domenica 4 ottobre 2020

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Una seria analisi sulla natura e ancor più sulla reale efficacia dellistituto referendario porta inevitabilmente ad esserne assai scettici. Questo, però, è impossibile in Italia, perché la pubblicistica relativa al referendum sul divorzio e a quello sullaborto hanno creato il mito di una democrazia diretta in grado di essere un più che valido correttivo di quella rappresentativa, quasi che la possibilità di divorziare e quella di abortire siano uscite dalle urne refendarie del 1974 e del 1981 piuttosto che da due leggi ordinariamente licenziate dal Parlamento nel 1970 e nel 1978, che in realtà i promotori dei due referendum si proponevano di abrogare.

Spiegando come ero giunto a maturare il mio scetticismo sullistituto referendario, sette o otto anni fa su queste pagine citai ampi stralci tratti da tre articoli a firma di Arturo Labriola apparsi su Critica Sociale tra il 1897 e lanno successivo, dai quali avevo mosso i miei passi. Oggi vorrei riproporne un brano per invitare il mio lettore allascolto di un convegno che per titolo aveva Dopo il referendum: legislazione elettorale, bicameralismo, regolamenti parlamentari, tenutosi lo scorso 28 settembre presso lUniversità La Sapienza, a Roma: «Nei sistemi in cui accanto alla legislazione diretta sta il Parlamento – scriveva Labriola – la forza militare dello Stato, il potere esecutivo e la burocrazia dipendono soltanto dalle Camere dei rappresentanti. Senza dubbio queste, se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi».

A sostegno di questa tesi, si pensi al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici che si tenne nel 1993 e dove il sì ottenne il 90,1%: sotto forma di rimborso elettorale e di finanziamento pubblico ai rispettivi organi di stampa, dallerario continuò ad affluire denaro alle casse dei partiti politici. Un altro esempio? Quello del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, tenutosi nel 1987: l80,2% degli aventi diritto al voto si pronunciò a favore, ma il risarcimento dovuto a chi è stato vittima di un errore giudiziario continua ad essere pagato dallo Stato, non dal giudice che lo ha condannato. Perché porgere orecchio, allora, alle voci di chi è intervenuto al suddetto convegno? Perché credo che illustri a dovere in qual modo si possa pretendere di voler «vittoriosamente resistere» agli esiti di un referendum, che, in questo caso, è quello costituzionale dello scorso 20-21 settembre, relativo alla riduzione del numero dei parlamentari, dove il sì ha prevalso con il 69,9% dei voti. Non si prenda in considerazione, dunque, la tattica studiata per «resistere», ma le ragioni che giustificherebbero la «resistenza», in tutto e per tutto simili a quelle di chi sosteneva il no, segno evidente di quanto non possa essere bastato lesito referendario a chiudere la questione: la maggioranza degli italiani le ha rigettate, certo, ma esse sono considerate ancora valide nel motivare un tentativo di vanificare il risultato del voto. Con una ragione in più, però, perché in due o tre degli interventi è fatto esplicito riferimento al quasi 30% dei voti andati al no come a un partito in grado di sostenere la «resistenza».

Il risultato del voto del 20-21 settembre, insomma, avrebbe una validità solo transitoria, in attesa di vanificarne – sostanzialmente, se non formalmente – gli esiti. Paradossalmente, poi, è la natura stessa del quesito referendario ad essere considerata motivo valido a mettere in discussione il risultato: paradossalmente, perché il quesito è stato posto agli aventi diritto al voto con la formulazione voluta proprio dai promotori del referendum che per finalità avevano labrogazione di una riforma costituzionale varata dal Parlamento a stragrande maggioranza. In tutta evidenza, siamo dinanzi a un gruppo di individui – parlamentari e docenti universitari, per lo più – che senza dubbio «non vogliono accettare il voto popolare», e studiano il modo di «vittoriosamente resistervi».

