebbe una partita tra populismo dal basso e populismo dall’alto, tra neogiacobinismo e neobonapartismo.
Ciò detto, richiamerei lattenzione a un vizio ormai assai diffuso, trasversale a posizioni anche molto distanti, e dal quale spesso non è immune neppure chi potrebbe permetterselo perché fuori dalla quotidiana rissa che si consuma tra gli avventori della cronaca politica italiana: parlo di quellargomentare a discredito del M5S con strumenti retorici vistosamente scorretti, e per scorrettezza non mi riferisco ai toni, ma proprio alla sostanza degli argomenti, che spesso mostrano una patente fragilità sul piano logico, primo fra tutti laddebitargli colpe che in realtà sarebbero davvero tali solo se la sua natura non fosse dichiaratamente atipica, e ciò non fosse pienamente legittimo. Pare che a tanti sfugga, infatti, che in Italia i partiti non sono persone giuridiche, ma associazioni private che devono coerenza solo allo statuto che si danno, su regole che stanno in giudizio solo di coloro che le presiedono e dirigono, ai quali è spesso dato un potere di deroga tutto discrezionale. Bene, tutto si può rimproverare al M5S, tranne il fatto che il suo statuto sia mai stato violato, e stranamente – stranamente per modo di dire – parrebbe che sia proprio questa la sua maggiore colpa. Si realizza così il paradosso che ai grillini vengano rivolte le critiche più aspre proprio nelle occasioni che confermano la loro fedeltà assoluta allo statuto: sembra non aver peso il fatto che nel M5S si entri e si resti fino a quando si è disposti ad accettare delle regole, per essere costretti ad uscirne quando si violino.
Se già questo basta a far cadere ogni critica intellettualmente onesta rivolta alla vita interna del movimento, la costante adesione al programma che esso si è dato dovrebbe far cadere anche quelle rivolte a questo o quel passaggio della sua azione politica. Non mi si fraintenda: si è pienamente autorizzati a ritenere aberranti luno e laltro, è ovvio, ma non ha senso, che non sia strumentale, contestarli in quanto atipici, per poi trovarne il loro maggior difetto nel fatto che vengano coerentemente rispettati. Questo errore di argomentazione, che in più di un caso sembra sia intenzionale, rivela quel sottaciuto convenire sul fatto che un partito o un movimento siano in diritto di violare il proprio statuto e di tradire il proprio programma in forza dello stato di necessità di volta in volta imposto da accidenti interni o esterni, sicché la colpa del M5S sarebbe nel non usufruirne a vantaggio di un utile che in definitiva tornerebbe solo al sistema politico, che d’altronde i grillini dichiarano di voler abbattere. In sostanza li si accusa di essere irriducibili, considerando superfluo contestarli nel merito delle loro proposte, che pure sono dichiaratamente alternative a quelle del restante quadro politico, producendo così un altro paradosso: al M5S si addebita la colpa di essere astruso alla sola ragione sociale che i partiti della Seconda Repubblica non hanno smarrito rispetto a quelli della Prima, sebbene tra luna e laltra essi abbiamo radicalmente cambiato struttura e funzioni. 
Tutto questo mi pare emerga in modo esemplare dalle accuse che gli sono state mosse sul caso che ha riguardato il Comune di Quarto.
Al M5S si rimprovera di aver imbarcato un tizio che oggi è indagato per maneggi con la camorra e – insieme – di averlo espulso appena se ne è venuti a conoscenza, senza che il reato che gli si attribuisce sia passato in giudicato: sembra non avere alcuna importanza che il reato si sia potuto consumare, se veramente è stato consumato, solo in virtù del fatto che il tizio, candidato nella lista del M5S, sia poi stato eletto; né sembra averne alcuna il fatto che, al momento della sua candidatura, non vi fossero elementi tali da farla ritenere inappropriata, mentre allo stesso tempo si ha da ridire sulla ventilata ipotesi che d’ora in poi il M5S sottoponga i propri candidati all’esame della Commissione antimafia. In sostanza, sembra faccia piacere che un eletto delle liste grilline si sia rivelato una mela marcia, ma si ritiene irrilevante che sia stato tempestivamente espulso dal movimento; si ritiene dimostrato che il metodo di selezione dei candidati fin qui adottato non sia pienamente efficace, ma allo stesso tempo si contesta che i grillini ne cerchino uno più sicuro, per giunta affidato ad un’autorità esterna, e questo dopo aver contestato al M5S la sua struttura settaria e la sua natura proprietaria.
Così per quanto attiene al sindaco: via via che si andava chiarendo la sua posizione nella vicenda, che al momento ha di sicuro solo che abbia opposto resistenza alle richieste della malavita locale, il M5S ha adottato nei suoi confronti una linea aderente ai precetti statutari e ai principi programmatici, dalla difesa all’espulsione, e tuttavia non sono mancate critiche per l’una e per l’altra, in entrambi i casi avendo a criterio di accusa quello di una supposta incoerenza che in realtà era l’arrancare della coerenza dietro il progressivo chiarirsi delle posizioni. Quello che dà esatta misura della logica argomentativa che regge la pronuncia d’accusa è tuttavia il massimo capo di imputazione: il M5S non sarebbe stato capace di dimostrarsi impermeabile allinfiltrazione di elementi legati alla malavita organizzata, com’è per ogni altra formazione politica. E questo accade in un caso dove linfiltrazione è stata solo tentata, e a carico della formazione politica che era la sola a presentare una lista alle elezioni comunali. Ciliegina sulla torta: si erge a pubblico ministero la formazione politica che attraverso uno dei suoi esponenti aveva già stretto un patto con l’organizzazione malavitosa locale, poi saltato perché non aveva potuto presentare una lista, vincere le elezioni, e rispettarlo. 
Il M5S resta quel che è, ma i suoi detrattori dimostrano di non potersi permettere argomenti validi per metterlo in discussione. Troppo poco per ignorare gli argomenti validi, che non mancano, ma fin troppo per augurarsi che quelli invalidi soccombano alla prova dei fatti. 

