martedì 3 settembre 2013

Cambiare idea

Cambiare idea è legittimo, addirittura salutare, perché rivela duttilità mentale, capacità di elaborazione autocritica e rifiuto della coerenza come rappresentazione di un Io infallibile, perciò immutabile. A un patto, però. Che cambiare idea non sia motivato da un tornaconto e che si sia in grado di spiegare in modo adeguato cosa ce l’abbia fatta cambiare, meglio ancora chiarendo il come, cioè in che modo gli argomenti che sostenevano la vecchia sono caduti sotto il peso di quelli che sostengono la nuova.
Per quanto mi riguarda, e per il poco che conto, penso di aver spiegato a dovere il perché e il come io sia arrivato ad essere scettico sull’istituto del referendum nel quale ho creduto a lungo, e di averlo fatto in tempo reale proprio su queste pagine. Sono partito dallo studio degli autori che sono stati i più severi critici della democrazia diretta per i rischi di deriva plebiscitaria e di degenerazione dispotica che le sono intrinseci e sono arrivato a quelli che nello strumento referendario hanno visto «una pericolosa illusione». Mi hanno convinto, ma a rendere più saldi in me i loro argomenti è stato lo studio dell’istituto referendario in Italia dal 1974 al 2011, al netto di ogni retorica.
Bene, se questo può servire a spiegare perché non ho messo la mia firma sui moduli che i radicali vanno riempiendo sui loro banchetti in queste ultime settimane, perché non la metterò e perché invito tutti i miei lettori a non farlo, rimane un gran bel mistero perché Il Foglio abbia cambiato idea sull’istituto referendario: sul come potremmo anche fargli lo sconto, ma se un blog semisconosciuto con una media giornaliera di 2.500 lettori sente il bisogno di spiegare come è arrivato alle odierne posizioni dall’accalorato invito al voto sui referendum di 8 anni fa, non dovrebbe sentirlo, e a maggior ragione, un giornale che ha quasi il doppio dei lettori, e che oggi è un convinto sostenitore dei referendum radicali mentre 8 anni fa invitava a boicottarli con argomenti che – si badi bene – non mettevano in discussione quei referendum, ma l’istituto referendario stesso?
Occorre leggere: «Il referendum abrogativo è diventato – surrettiziamente ma palesemente travisando la Costituzione – uno strumento di legislazione positiva. Il che non è. Non ditelo ai radicali, per carità: sono loro i primi a stracciarsi le vesti sullo stravolgimento operato non si sa da chi, o forse sì: dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha inaugurato un metodo di sminuzzamento delle leggi, in modo che i cittadini non possano come di diritto abolirle (horror vacui legislativo), ma possano, cosa cui non hanno diritto, cambiarle. Non diciamolo ai radicali. Però ai cari radicali diciamo: e allora perché non lo rifiutate questo pasticcio? No, la verità è che lo si usa, e si tenta di usare quel tanto di plebiscitarismo che il nostro sistema consente per raggranellare nell’urna referendaria maggioranze che in Parlamento non esistono. Come lo vogliamo chiamare? Consociativismo referendario? Era meglio quello della prima Repubblica, che almeno si applicava solo alle leggi di bilancio dello Stato e non al potere legislativo del Parlamento. Si guadagnassero lì la maggioranza, a suon di voti (politici) e di legittime alleanze, anziché rosicarla con la finzione di una democrazia diretta che non c’è. Perché abbiamo non una ma ben due Camere legislative, non siamo una democrazia diretta ma parlamentare, non abbiamo le proposition e non siamo né in Svizzera né in California. E se non vi piace, fate uno sciopero della fame» (Il Foglio, 10.6.2005).
Legittimo pensarla a quel modo, allora. Legittimo pensarla in tuttaltro modo, oggi. Ma cosa ha fatto cambiare idea? E attraverso quale ripensamento? Sospettare che vi abbia spinto un tornaconto sarebbe prova di malevolenza, non sia mai. In questo caso, poi, il tornaconto sarebbe dei più vili: provocare un po di casino in campo avverso per guadagnar tempo nel tentativo di salvare il culo al proprio padrone, e continuare a leccarglielo. Allontaniamo il sospetto: non può essere. Si può capire Pannella, che di vili tornaconti campa da sempre e che fino a qualche mese fa dei referendum manco a parlargliene che mozzicava le orecchie a Viale e a Cappato: coi referendum si è costruito il vestitino buono che, anche se logoro, ha tutto il diritto di indossare quando gli pare, ieri no, oggi sì. Ma Ferrara? Ferrara si dà arie da pensatore: per sostenere, allora, che il referendum comportava il rischio di un «totalitarismo consociativo» (nel titolo del pezzo), e per sostenere, oggi, che i tavolini radicali sono altari sui quali si compie il sacramento della democrazia, che tipo di ripensamento ha avuto? Nessuno glielo chiede, tanto meno i radicali, figurarsi.

3 commenti:

  1. colgo un velo d'ironia in quel "quasi il doppio", ma solo un velo

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    1. ...se si esclude il fatto bordin lo legge quotidianamente a un (qualche?) centinaio di migliaia....

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    2. A maggior ragione, dunque, sarebbe necessario spiegare il perché di un così entusiastico appoggio ai referendum radicali. L'Italia è diventata Svizzera? E' diventata California?

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