venerdì 2 ottobre 2020

Sulla competenza

 

Di chi eccelle nei vari campi delle scienze naturali e di quelle umane (sospendendo, qui, la questione se queste ultime siano davvero scienze) si potrebbe dire che ha bravura, capacità, perizia, professionalità, ma da qualche tempo si preferisce dire che ha competenza, e la cosa non è tutta italiana, perché anche nella lingua oggi più parlata al mondo si preferisce dire che è competent piuttosto che able, capable, capacious, adept, expert, experienced, qualified o conversant. Cè un motivo che spiega questa scelta lessicale? Probabilmente sta nel fatto che competere ha altre tre accezioni oltre a quella che fa della competenza labilità che si può trarre da un idoneo bagaglio cognitivo e da una specifica esperienza: competere, infatti, vuol dire anche misurarsi, concorrere, lottare, contendere; in più, ciò che mi compete è anche ciò che mi spetta in termini di riconoscimento della legittimità del ruolo; ciò che mi spetta, però, è anche spettanza, e cioè compenso, onorario, parcella, provvigione. Chi è competente, insomma, non è soltanto un esperto, ma anche uno che deve misurarsi con altri contendenti per arrivare a conquistare una prerogativa relativa a un merito, da cui consegue di diritto un privilegio.

Chiarito questo, dovrebbe essere evidente il contesto in cui si muove il competent rispetto al semplice capable: è quello del mercato delle esperienze professionali dal quale la società è giocoforza tenuta ad attingere allo scopo di risolvere i problemi che le sono posti dalla necessità di dare risposta ai bisogni individuali e collettivi. Ne risulta che non è possibile alcuna considerazione relativa alla competenza dei competenti astraendosi dalle politiche che la società adotta riguardo a questi bisogni. Ovviamente, qui, società è sineddoche: sono i ceti dirigenti di una società che decidono le politiche relative ai bisogni individuali e collettivi, e che dunque dettano le norme che regolano il mercato delle competenze e, in ultima analisi, a decidere chi è competente e chi no.

Non cè da stupirsi, allora, che a una messa in discussione del ruolo svolto dai ceti dirigenti di una società, che è un dato pressoché costante ogni qual volta la risposta ai bisogni individuali e collettivi non sia adeguata, si accompagni una messa in discussione dei competenti che sono sul loro libro paga. È altrettanto evidente perché non sia solo il loro ruolo ad essere messo in discussione, ma la loro stessa competenza, che per quanto si è fin qui detto, non può essere considerata avulsa dalle logiche che hanno favorito un esperto rispetto a un altro, promuovendo a competente luno, e laltro no.

È una imperdonabile ingenuità, infatti, quando non è sfacciata malafede, sostenere che il sapere possa essere politicamente neutro. Ne abbiamo già parlato su queste pagine qualche anno fa, in occasione della ristampa de Il tradimento dei chierici di Julien Benda (Einaudi, 2012). In questo libro, uno dei tanti che sono più citati che letti, si denuncia la recente compromissione dellintellettuale col potere politico (il testo è del 1927 e Benda scrive che la cosa ha preso piede «da cinquantanni a questa parte»), che sarebbe da considerare come una vera e propria trahison, perché, quando è comme il faut, lintellettuale «non persegue fini pratici, ma, cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”». Lintellettuale comme il faut, qui, non è competente: sta fuori da ogni competizione indetta dal regno di questo mondo, ciò che gli spetta è la sola soddisfazione personale. Assumendo che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente, filosofo, scienziato e artista hanno funzione ieratica, attendono al sacro ufficio di pontefices che letteralmente costruiscono ponti tra trascendenza e immanenza.