giovedì 14 gennaio 2016

martedì 12 gennaio 2016

[...]


«Può accadere qualcosa di straordinario»

Nell’edizione cartacea dell’intervista che Gennaro Nunziante ha concesso a Luca Telese (Libero, 11.1.2016) va perso un passaggio che invece è riportato in quella on line, e sul quale credo sia interessante soffermarci.
«“Sole a catinelle” – dice Nunziante – era, sotto l’apparenza giocosa, un film sulla crisi. “Quo vado?” è un film sulla terribile condizione di questo tempo, vivere con la precarietà».
«Cioè?», chiede Telese.
Nunziante dice: «Guardare il futuro provando paura. Una condizione che ti paralizza e che scatena i lati peggiori degli umani. L’imprenditore vede come minaccia il suo dipendente invece che considerarlo una risorsa, il dipendente che non prova attaccamento per la sua azienda, l’imprenditore che cerca di speculare il più possibile, il lavoratore che non s’impegna nel lavoro perché avverte l’imprenditore come uno speculatore».
«E cosa può accadere con questo scenario?», chiede Telese.
«Può accadere qualcosa di straordinario – risponde Nunziante – se parte una stagione riconciliante. In questo senso la politica deve mostrarsi illuminante, dialogando con le parti, tutte le parti, altrimenti non si va da nessuna parte».

È da rilevare che nell’edizione cartacea compare, invece, un passaggio che è assente in quella on line: «Non puoi far passare il mercato del lavoro da ipergarantito a iperselvaggio, dalla mattina alla sera – dice Nunziante – Servono tutele, garanzie, non puoi lasciare la gente nel nulla e dirle: “Arrangiati!”».
Tralasciando le ragioni che possano spiegare la differenza tra le due edizioni, c’è da supporre che i due passaggi vadano integrati, con ciò ricomponendo quello che a pieno diritto può dirsi un manifesto politico. Ed è qui che trovo conferma di quella «insana aspirazione a farsi Partito della Nazione» (Malvino, 1.1.2016) che nel «fenomeno Zalone» a me pare più che evidente.

