Dal
1974 al 2011, in Italia, si sono tenute 66 consultazioni referendarie
abrogative in 16 tornate elettorali fino a un massimo di 12 quesiti per
ciascuna: in 27 casi non si è raggiunto il quorum e nei casi in cui lo si è
raggiunto si è avuto un progressivo calo dell’affluenza alle urne dall’87,7% del 1974 al 54,8% del 2011;
in 36 casi dei rimanenti 59, la proposta di abrogazione è stata respinta; in
almeno 18 dei 23 casi in cui il risultato ha premiato l’iniziativa dei
promotori della campagna referendaria, il volere espresso dalla maggioranza
degli elettori è stato sostanzialmente disatteso. Ancor più degli argomenti d’ordine
teorico e pratico da lui esposti in Contro il referendum (Biblioteca della
Critica Sociale, 1897) e che abbiamo già illustrato (1, 2, 3), sono questi
numeri a dar ragione ad Arturo Labriola: «Passato il referendum, o tutto resta
come prima o il suo risultato è assorbito dalla classe dirigente. […] È ritenuta
manifestazione di radicale democrazia eppure è soltanto una pericolosa
illusione ed uno strumento di conservatorismo». Ad oltre un secolo dalla sua
lezione, tuttavia, c’è chi continua a credere nel referendum come strumento di
democrazia diretta in grado di correggere i guasti della democrazia
rappresentativa, o a fingere di crederlo. In buona o in cattiva fede, dunque.
Nel primo caso, quasi certamente pesa la retorica che si è sviluppata attorno ai
due referendum sul divorzio e sull’aborto, e che troppo spesso sembra in grado
di far dimenticare che quelle due leggi furono approvate dal Parlamento, e che
le urne si limitarono a confermarle respingendo la proposta di abrogazione. Nel
secondo caso, basta pensare a Silvio Berlusconi che su consiglio di Giuliano
Ferrara firma i referendum promossi da Marco Pannella e si ha la
rappresentazione plastica dell’uso al quale la democrazia diretta si presta quando si fa strumento di quei loschi figuri che eccellono in cialtroneria e in
mascalzonaggine.
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