In realtà, sappiamo, il sapere nasce già compromesso col potere, e questo vale per tutte le accezioni dei due termini. In quale epoca della storia umana il sapere non si è fatto strumento del potere? E come potrebbe essere altrimenti, visto che lintellettuale, al pari di ogni altro individuo, è un prodotto sociale anche quando assume assume connotati antisociali? Pare evidente, allora, che stupirsi – e, ancor più, indignarsi – perché le competenze dei competenti sono messe in discussione nei momenti di crisi riveli una fede nella trascendenza di buono, vero e bello, nel filone che da Platone arriva a Hegel, e purtroppo non sarresta lì: solo immaginando che filosofo, scienziato e artista ne siano i sacerdoti diventa scandaloso che essi siano messi in discussione, e con essi le loro competenze. Noi sappiamo, invece, che buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti alluomo, né in lui connaturati come universali ed eterni: sono sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali alla difesa di un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui. Questo ci consente di non considerare scandaloso che la competenza sia messa in discussione: quando accade, non sentiamo venir meno il reverenziale rispetto che si deve a un dio, ma la capacità di controllo sulla società da parte dei suoi ceti dirigenti.

mercoledì 16 settembre 2020

Raffaele Alberto Ventura, Radical choc, Einaudi 2020





«... probabilmente questa volta è davvero troppo tardi...»
(pag. 308)

Ho avuto modo di leggere a fine luglio lultima fatica di Raffaele Alberto Ventura (Radical choc – Einaudi, 2020), da ieri in libreria, perché, via email, lautore me ne ha inviato una copia in coda a un breve scambio di battute riguardo a quanto avevo scritto negli otto post apparsi su queste pagine tra aprile e maggio sotto il titolo «nulla sarà più come prima»/«tutto sarà come prima». Ho avuto anche modo di rileggerlo, dunque, e per ben quattro volte, perché, al netto delle critiche che qui saranno mosse a Radical choc – e anticipo che saranno critiche assai severe – occorre innanzitutto riconoscergli un pregio che di questi tempi non è da poco: si presenta come un saggio, e lo è davvero. In ciò è, senza dubbio, lavoro assai più serio dei suoi precedenti due, Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017) e La guerra di tutti (minimum fax, 2019), che in modo anche fin troppo autocompiaciuto si adeguavano alla logica dell’intrattenimento che oggi sembra essere imperante nella saggistica italiana, e che, nel recensire il secondo dei due volumi, mi ha fatto scrivere: «Nessuna articolazione, nessuna tesi, dunque neppure lonere dellargomentazione: immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni, suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma, scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che oggi è un must per l’intellettuale à la page» (Malvino, 18.7.2019). Forse troppo duro, concedo, ma è che ne La guerra di tutti ho visto, come scrivevo, nientaltro che «una glossa a Le ultime avventure di Gummo», un thriller metafisico tra il visionario e il grottesco dato alle stampe nel 2005, in cui, trasfigurato in Violent Unknown Event, già faceva capolino leschaton che poi sarebbe diventato il chiodo fisso di Ventura.
Sia chiaro, a buon diritto egli può sostenere che, con gli altri due volumi, Radical choc chiude (chissà perché, però, scrive «apre») una trilogia, ma ciò che era atmosfera in Teoria della classe disagiata, e posa ne La guerra di tutti, qui è finalmente discorso. Non so dire quanto questa progressione sia stata scientemente programmata, ma, dovessi ricorrere a unimmagine, direi che con Radical choc siamo al «vieni, ti farò vedere le cose che devono accadere» (Ap 4, 1), mentre in Teoria della classe disagiata tutto era sospeso in un assai ambiguo «quel tempo è vicino» (Ap 1, 3), e ne La guerra di tutti cera il monito alle sette chiese della post-modernità (Ap 2, 1 – 3, 22). Importante precisare, però, che, sulle «cose che devono accadere», Radical choc ci offre due finali. LApocalisse di Ventura, insomma, è interattiva col lettore, lasciandogli la scelta dello scenario che più sattagli al suo umore. Ma di questo si dirà poi.