La «riconciliazione» è intesa come sospensione della dialettica dei conflitti sociali, come reductio ad un unum delle partes che giocoforza non possono esprimere altro che interessi contrapposti, con la conseguente omogeneizzazione dei partiti su un progetto senza alternative, sostanzialmente di tipo organicistico. È il ritorno al corporativismo, ma ovviamente in versione light, col tanto di vago che lasci nel dubbio se lintenzione sia quella di andare a pescare nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa o nella Carta del Lavoro del 1927. 
So che solleverò perplessità con quanto dico: credo che siamo dinanzi al progetto di blocco sociale che abortì in mano a Silvio Berlusconi, ma che, con la dovuta operazione di restyling, è riproposto da Matteo Renzi. Con maggiori possibilità di buona riuscita, occorre dire, perché stavolta il paternalismo è assai meno arcigno: «Noi vorremo dire, anche attraverso la maschera beffarda di Checco, che non puoi colpire i più deboli».
Si dia inizio, ordunque, alla «stagione riconciliante»: promettano di non rompere il cazzo e chi di dovere riuscirà a mostrarsi «illuminante». (Qui, forse, Nunziante intendeva dire «illuminato», ma Checco ha preso il sopravvento.) 

Va un po’ meglio ultimamente

Dove sapplica la sharia, se non hai quattro maschi adulti disposti a testimoniare che davvero hai subito uno stupro, passi per adultera, e ti lapidano. Qui da noi? Ultimamente le cose vanno un po’ meglio, ma fino a ieri, in tribunale, c’era sempre un avvocato ad insinuare che eri stata consenziente. Se poi al momento dello stupro non indossavi uno scafandro, ma una gonna, l’onere della prova di non essere una zoccola era a tuo carico: «Signorina, vorrà mica rovinare la vita a questo povero ragazzo, colpevole soltanto di aver ceduto alle sue esplicite profferte? Vorrà mica che sia lui a pagare il prezzo della sua tardiva resipiscenza?».
Va un po’ meglio ultimamente, ma poi non tanto. Apri Il Foglio, ieri, e sui fatti di Colonia eccoti Ferrara: «C’è del masochismo occidentale in questo incontro e scontro di corpi e intorno al corpo secondo la linea immemoriale dell’attrazione e della repulsione?».
Non s’indigni, Fräulein, è solo una domanda, risponda senza alterarsi: non è che sotto sotto, a Frankenplatz, la molestia le è piaciuta? Via, sia sincera, non pensa che quanto le è accaduto dipenda dal fatto che mancano «leggi di dissuasione della libertà panica dei costumi»? Suvvia, non è disposta ad ammettere che quanto le è accaduto dipenda dal fatto che intimamente lei è un po’ troia? No, aspetti, ho posto male la domanda, figurarsi se Ferrara è tipo da darle esplicitamente della troia... Diciamo così: «La brutalità dell’amore panico per tutti, questa specie di turismo di massa delle anime e dei corpi, non porta con sé solo piacere». Insomma, lei è troppo disinibita, dunque meritava una lezioncina.    

Comunicazione di servizio

Non so cosa sia successo, ma le email di avviso di commenti in moderazione relativi agli ultimi post erano finite tutte nella cartella dello spam. Mi scuso con quanti in questi ultimi giorni non hanno visto pubblicati i propri commenti. Nei prossimi giorni risponderò a quelli che sollevano obiezioni, intanto un grazie a quanti mi hanno dato il bentornato.

