Venti morti e più di trecento feriti: si commemorava la Naksa, la sconfitta che gli israeliani infersero nel 1967 a una coalizione di tre o quattro stati arabi che avevano accumulato truppe e armi pesanti ai confini dello Stato di Israele, dando l’impressione di non avere intenzioni pacifiche. Quella volta furono gli israeliani ad attaccare per primi, come avevano già fatto nel 1956 contro l’Egitto, ma è che subito dopo la sua fondazione, nel 1948, lo Stato di Israele era stato attaccato da cinque o sei paesi (Siria, Egitto, Libano, Iraq, ecc.), che subirono una disfatta percepita in tutto il mondo arabo come catastrofe (Nakba), commemorata tre o quattro settimane fa con un prezzo di poco inferiore: una dozzina di palestinesi morti e circa duecento feriti.
È che il modo in cui i palestinesi amano commemorare Naksa e Nakba non è immune da pericoli: violare i confini di uno stato sovrano, per giunta tirando sassi ai soldati israeliani che stanno lì per evitare che vengano violati, è per lo meno rischioso. Rischio che pare non impensierire i commemoranti, che infatti a questo genere di scampagnate oltre frontiera portano pure mogli e figli.
Non so se ansa.it possa essere citata come fonte attendibile. Se è così, pare che anche oggi le cose siano andate come il 15 maggio scorso: “I primi incidenti si sono verificati sulla Collina delle urla, nei pressi del centro druso di Majdal Shams, dove centinaia di dimostranti palestinesi e siriani provenienti da Damasco si sono lanciati contro le postazioni israeliane. Mediante megafoni, i militari hanno allora avvertito in arabo che chi avesse oltrepassato i reticolati di confine sarebbe stato colpito da proiettili. Poi hanno sparato in aria, a scopo dissuasivo. Infine hanno sparato alle gambe di chi maggiormente si esponeva. In questa fase il bilancio delle vittime è rimasto contenuto. Ma alcune ore dopo oltre un migliaio di persone si sono radunate a Quneitra, nella zona centrale del Golan, per cercare di forzare da là le linee israeliane”.
In casi come questi è difficilissimo stabilire di chi sia la colpa, tutto sta nell’essere sostenitore delle ragioni dei palestinesi o di quelle degli israeliani. Evitiamo di andare troppo a ritroso nel tentativo di verificare in radice le une e le altre (da un lato c’è chi ritiene che gli ebrei starebbero meglio in Australia o in Madagascar o sparsi un po’ di qua e di là, dall’altro c’è chi sostiene che vi sia traccia della loro presenza nelle terre che oggi occupano, datata tre o quattro millenni) e limitiamoci a dire che chi sostiene la causa palestinese considererebbe cosa ragionevole che i soldati israeliani accogliessero gli sconfinanti con ghirlande di fiori e caraffe di limonata. Anche stavolta sono stati delusi e dunque anche stavolta dobbiamo aspettarci una chiamata al lutto.