Si presenta come un saggio, dicevo, e lo è davvero. Non rinuncia, tuttavia, a qualche gigionismo che oggi pare indispensabile a catturare lattenzione del lettore, in primis quel mix di alto e basso che da qualche tempo sembra un dovere di chi sente la premura di stornare il sospetto di accademismo, ma in gran parte le citazioni non sono esornative, una tesi che non sia data alla personale interpretazione del lettore cè e, se pure con qualche forzatura in due o tre passaggi, cè pure unarticolazione argomentativa. Resta il problema di quel «ton apocalyptique adopté naguère en philosophie», come definito da Jacques Derrida (1983) nel suo commento al Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie di Immanuel Kant (1796).
Derrida scrive: «Kant è sicuro che coloro che parlano con questo tono ne attendono qualche beneficio […] Quale beneficio? Quale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono far paura? Vogliono far piacere? A chi e come? […] In vista di quali interessi, a quali fini vogliono arrivare con queste proclamazioni accese sulla fine imminente o sulla fine già avvenuta?»; e, facendo propria lanalisi di Kant, sostiene che si tratta di «mistagogia escatologica»: «Lescatologico dice leschaton, la fine, o piuttosto lestremo, il limite, il termine, lultimo, ciò che viene in extremis a chiudere una storia […] Questa gente si colloca fuori dal comune, ma ha in comune questo: dice se stessa in un rapporto immediato e intuitivo con aria di mistero. […] Kant prende in considerazione tutta una lista differenziale e una linea storica di questi mistagoghi; ma riconosce a tutti loro un tratto comune: essi non mancano mai di considerarsi dei signori, degli esseri di élite, soggetti superiori, distinti, e a parte nella società».
Perché essi siano credibili, tuttavia, occorre che i segni della prossima fine (di un mondo, se non) del mondo siano altrettanto credibili. A tal fine, la forzatura è inevitabile, ma in fondo è da sempre che si fanno prognosi facendo violenza ai sintomi. Da quanto tempo i testimoni di Geova annunciano la seconda venuta del Messia e la fine dei tempi? Da quanto tempo i marxisti annunciano che le contraddizioni interne del capitalismo stanno per farlo implodere? Leschaton, daltronde, non dà costantemente ragione della sua urgenza nei momenti di crisi, seppure nella sua versione light (quel «nulla sarà più come prima» ormai diventato un luogo comune che pare appropriato pure ad ogni taglio di capelli)? Questa urgenza impone che il sintomo venga interpretato – insieme – come inedito e fatale. Sicché la seduzione o lintimidazione che lannuncio della catastrofe attende come premio implica una sorta di complicità da parte del lettore (quello che Ratzinger ha definito «anticipo di simpatia»), che non ho dubbi Ventura otterrà dal lettore che da sempre è il più comune, e cioè quello che non ha ragion dessere fuori dalla sua contemporaneità. 