lunedì 11 gennaio 2016

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Col cartello che recita «vietato fumare» siamo dinanzi al caso in cui la norma dichiara circoscritta la sua sfera dazione indicandone i limiti: il divieto vige entro il perimetro del locale nel quale è affisso il cartello. Solo apparentemente le cose stanno in altro modo con limperativo «non uccidere» che leggiamo sulle tavole mosaiche: qui sembrerebbe che il divieto valga sempre e dappertutto, e tuttavia a dettarlo è lo stesso Dio che poi comanda siano uccisi gli idolatri, gli apostati, le adultere, i sodomiti, quanti non abbiano rispettato lo Shabbat, quanti abbiano contravvenuto agli ordini paterni, ecc.
Si sarebbe autorizzati a credere che ogni divieto abbia dei limiti, tanto meno precisabili quanto meno sembrerebbe che la norma intenda darsene, comè nel caso di quella morale, che ha sempre in sé la vocazione a dichiararsi universale e inderogabile, ma che immancabilmente è costretta a concedere eccezioni, anche quando sembrerebbe non ammetterne: «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39), va bene, ma allora a che ti serve la spada (Mt 10, 34)?
Se è così per ogni norma, pare inevitabile che questo accada anche nel caso della massima, che è sì il principio che intende regolare una condotta, ma pure la sentenza, il motto, il brocardo attraverso cui questo si esprime: più lapidaria sarà la frase, meno il principio che essa espone si rivelerà inviolabile, perché è proprio la brevitas in cui essa si dà a lasciar spazio per le note a pie di pagina, nelle quali anche la più «dura lex» fa i conti con riserve, dispense e strappi. In fondo, è proprio su questo paradosso che laforistica ha costruito la propria fortuna: apodittica per statuto, esaurisce tutta la sua cogenza precettistica nello spazio di una frase, non di rado compiacendosi di contraddizioni interne.
Lunico ambito in cui la norma parrebbe farsi legge inviolabile è quello della logica, ma pure qui, immancabilmente, si piega alle necessità del suo più comune impiego, che è quello della persuasione. [Qui evito ulteriori considerazioni rimandando altrove, ai punti III e V.]

Quando Ludwig Wittgenstein dice: «Lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui», sembra volerci dare un consiglio buono sempre. In realtà troviamo questa frase tra quei Pensieri diversi che Georg Heinrik von Wright raccolse qua e là nei suoi manoscritti, dove erano appuntati come annotazioni a margine della pagina. Così contestualizzato, il monito è rivolto a sé solo, e per quella sola pagina, sennò non si capisce che senso avrebbe nel suo Tractatus logico-philosophicus il punto 1.1 («Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose»), dopo averci già detto che «il mondo è tutto ciò che accade» (1) e dovendo poi affermare che «ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose» (2). Per meglio dire: avrebbe senso solo per esplicitare un passaggio implicito, ma da chiunque agevolmente desumibile.
E tuttavia «lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui» sta in esergo o a conclusione di questo o quel manuale di retorica, come tacita ammissione dellinevitabilità del vulnus che la logica argomentativa deve subire nel foro in cui luditorio sia gravemente incapace: per quanto si possa render conto nel dettaglio di ogni più minuto passaggio . Che mi pare sia la dolente ammissione che una norma dinanzi alla quale siamo tutti eguali sostanzialmente non esiste. E passi per quella giuridica, passi pure per quella morale, ma doverlo ammettere pure per quella che dalla logica informa largomentazione, da un lato, costringe allapparentamento della democrazia con la pedagogia (non è un refuso per demagogia: proprio pedagogia) e, dall’altro, impone che la prima esaurisca ogni suo fine in ciò che è dato dai mezzi della seconda. Come ai maestri è dato constatare con i propri allievi, non viceversa. 

