C’è il tizio che, appresa la notizia, sale in auto, raggiunge i luoghi devastati dal terremoto e si mette a rovistare fra le macerie alla ricerca di denaro o di altri beni appartenenti a chi nel crollo della propria casa, spesso tirata su col lavoro di una vita, ha trovato la morte o ha perso i propri cari: esecrabile, non c’è alcun dubbio. Non meno esecrabile dell’imprenditore edile che si rallegra dell’accaduto nel quale non riesce a vedere altro che l’occasione di una ricca commessa. E il giornalista che con la scusa di informare smercia la sua oscena pornografia del dolore? E il suo collega? Parlo di quello che, in alternativa, mentre le squadre di soccorso ancora estraggono morti e feriti da cumuli di travi e calcinacci, suggerisce di pensare all’accaduto come a un’opportunità di rilancio per l’economia che possa favorire il tanto arreso rialzo del nostro afflitto Pil. Esecrabili anche loro, senza dubbio. Sciacalli, come si è soliti dire. Come quelli che «la tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili», come quella che nel terremoto di Amatrice intravvede il karma che rende giustizia al suino: più cretini che sciacalli, ma sciacalli. C’è un genere di sciacallaggio, tuttavia, che in occasione di catastrofi naturali sembra essere ampiamente tollerato: al prete è consentito fare la scarpetta intingendo il suo pezzo di pane nel sangue di chi è morto e nelle lacrime di chi è sopravvissuto.
«Eventi come questi – dice monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi – ci inducono a riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato. È sufficiente un attimo: la terra trema e possiamo perdere ogni cosa, inclusa la vita. In pochi secondi. L’uomo che si crede signore assoluto e padrone della propria esistenza vede sgretolarsi in un attimo ogni umana certezza. È proprio in tragedie come questa che si ha la dimostrazione di come noi siamo tutto meno che autosufficienti. Siamo creature che dipendono da un Altro, ed è inevitabile che dinanzi a catastrofi simili si aprano spazi al trascendente, che vadano oltre la mera dimensione orizzontale».
Inizia male, Sua Eccellenza, molto male. Che eventi come questi possano farci perdere ogni cosa, inclusa la vita, lo sapevamo già da prima che si ripetessero come è accaduto in questa occasione: in cosa dovrebbero farci riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato che non ci fosse stato possibile aver già considerato? La terra ha tremato, le case sono crollate, sotto il loro crollo c’è chi ha perso la vita: cosa c’è di nuovo rispetto ad altri eventi in tutto simili a questi? E chi è che può sentirsi signore assoluto e padrone della propria esistenza al punto da poter escludere che sarà mai toccato dalla cieca furia degli elementi? Nessuna chiusura al trascendente si nutre di questa certezza, semmai è il contrario («Dio è per noi rifugio e fortezza, perciò non temiamo se la terra trema» - Salmo 45).
Ma poi, se siamo creature che dipendono da un Altro, ne siamo dipendenti anche come potenziali vittime di simili eventi? In altri termini: è quest’Altro che dispone della nostra vita, e a uno la toglie, permettendo venga schiacciato da un pilastro, e a un altro la lascia, trovandogli riparo sotto un arco? «Trovare un senso a quanto accade è impresa ardua». Non c’è dubbio, soprattutto a dare per scontato che ve ne sia uno. Perché, se è vero che «non si può spiegare tutto», è altrettanto vero che qui c’è assai poco di inspiegabile. Diremmo che l’inspiegabile subentri solo a dar per certo, come Sua Eccellenza ci invita a fare, che il terremoto l’abbia voluto o consentito – nemmeno lui sembra avere le idee troppo chiare – un «Dio che è Amore»: «Dio ha in ogni caso e sempre un piano di amore che si sviluppa secondo linee a noi incomprensibili, ignote, misteriose. Direttrici che non sono le nostre, umane. Anche nella tragedia c’è un senso e il nostro compito è chiedere a Dio un aiuto affinché possiamo comprendere il bene che esiste nella tragedia».