Radical choc apre con una parafrasi dellincipit del Capitale di Karl Marx: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi». Una furbata o una cosa seria? Lasciamo scorrere il testo: «Viviamo in un mondo popolato da rischi. Nel corso della sua storia, la civiltà moderna si è data come obiettivo di controllare l’incertezza delegando sempre maggiori funzioni a una minoranza di individui specializzati che detiene il monopolio dei mezzi di produzione cognitiva: funzionari, tecnici, manager, intellettuali, scienziati, magistrati, periti...». Ma questo vale solo per la «civiltà moderna»? Non è così da sempre? Per le esondazioni del Nilo nell’Antico Egitto, per la peste di Atene, per decidere a Roma cosa fosse fas e cosa nefas, per interrogare le stelle sul raccolto a Tenochtitlàn, per sondare gli umori degli spiriti che aleggiavano sulla prateria navajo o sulla foresta del Borneo, il compito non era delegato a sacerdoti, oracoli, aruspici, sciamani, detentori del monopolio dei mezzi di produzione cognitiva? «Il Novecento ha segnato il trionfo di questa tecnostruttura, mostrando la sua capacità eccezionale di garantire sicurezza ma anche sviluppo: perché nella dinamica della modernizzazione la sicurezza è condizione dello sviluppo e lo sviluppo condizione della sicurezza». Questa relazione è esclusiva della «dinamica della modernizzazione»? In quale fase della storia umana si è avuto sviluppo senza sicurezza o viceversa? E quale Novecento ha segnato il «trionfo di questa tecnostruttura»? Non il primo Novecento, che in meno di trent’anni ha concentrato due immani massacri e una crisi economica senza precedenti. «Non avrebbe senso scrivere un libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili; lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare». E cosa c’è di nuovo? «Oggi il sistema tecnologico sembra fare fatica a riprodurre, in quantità e qualità sufficiente, quella stessa competenza di cui ha creato il bisogno». Oggi? Questo argomentare regge solo a ritenere loggi gravido di quell’inedito e di quel fatale che sarebbero stati sconosciuti all’ieri e all’altrieri. Solo così si può configurare come inedito e fatale lo scenario in cui, «a fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno competente nella pratica di quanto dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati: chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della minoranza istruita quella del popolo, e ai radical chic un radical choc». Scenario che, in realtà, fatale quanto si voglia, non è affatto inedito, né tantomeno ha la modernità come precondizione. Vabbè che oggi ogni acquazzone è una «bomba dacqua», ma duecentomila ghigliottinati tra il 1789 e il 1793 non sono un bello choc? Si direbbe che ogni sintomo che per Ventura fa prognosi di catastrofe imminente ci riesca solo a non riconoscerlo come ricorrente nel corso della storia, galleria di apocalissi annunciate tra aneliti palingenetici e pulsioni catartiche, tra conati chiliastici e orgasmi distopici, con un eschaton dietro l’angolo e un catechon a spostarlo dietro l’angolo successivo. Così, sì, vada per il «riflettere sulle condizioni di riproduzione e legittimazione di una specifica classe che usa la “conoscenza” come strumento di potere», ma quale classe dominante è stata in grado di potervi rinunciare?
E dunque? «La tesi sull’ascesa e la caduta dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti che verranno sviluppati nel libro. Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo così uno stiramento. Il terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione “populista”». Più che una tesi, dunque, una presa d’atto. E tuttavia egregiamente presentata come ipotesi da verificare. Può addirittura passare come onestà intellettuale, via. Poi c’è che, rispetto a tanta aria fritta che di questi tempi ci rifila la Premiata Rosticceria Einaudi, questa di Ventura almeno ha un po’ di gusto e consistenza: tempura di lessico marxiano, direi. «Proponendo un esame della contraddizione fondamentale del ciclo della modernizzazione...», e indubbiamente cè del croccante.

venerdì 31 luglio 2020

Normalità (La Grande Sineddoche / 3)