domenica 10 gennaio 2016

Fossili di lunga cova


In una scatola che avevo dimenticato di aprire dopo l’ultimo trasloco, e che da anni riposava in un ripostiglio sotto una pila di vecchie riviste, ho ritrovato le opere di Gaetano Mosca, più volte cercate invano, e una dozzina di taccuini riempiti tra il 1985 e il 1988, che credevo fossero andati definitivamente smarriti. Leggendoli, sono stato ripetutamente tentato di postare su queste pagine quello che scrivevo allora su Craxi e sui craxiani, per infine risolvermi a desistere, certo che neppure un cane avrebbe creduto al fatto che si trattasse di roba vecchia di trent’anni: anche il più candido dei miei lettori avrebbe avuto buon diritto di leggere Maria Elena Boschi dove trovava scritto Claudio Martelli, Oscar Farinetti invece che Filippo Panseca, autorizzato a sospettare si trattasse di un patetico artificio letterario. È che quei taccuini traboccano di profezie avverate. Per meglio dire, di preghiere esaudite. Meglio ancora, di maledizioni andate a segno. Se a quei tempi fosse esistito il web, le avrei rese pubbliche? Ripensando a com’ero allora, non credo. Dunque restino dov’erano, fossili di lunga cova.

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Potendo scegliere – anzi, no, diciamo: costretti a scegliere – preferireste che vostra madre, vostra moglie, vostra figlia fosse molestata, aggredita, stuprata da un senegalese, da un rumeno, da un canadese o da un vostro connazionale? Domanda stronza, vero? Concordo, ma è che resto ai margini della questione sollevata dai fatti di Colonia incapace di affrontarla come pare sia dobbligo, e onestamente mi pare che sia posta in modo davvero infelice, quasi a volerla rendere irrisolvibile, buona tuttal più a rimarcare posizioni di principio, irriducibili. Più in generale, mi pare che questo accada per quasi tutte le questioni sollevate, più o meno direttamente, dal processo di trasformazione cui le nostre società occidentali sono indotte dal fenomeno migratorio. E mi chiedo quanto vi sia di intenzionale.
Per quanto attiene al terrorismo di matrice islamista, ad esempio, mi verrebbe da chiedere: costretti a scegliere, preferireste morire sotto i colpi di un AK-47 imbracciato da un autoctono o da un allogeno? Per meglio dire: costretti a dover subire una morte violenta, considerereste rilevante che a farvi fuori sia un pazzo uscito da una madrasa wahhabita o da un college dell’Oregon? Se sì, preferisco restar fuori dalla discussione. Se invece non vi fa differenza, parliamo pure, ma liberando il problema dal bozzolo in cui è stato avvolto dall’isterica logica emergenziale. 

martedì 5 gennaio 2016

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a M.B.

