Cambiare
idea è legittimo, addirittura salutare, perché rivela duttilità mentale, capacità
di elaborazione autocritica e rifiuto della coerenza come rappresentazione di
un Io infallibile, perciò immutabile. A un patto, però. Che cambiare idea non
sia motivato da un tornaconto e che si sia in grado di spiegare in modo
adeguato cosa ce l’abbia fatta cambiare, meglio ancora chiarendo il come, cioè
in che modo gli argomenti che sostenevano la vecchia sono caduti sotto il peso
di quelli che sostengono la nuova.
Per quanto mi riguarda, e per il poco che
conto, penso di aver spiegato a dovere il perché e il come io sia arrivato ad
essere scettico sull’istituto del referendum nel quale ho creduto a lungo, e
di averlo fatto in tempo reale proprio su queste pagine. Sono partito dallo
studio degli autori che sono stati i più severi critici della democrazia
diretta per i rischi di deriva plebiscitaria e di degenerazione dispotica che
le sono intrinseci e sono arrivato a quelli che nello strumento referendario hanno
visto «una pericolosa illusione». Mi hanno convinto, ma a rendere più saldi in
me i loro argomenti è stato lo studio dell’istituto referendario in Italia dal
1974 al 2011, al netto di ogni retorica.
Bene, se questo può servire a spiegare
perché non ho messo la mia firma sui moduli che i radicali vanno riempiendo sui loro banchetti in
queste ultime settimane, perché non la metterò e perché invito tutti i miei
lettori a non farlo, rimane un gran bel mistero perché Il Foglio abbia cambiato
idea sull’istituto referendario: sul come potremmo anche fargli lo sconto, ma
se un blog semisconosciuto con una media giornaliera di 2.500 lettori sente il
bisogno di spiegare come è arrivato alle odierne posizioni dall’accalorato invito
al voto sui referendum di 8 anni fa, non dovrebbe sentirlo, e a maggior
ragione, un giornale che ha quasi il doppio dei lettori, e che oggi è un
convinto sostenitore dei referendum radicali mentre 8 anni fa invitava a boicottarli con argomenti che – si badi bene –
non mettevano in discussione quei referendum, ma l’istituto referendario
stesso?
Occorre leggere: «Il
referendum abrogativo è diventato – surrettiziamente ma palesemente travisando
la Costituzione – uno strumento di legislazione positiva. Il che non è. Non
ditelo ai radicali, per carità: sono loro i primi a stracciarsi le vesti sullo
stravolgimento operato non si sa da chi, o forse sì: dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale, che ha inaugurato un metodo di sminuzzamento delle leggi,
in modo che i cittadini non possano come di diritto abolirle (horror vacui
legislativo), ma possano, cosa cui non hanno diritto, cambiarle. Non diciamolo ai
radicali. Però ai cari radicali diciamo: e allora perché non lo rifiutate
questo pasticcio? No, la verità è che lo si usa, e si tenta di usare quel tanto
di plebiscitarismo che il nostro sistema consente per raggranellare nell’urna
referendaria maggioranze che in Parlamento non esistono. Come lo vogliamo
chiamare? Consociativismo referendario? Era meglio quello della prima
Repubblica, che almeno si applicava solo alle leggi di bilancio dello Stato e
non al potere legislativo del Parlamento. Si guadagnassero lì la maggioranza, a
suon di voti (politici) e di legittime alleanze, anziché rosicarla con la
finzione di una democrazia diretta che non c’è. Perché abbiamo non una ma ben
due Camere legislative, non siamo una democrazia diretta ma parlamentare, non
abbiamo le proposition e non siamo né in Svizzera né in California. E se non vi
piace, fate uno sciopero della fame» (Il Foglio, 10.6.2005).
Legittimo pensarla a quel modo, allora. Legittimo pensarla in tutt’altro modo, oggi. Ma cosa ha fatto cambiare idea? E attraverso quale ripensamento? Sospettare che vi abbia spinto un tornaconto sarebbe prova di malevolenza, non sia mai. In questo caso, poi, il tornaconto sarebbe dei più vili: provocare un po’
di casino in campo avverso per guadagnar tempo nel tentativo di salvare il culo al proprio padrone, e continuare a leccarglielo. Allontaniamo il sospetto: non può essere. Si può capire Pannella, che di vili tornaconti campa da sempre e che fino a qualche mese fa dei referendum manco a parlargliene che mozzicava le orecchie a Viale e a Cappato: coi referendum si è costruito il vestitino buono che, anche se logoro, ha tutto il diritto di indossare quando gli pare, ieri no, oggi sì. Ma Ferrara? Ferrara si dà arie da pensatore: per sostenere, allora, che il referendum comportava il rischio di un «totalitarismo consociativo» (nel titolo del pezzo), e per sostenere, oggi, che i tavolini radicali sono altari sui quali si compie il sacramento della democrazia, che tipo di ripensamento ha avuto? Nessuno glielo chiede, tanto meno i radicali, figurarsi.
colgo un velo d'ironia in quel "quasi il doppio", ma solo un velo
RispondiElimina...se si esclude il fatto bordin lo legge quotidianamente a un (qualche?) centinaio di migliaia....
EliminaA maggior ragione, dunque, sarebbe necessario spiegare il perché di un così entusiastico appoggio ai referendum radicali. L'Italia è diventata Svizzera? E' diventata California?
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