Un mese fa, via Twitter, Pier Luigi Castagnetti ci comunicò ch’era deluso: neanche la pandemia era stata in grado di cambiare «il modo di pensare degli italiani». L’aveva sperato, evidentemente. Ma invano.
Ora qui potremmo discettare a lungo se esista, o meno, un modo di pensare degli italiani e, se sì, quale sia. Fatto sta che «modo di pensare» è «atteggiamento mentale» (Devoto-Oli), «insieme di principi e di convinzioni caratteristico di qcn.» (De Mauro), e che «italiani» implica una generalizzazione che resta tale anche nel caso in cui Castagnetti avesse inteso dire, come è assai probabile, «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani», ecc. Discettarne, insomma, imporrebbe innanzitutto chiederci quanto sia corretto ridurre milioni di persone a un «qcn.».
Io credo sia corretto solo a voler concedere che esista quel «carattere nazionale» che invece per molti autorevoli studiosi di scienze sociali è mera costruzione letteraria: considerare posture, gusti, inclinazioni, tic, che peraltro lesperienza quotidiana ci mostra diffratti in infinite varianti, come fedeli e coerenti espressioni di principi e convinzioni, per sussumerli in un organico sistema etico-estetico, quello dell«eccezionalismo negativo», che, come ormai ampiamente dimostrato, è uno stereotipo da sempre funzionale a una polemica ad andamento carsico.
Su queste pagine, riprendendo la riflessione che sulla questione fu sviluppata quasi trentanni fa da Giulio Bollati (Litaliano – Einaudi, 1983), mi sono intrattenuto già due o tre volte su questo stereotipo, di cui oggi due storici, Francesco Benigno e Igor Mineo, ricostruiscono la genesi (LItalia come storia. Primato, decadenza, eccezione – Viella, 2020), a partire da Giacomo Leopardi («il più cinico de popolacci»), passando per Giuseppe Prezzolini («i cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi»), per Pier Paolo Pasolini («paese ridicolo e sinistro»), fino all«amoral familism» di Edward Banfield, in una scia di scorata denuncia di franco tenore moralistico, che spesso ha dato il segno dessere l’ultima risorsa di chi aveva perso una partita culturale e politica: era un limite antropologico a rendere gli italiani – «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani» – refrattari al superiore modello etico-estetico offerto loro dall’eroico ingegnere sociale di turno o dallintellettuale tanto più «antitaliano» quanto più innamorato dellItalia.
Storia di una lunga frustrazione, dunque, quella sintetizzata dal tweet di Castagnetti: «il modo di pensare degli italiani» non gli piace; aveva sperato che almeno la pandemia potesse cambiarlo; e in meglio, naturalmente, giacché non si dà speranza che non sia di segno ritenuto positivo da chi spera; un «meglio», che rimanda esplicitamente a una scala di valori, sulla quale «il modo di pensare degli italiani» ha da stare giocoforza di almeno una tacca sotto al modo di pensare di Castagnetti (o comunque a un modo di pensare che Castagnetti ritiene migliore). Ma abbiamo modo di sapere quale sia il modo di pensare che Castagnetti ritiene gli stia sopra di almeno una tacca? Nel tweet non vi fa cenno, dovremmo inferirlo da quanto di lui ci è noto, che – ahinoi! – è troppo poco. Pur essendo persona pubblica da molti decenni, infatti, Castagnetti è incolore come uno straccio milleusi dopo mille e un uso. Io, per esempio, ho memoria solo della volta in cui disse: «Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il Papa» (Corriere della Sera, 25.3.2009), che come «atteggiamento» mi è chiaro, ma mi lascia assai nel vago in quanto ai «principi» e alle «convinzioni». Di quale natura possono essere, per esempio, i tuoi principi e le tue convinzioni, quando devi obbedienza a un Papa che ti dice che candidarti alle elezioni non expedit, ma pure a quello che gli succede, e che invece dice che expedit, expedit eccome?
Sorvoliamo anche su questo punto, dunque, e limitiamoci piuttosto a considerare questo desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», da cui, a onor del vero, nessun essere umano è totalmente immune, ma che nell’uomo politico assume forme prossime alla smania. Comprensibilmente, sia chiaro, perché l’uomo politico – ogni uomo politico – letteralmente vive del consenso che riesce ad ottenere. Un maggioritario «modo di pensare» coincidente al suo, infatti, è la premessa indispensabile ad assicurargli che gli sia affidato il governo della cosa pubblica. Comprensibile la smania, dunque.