È vergognoso che i responsabili della morte di Stefano Cucchi restino ancora impuniti. Ciò detto, è così difficile aggiungere che è vergognoso pure ciò che ha fatto sua sorella? Beh, pare lo sia, e le ragioni che ella ha addotto a spiegazione del suo gesto, risibili a ogni onesto intelletto, trovano un’indulgenza che mai ti aspetteresti dal fior fior di garantisti che son pronti a bacchettarti senza pietà se neghi la presunzione d’innocenza pure a chi è stato sorpreso in flagranza di reato.
«Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso». Neanche cè stato il primo grado di giudizio, e già siamo sicuri che a pestarlo e ucciderlo sia stato chi Ilaria Cucchi è convinta labbia fatto. Possiamo esserne convinti anche noi, ma siamo certi che in attesa della condanna sia opportuno esporlo alla gogna per poi far finta di essere sorpresa e dispiaciuta che su di lui sia piovuto il peggio del peggio? «Volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello», ma evidentemente non bastava averle viste, era necessario darle in pasto alla bestia.
«Volevo farmi del male»? Ma non diciamo sciocchezze, a premere era lurgenza di avere un acconto di risarcimento per il dolore provato. E sì che «chiedo scusa per aver fatto una stronzata» sarebbe stato tanto più dignitoso. Macché, «se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui», come a declinare ogni responsabilità per ciò che nella migliore delle ipotesi era stata una leggerezza.
«Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza», ma «noi» chi? Se gli insulti e le minacce che non sono tardati a gonfiare la pagina dei commenti sono violenza in risposta alla violenza, quale potere pretende di poter avere, Ilaria Cucchi, nel neutralizzarla dopo averle dato la più irresistibile delle occasioni per scatenarsi?
E che cazzo di spiegazione è quella che offre alla decisione di postare una foto del carabiniere indagato per la morte del fratello? Ha detto che intendeva mostrare al gentile pubblico di un social network «la fisicità e la mentalità di chi ha fatto del male». Dalla «fisicità» è possibile dedurre la «mentalità»? Non lapideremmo chiunque cercasse di convincerci che è dall’aspetto fisico di Tizio che possiamo attribuirgli o meno questo o quel particolare vizio morale?
Ma sia, concediamo a Ilaria Cucchi tutte le attenuanti del caso: ha fatto una stronzata, non è stata capace di riconoscerla in quanto tale, nel caso sarà chiamata a risponderne nelle sedi deputate. A far girare i coglioni, tutto sommato, non è lei, ma quello che è potuto uscir di penna a chi si è affrettato a indossar la toga per difenderla. Tralascio le arringhe di Mantellini e di Capriccioli – per una volta la veritas si fotta perché Plato resti amicus – e prendo in considerazione solo quella di Manconi.
«Non è accaduto a me che uno stretto familiare trovasse la morte in un carcere... dunque, non posso e non devo — e non voglio — valutare...». Ma che cazzo stai a di’, Manco’? Perché non hai mai subito la perdita di un familiare messo sotto dall’auto guidata da un rumeno ubriaco, ti astieni dal giudizio su chi l’ha subita e chiede che il colpevole sia condannato a morte? Non ti ci vedo proprio.
«Viviamo in un paese dove alcuni sindacalisti felloni e pavidi, che dicono di rappresentare le forze di polizia perché ne difendono gli esponenti più criminali, da anni oltraggiano i familiari delle vittime. E in un paese dove politici senza vergogna e senza Dio così hanno definito Stefano Cucchi: “tossicodipendente anoressico epilettico larva zombie”; e un pubblico ministero, responsabile della prima e sgangherata inchiesta sulla morte del giovane geometra, invece di perseguire i responsabili così parlava della vittima: “tossicodipendente da quando aveva 12 anni”. E ora tutti questi sono lì, col ditino alzato e l’aria severa, che impartiscono lezioni di galateo a Ilaria Cucchi. È davvero irresistibile la voglia di mandarli, come minimo, al diavolo». Beh, Manco, da un fine polemista come te, sempre così attento alle fallacie altrui, non mi aspettavo una confutatio così grossolana.
È come dici, non cè dubbio, per coerenza sta manica di stronzi non dovrebbe aprir bocca. Ma unaffermazione non dovrebbesser vagliata indipendentemente da chi lha fatta? Chi è daccordo con la tua rappresentazione del paese, chi ritiene che i colpevoli della morte di Stefano Cucchi debbano pagare per quanto hanno commesso, avrà il diritto di dire che sua sorella si è comportata di merda? O vige la regola che i nostri hanno sempre ragione?

Guerre di religione

Negli oltre trentanni in cui cattolici e protestanti si sono scannati in Irlanda del Nord (1972-2005) vè mai stato qualcuno che abbia tentato di spiegarci quel conflitto come una disputa teologica sugli effetti della Grazia? Quando, ad esempio, lIra fece 28 morti e 36 feriti con unautobomba a Omagh – era il 1998, praticamente laltrieri – vi fu chi rubricò la strage come ennesimo capitolo di una guerra di religione? Macché, il coro fu unanime: si trattava di un attentato terroristico, lennesimo attentato ad opera di un movimento armato che rivendicava lindipendenza dellIrlanda del Nord dal giogo del Regno Unito. E il fatto che questo movimento si dichiarasse cattolico? Del tutto strumentale, non v’era dubbio. Per meglio dire, qualche dubbio poteva anche esservi: in prigione perché pesantemente indiziato di aver compiuto un attentato, un membro dellIra come Bobby Sands non aveva ricevuto un rosario mandatogli dal Papa? Ma no, la religione rimaneva un elemento tutto sovrastrutturale allo scontro tra unionisti ed indipendentisti, i terroristi dellIra ne facevano il paravento dietro il quale si battevano per una posta in gioco che era tutta politica. E il fatto che gran parte dei loro attentati cadessero in date dichiaratamente evocatrici dei più salienti episodi delle guerre di religione del XVII secolo? Un tentativo di accreditarsi come i discendenti della nobile schiatta di martiri cattolici immolatisi per strappare lIrlanda all’eresia anglicana. Ma era religiosa la posta in gioco per la quale tra il 1641 e il 1653 persero la vita più di 20.000 indipendentisti e quasi 15.000 unionisti? Gli storici dissentono.  
Come andava affrontata, dunque, la notizia della strage di Omagh, nel 1998? Prendiamo dallemeroteca un giornale a caso.