Posto l’inspiegabile dove non c’era, ecco il bisogno della «la fede che viene in soccorso» a far scorgere il bene dove sembrerebbe esservi il male. Parla per esperienza personale, Sua Eccellenza: «In Emilia, piano piano, abbiamo scoperto questo bene che può sgorgare dal disastro. La fede aiuta a vederlo: le popolazioni che guardavano agli antichi luoghi di culto chiusi, aspettando la loro riapertura, la nascita di tante vocazioni religiose». Lo sciacallo che rovista fra le macerie facendo incetta di portafogli e catenine d’oro, al confronto, diventa un galantuomo.
Tempi duri per la Chiesa. Un tempo era naturale associare ogni catastrofe naturale al castigo di Dio, per cui bastava esaltare i sopravvissuti come modello di virtù, salvo imperscrutabili 'disegni' quando dalle macerie usciva la bagascia, beh bastava invocare la Maddalena.
RispondiEliminaAdesso che Dio è diventato una specie di John Lennon post Yoko Ono, le arrampicate sugli specchi per spiegare come sia possibile che quel gran bonaccione faccia più morti dell'ISIS sono sempre più divertenti.
(Se solo potessi parlare).
RispondiElimina?
EliminaRimanendo nel vago, Carpi non è, come si legge nel sottotitolo "uno dei comuni più colpiti dal terremoto in Emilia del 2012"; in compenso monsignore è anche vescovo di Rolo e Mirandola, che sono stati devastati dal terremoto, anche se forse non lo sa, ci passa di rado.
EliminaAltro non dico, salvo che è proprio vero che nelle emergenze si saggia di che pasta sono fatte le persone.
Per non parlar di Novi, Cavezzo, Concordia e San Possidonio. Oltretutto le strutture danneggiate erano soprattutto le chiese. Se si considerano le scosse successive al 28/05/12 la diocesi di Carpi è stata davvero il cratere. Tra l'altro Cavina era stato nominato da poco e appena arrivato aveva avuto già altre sventure. Io credo che qualche rovello possa essere autentico (poi parlo per pura congettura, i miei lo conoscono di persona ma io non l'ho mai visto).
EliminaScusi, ma che s'aspettava?
RispondiEliminaChiaro che ora ricomincia il giro del: "provate anche con Dio, non si sa mai".
E' stato anche troppo l'aver visto ed udito il Vescovo di Ascoli Piceno rivolgersi all'Altissimo modificando uno spontaneo "cazzo fai?" in un forzato "e ora che si fa?".
Stia bene.
Ghino La Ganga
Leggere un post così è come respirare fresca aria di montagna. Grazie Malvino.
RispondiEliminaE' vero. I discorsi di preti e prelati di fronte a certi eventi sono ormai come le arringhe difensive di un pregiudicato reo manifesto di infamia. Le arrampicate ricordano certi avvocati difensori (d'ufficio e non) che popolavano i film italiani anni 60-70. Chi se ne inventava di più iperboliche e fantasiose, più s'accattivava la simpatia del pubblico non pagante. A volte anche quella della corte.
RispondiEliminaMangiapreti a Ufo
“Si incolpa Dio di queste tragedie, ma si dimentica che spesso la responsabilità è anche dell’uomo, che non è stato capace di usare al meglio l’intelligenza e la competenza che proprio Dio gli ha donato”.
RispondiEliminaPer Mons. Cavina, dunque, la responsabilità delle tragedie, “è anche dell’uomo” (facciamo al 50% uomo-dio?). Sarà forse che io ero e resto un “timpanariano”, ma non mi pare che la particella aggiuntiva “anche” possa essere classificata come “un lapsus freudiano” del quale incolpare l’inconscio. Sarei dunque più propenso a ritenere quell’ “anche” frutto di processi ultraconsci del monsignore, il quale però, per coerenza col suo pensiero ultraconscio, dovrebbe recarsi in procura e denunciare il suo dio per disastro doloso causato dal suo piano d’amore (sic!).