Questione più delicata, invece, quella relativa agli strumenti solitamente impiegati dall’uomo politico nel tentativo di ottenere un cambiamento del maggioritario «modo di pensare», che, esclusi i casi in cui voglia ricorrere alla violenza fisica, sono quelli coi quali solitamente si mette in atto il tentativo di persuadere o di convincere «qcn.» (sul fatto che tra le due cose vi sia una differenza rimando a quanto ne ho scritto qualche tempo fa, qui). Retwittando il tweet di Castagnetti, lho commentato a questo modo: «Un altro che ci aveva fatto un pensierino, e ora è deluso. Non hanno argomenti per “cambiare il modo di pensare” al prossimo, ma ne hanno una smania incontenibile: se la carota non basta, se il bastone non si può più, speriamo in un’epidemia». In un tweet, si sa, ci va tutto e niente. Dal mio restava fuori quanto qui proverò a spiegare relativamente a quel desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», che ho concesso sia di ogni essere umano, e che in qualche misura dà ragione dell’assunto che fa di ogni uomo un aristotelico πολιτικόν ζώον. Io credo che il desiderio si trasformi necessariamente in smania quando la πολιτική come forma di cittadinanza, di partecipazione alla vita della πόλις, si trasforma in Politik als Beruf. Il riferimento al saggio di Weber, qui, sta a chiarirci che «professionista della politica» non è solo l’uomo di governo, il dirigente di partito, il parlamentare o qualsiasi altro eletto a questa o quella carica, ma, in senso lato, chiunque, «seppur in posizioni modeste dal punto di vista formale», eserciti (o aspiri ad esercitare) «unazione sugli uomini», partecipi (o aspiri a partecipare) «al potere che li domina», e soprattutto abbia «il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana».
«Sentimento» assai più comune di quanto si potrebbe credere, perché tratto distintivo di quella variegata schiera di intellettuali che è sul mercato altrettanto variegato delle consulenze, delle partecipazioni a task force di varia natura e varia finalità, che non a caso sembra registrare un gran traffico in tempi segnati da una patente crisi della politica. Difficile dire se questa crisi sia causa o effetto dell’odierna povertà di riflessione intellettuale nel paese, perché da sempre qui in Italia, come daltronde altrove, lintellettuale ha avuto qualcosa di serio da dire solo quando in favore o contro il Principe, e quando il Principe era tanto forte da potergli offrire vantaggi o minacciarne lesistenza, quando insomma Politik als Beruf e Wissenschaft als Beruf si articolavano in modo dialettico. Più in generale, cè da rilevare che, col tempo (il punto di rottura può essere identificato con la fine della Seconda Guerra Mondiale), la soluzione all«eccezionalismo negativo» ha smesso di essere il recupero dell«eccezionalismo positivo» sul modello dei fasti del passato, ma la conquista di una «normalità» che come punto di riferimento aveva le società nordeuropee, quelle di cultura anglosassone, ecc. È questa «normalità» che probabilmente era nelle deluse speranze di Castagnetti, e riprendere in mano Un paese normale di Massimo DAlema (Mondadori, 1995) può essere utile ad averne unidea, ma anche a capire quanto essa fosse in franca antitesi alla «normalità» di sempre, quella dell«eccezionalismo negativo», cui da poco Silvio Berlusconi aveva dato piena legittimità, liberandola da ogni senso di colpa, e addirittura dandole ragioni di autocompiacimento. Due «normalità» in contrapposizione da sempre, l’una dell’Italia com’è, l’altra di come dovrebbe essere. Di come poteva cambiare grazie alla pandemia, di come pare che neppure la pandemia è stata in grado di cambiare.
Un articolo apparso su Il Post lo scorso 26 luglio è la glossa più eloquente al tweet di Castagnetti: «Ora che l’emergenza si è attenuata eccola di nuovo di fronte a noi l’idea della normalità. Non più la normalità ridotta e condizionata dal coronavirus, ma quella aumentata, baldanzosa, quella che prova a superare la pandemia di slancio. Così oggi si scontrano, spesso con grande violenza, due idee per il prossimo futuro. Da un lato una normalità che aspira a una tranquillizzante restitutio ad integrum. [...] Dall’altro l’idea di una nuova normalità, che nasce e cresce come inedita occasione. Una normalità dai tratti rivoluzionari: diventare migliori grazie al coronavirus, controbatterne gli effetti distruttivi trasformando quello che ci è capitato in una possibilità». Parrebbe esserci, così, una residuale speranza, ma «sembra piuttosto evidente che la nostra nuova normalità […] sarà molto simile a quella vecchia, e per i giovani di questo Paese la soluzione migliore continuerà ad essere quella di andarsene. Per provare a salvarsi in qualche modo. Per garantirsi una vita finalmente normale».
Ho chiuso lultimo paragrafo de La Grande Sineddoche dicendo che «il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che l’esito può esserne previsto dall’andamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi». Col ricorso ad una locuzione come restitutio ad integrum, che in medicina sta per completa guarigione, pare evidente la vocazione a uscire dal conflitto con le ossa rotte.