Il Foglio, 18 agosto 1998 - pag. 1

Sette righe, nessun riferimento alla matrice cattolica del gruppo terrorista, nessun articolo di approfondimento sulla relazione tra fede e violenza, e sì che la storia del cristianesimo è sempre stata un mattatoio a cielo aperto. La religione non era in discussione, punto. Strumentale era l’uso che ne facevano i terroristi, strumentale sarebbe stato riconoscergliene la legittimità. 

Veniamo alloggi, a quella che, quando non è spacciata come guerra di religione che l’islam avrebbe dichiarato all’occidente giudaico-cristiano, ci si accontenta di spacciare come conflitto tra sciiti e sunniti. Prendiamo un giornale a caso dalla mazzetta.
Il Foglio, 5 gennaio 2016 - pag. 4
Sciiti contro sunniti, ma, sia chiaro, in quanto sciiti e sunniti, e cioè rappresentanti di due correnti religiose che in seno all’islam sono da sempre irriducibili: Iran e Arabia Saudita sono ai ferri corti per la vexata quaestio tra imamato e califfato, mica per il controllo dell’area mediorientaleÈ guerra di religione, signora mia, poco importa se dall’islam – tutto – in guerra contro l’occidente giudaico-cristiano passiamo in un battibaleno a due pezzi d’islam in guerra l’uno contro l’altro. 

   

domenica 3 gennaio 2016

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Quasi subito si scoprì che i dati dai quali Lancet aveva pensato di poter concludere che fossimo il paese dalla più bassa mortalità materna al mondo (2010) fossero stati ampiamente sottostimati, e che, volendo, si potesse addirittura dire il contrario, cioè che per numero di donne morte ogni anno a causa di eventi patologici correlati alla gravidanza, almeno in Europa, ci spettasse la «maglia nera» (2012). Unesagerazione, in entrambi i casi, e di lì a poco un rapporto dell’Istituto superiore della sanità chiarì che in Italia, per cause legate alla gestazione e al parto, si morisse né più né meno che nel resto dEuropa (2014), con percentuali che a tuttoggi, e ormai già da qualche decennio, sono le più basse sul pianeta. Stavolta non potevamo sentirci scandinavi, come nel 2010, né sub-sahariani, come nel 2012: sempre di circa 20 donne all’anno si trattava, come nel 2010 e nel 2012, ma non c’era «notizia». Oggi, invece, la «notizia» c’è: ne sono morte 4 in 4 giorni, e quanto può importare che la media annua non ne risenta?
Limpressione è che in Italia ne stia morendo una al giorno, la cosa merita le prime pagine, i titoli di testa dei tg, la discussione nei social network. La coincidenza non può essere casuale, è dobbligo sia «inquietante», «allarmante», «sospetta», azzardarsi a sollevare qualche dubbio sul fatto che si tratti di un’«emergenza» comporta il rischio di beccarsi il severo biasimo di voler minimizzare, ovviamente per torbidi interessi di parte. È consigliabile, dunque, che i medici tacciano. In momenti delicati come questi è poco opportuno che tentino di spiegare che certi eventi patologici con esito anche letale siano imprevedibili anche nelle migliori condizioni di monitoraggio. Men che meno si azzardino a dire che la gravidanza sia in sé e per sé una condizione di rischio, turberebbero la bucolica convinzione che si tratti di una «cosa naturale», meriterebbero l’accusa di stare a cercar scuse per negare i micidiali guasti della malasanità. È vero, la signora ha messo 25 chili in 9 mesi, ma, se è morta, qualcuno ha da pagare.