[segue]


venerdì 3 luglio 2020

La Grande Sineddoche / 2


L’accezione estensiva può portare un termine anche assai lontano dal suo significato proprio, e la procedura che opera questo allontanamento sfrutta sempre lo strumento di una figura retorica. Non ci sorprenderà, dunque, che metafora o metonimia, iperbole o litote, possano conferire a un termine un’accezione che distorce anche sensibilmente il significante. A posteriori, tuttavia, il significato dell’accezione estensiva sarà sempre riconoscibile come quiescente, potenziale, in quello proprio del termine.
Si prenda, per esempio, un termine come scrittura, che da mera «operazione dello scrivere» una figura retorica come l’antonomasia fa diventare Scrittura, e cioè «Parola di Dio». Al significante, che ci parla di cosa indubbiamente scripta, laccezione estensiva dà il significato di cosa eminentemente orale (Verbum), ma ci è chiaro che solo una «voce divina» può dettare un «testo sacro»: lorale quiesceva nello scritto, la figura retorica lo ha destato e reso attivo.
Quale figura retorica dà a senso, che viene da sensus, participio passato di sentire, che vuol dire percepire, e cioè cosa eminentemente soggettiva, laccezione estensiva di «contenuto logico oggettivamente valido» (Treccani), «criterio ultimo di giudizio» (De Mauro), «congruenza con un ordine logico, con la verosimiglianza, e anche con la realtà effettiva e attuale» (Devoto-Oli), con quella valenza di dato oggettivo che così spesso va a esprimere in locuzioni del tipo «il senso della vita», che da «quel che percepisco sia la vita» diventa «quel che la vita oggettivamente è», «il vero e inconfutabile significato della vita», ecc., con ciò conferendo oggettività a un termine che esprime la pura soggettività del sentire? La sineddoche – la figura retorica che ci dà la parte per il tutto – e questo accade anche per altre accezioni di senso, come quella di direzione («il senso di marcia»), quella di logicità («il senso di una proposizione») e quella di conformità («ai sensi della vigente normativa»): un vettore diventa orientamento, una congruenza diventa sistema, una corrispondenza diventa adeguamento.

Ho chiuso lultimo post dicendo che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ma – di sponda – lo diventa sempre. Bene, accade come per il senso, che da soggettivo percepire di una cosa riesce a imporsi come suo vero e inconfutabile significato: la «sponda» è la figura retorica. Potremmo azzardare, dunque, che tutte le forme di vita associata sono piani su cui si saggia lefficacia delle figure retoriche, selezionando quelle in grado di rendere generalmente accettabile la trasformazione del significato proprio di un significante in quello della sua accezione estensiva. Non mi si fraintenda, però. Non intendo insinuare che le dinamiche relazionali siano riducibili a quelle che nel foro pubblico decidono le sorti evoluzionistiche dei significanti, mi limito a suggerire che il successo e il fallimento delle operazioni messe in atto per rendere efficace questa o quella figura retorica siano la più trasparente sovrastruttura del conflitto sociale. Ne conseguirebbe che il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che lesito può esserne previsto dallandamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi.

[segue]