venerdì 1 gennaio 2016

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«Anche se in vita era un gran pezzo di merda, di un morto non si può dir altro che bene, perché il piacere che ci ha dato levandosi dai coglioni è tale da obbligarci a un tocco di gratitudine, e tacere per non doverne dir male è l’oblazione minima, mentre a non saper proprio star zitti è indispensabile riconoscergli qualche merito, che a frugar bene nella merda si trova sempre...».
Si tratta dell’incipit di un coccodrillo che ho scritto due o tre anni fa in morte di ***, e che tuttora riposa nell’apposita cartella in attesa di essere postato su queste pagine, quando sarà il momento, ma che qui mi sembra possa tornar buono anche a spiegare la ragione che ci impone il «nihil nisi bonum» anche su alcuni – pochissimi, in realtà – che sono ancora in vita: è che sono inoffensivi come lo sono i morti, e anche a loro d’altronde non manca qualche merito, che quasi sempre basta a che si taccia di tutto il resto.
Così mi pare accada per Luca Medici, cui non si può negare il merito di far ridere, che a tutti sembra poter bastare per sospendere ogni giudizio critico sulle cause e sugli effetti del riso che suscita, come fosse sconveniente, nella duplice accezione del termine (inopportuno fino disdicevole e infruttuoso fino al controproducente). Chi è morto non dà più fastidio, requiescat in pace, parlarne male è così inutile che arriva a sembrare ingiusto, perfino odioso: così con la comicità del Checco, perfettamente innocua, perché studiata al meglio per non ferire alcuno.
Si obietterà che, se fa ridere, la comicità ha necessariamente da avere un bersaglio, e quella del Checco ne ha tanti, a destra e a sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro, e tutti vengono colpiti, per giunta con la forza di una franca incorrectness. È vero, ma il trucco che la rende inoffensiva sta nel fatto che il colpo si compiace oltremodo dell’esser becero: in questo modo, e nello stesso tempo, a un certo pubblico è offerta l’occasione di un liberatorio sfogo a quello stesso tratto di becerume, mentre al bersaglio è dato il miglior agio di potersi difendere per l’esplicita bassezza del colpo.
Il caso più evidente è quello della canzoncina dedicata agli «uominisessuali», scritta nel modo giusto per poter piacere a tutti: agli omofobi, che nel «cozzalone» che definisce l’omosessualità «una brutta malattia» vedranno l’innocente naturalezza disintermediata dall’ossequio al conformismo che ha sdoganato «un’altra sessuità», esigendo l’equiparazione dei gay a «persone sani»; ma anche agli stessi gay, oltre a chiunque ritenga che i gay siano «gente tali e quali come noi, noi normali», perché l’attacco è neutralizzato dalla sua stessa sguaiataggine, ritorcendosi peraltro contro chiunque abbia intenzione di sferrarne uno simile.
Se si può far fatica a riconoscere questo espediente nella gag della durata di una canzone o di un’imitazione, esso diventa di piana evidenza nella trama del lungometraggio, che trova immancabilmente il suo lieto fine nel ravvedimento dello zotico che per un’ora e mezza ha squadernato quanto di meglio sapesse offrire in cinismo ed egoismo, in sessismo e razzismo. Ed è qui che la comicità di Luca Medici rivela il suo punto debole: non sapersi accontentare del far cassa in equilibrio sul sottile filo dell’ambiguità, che ancora miracolosamente regge, per l’insana aspirazione a farsi Partito della Nazione.