Incidente nella centrale nucleare di Marcoule, che sta in Francia, ma a 257 km da Torino e a 342 km da Genova. Fortunati i francesi, perché non c’è stata fuga di materiale radiattivo. Per i torinesi e i genovesi, invece, comunque non sarebbe stato un problema: hanno per tempo votato contro il nucleare.
lunedì 12 settembre 2011
Non era neanche giapponese
La vicenda di cui è protagonista l’ingegner Soter Mulè ci dà conferma di quanto già sapevamo: abbiamo magistrati e giornalisti tra i più cretini al mondo.
Accusato in un primo momento di omicidio volontario, come se l’intenzione di uccidere sia implicita nella pratica del bondage su un soggetto pure non consenziente, sul Mulè ora pesa l’ipotesi di omicidio preterintenzionale, perché la vittima – si è accertato – era consenziente. Saremmo dinanzi a una morte, dunque, avvenuta in conseguenza di percosse o lesioni personali? Niente affatto. Isolato da altre pratiche che qui paiono essere di fatto escluse dalla dinamica degli eventi che hanno portato alla morte di Paola Caputo, il bondage non provoca lesioni, né danni equivalenti a quelli riportati da percosse, che invece, nell’ipotesi di omicidio preterintenzionale, dovrebbero costituire il necessario fine doloso dell’“azione minore”, la quale, superando l’intenzione del reo, verrebbe così a produrre l’evento fatale. Ma qui, in tutta evidenza, quest’“azione minore” non era affatto contemplata dal “programma” concordato dal Mulè e dalla Caputo, né è stata posta in essere in violazione del patto.
È evidente che siamo di fronte a un mero incidente, ma è pure evidente che l’ipotesi di omicidio colposo dev’essere sembrata troppo mite, comunque inefficace a sanzionare sul piano morale una pratica che il magistrato fa fatica a ritenere legittima tra soggetti adulti e consenzienti. Delle due, una: saldo nel senso comune che è padre di ogni pregiudizio, il magistrato ritiene intrinsecamente violenta e dunque potenzialmente pericolosa la pratica del bondage, a dispetto di ogni piana evidenza; sennò – e allora sarebbe ancora peggio, perché non si tratterebbe solo di ignoranza – egli si sente in dovere, attraverso l’azione della pubblica accusa, di farsi latore di un pregiudizio espresso dal senso comune, che peraltro non è riuscito neanche a informare a sufficienza la lettera della legge affinché il Mulè sia poi effettivamente imputabile di lesioni o percosse.
C’è da aspettarsi che l’accusa di omicidio preterintenzionale venga formulata in ogni caso in cui un soggetto muoia di infarto miocardico o di ictus cerebrale durante un rapporto sessuale, anche di quelli che il senso comune non sottoporrebbe ad alcuna censura morale per le modalità con le quali viene espletato: si tratta di attività potenzialmente a rischio, sempre, anche da slegati. Se non dolo, ci sarebbe sempre da ipotizzare una colpa di là dalla più mite finalità di scoparsi – eventualmente – a sangue.
Analoghe considerazioni sono inevitabili per la gran parte dei giornalisti che si sono fiondati sulla vicenda con la morbosa voracità che i benpensanti si sentono autorizzati a esercitare sul privato di coloro che ritengono devianti. Il peggio ce lo ha offerto il Corriere della Sera. Così, Ester Palma pensa di poter ricavare un profilo “tutt’altro che rassicurante” dal più banale e anodino dei manifesti parafiliaci postato dal Mulè sulla sua pagina di Facebook, come se l’atmosfera che avvolge una parafilia sia penetrabile da altri che chi voglia condividerla.
Non da meno Fabrizio Peronaci, che in un’intervista via chat con una cultrice di Shibari si esibisce in domande del tipo: “A tua figlia trasmetteresti le stesse idee?”. È evidente che per il nostro la questione sia ideologica, non di gusto, e allora chissà quale ideologia ci sarà mai dietro il suo voyerismo, e chissà chi gliel’ha inculcata: mamma o papà?
Il peggio del peggio, invece, ce lo offre Paolo di Stefano: “Neanche la dignità di un luogo dotato di un minimo alone evocativo: non dico un castello, un palazzo nobiliare, un covento, un boudoir o un carcere, come se ne trovano nelle pagine del Marchese de Sade, ma almeno un appartamento, una villetta di periferia… No, no, un vano caldaia in via Settebagni, tra tubature, manopole, idrometri, idranti e cavi…”. E qui il Mulè non ha scampo: passi per il bondage, ma almeno praticarlo in un ambiente che soddisfacesse l’immaginario del giornalista. E poi, diciamocelo, la Caputo non era neanche giapponese...
[si consiglia: La posizione del liberale (senza corda) di Luca Massaro]
Aggiornamento “Il gip ha derubricato l’ipotesi di reato da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo” (la Repubblica, 12.9.2011). Ritiro le osservazioni sui magistrati.
[si consiglia: La posizione del liberale (senza corda) di Luca Massaro]
“Nulla sarà più come prima”
C’era bisogno di due guerre da 3.000 miliardi di dollari per sconfiggere al Qaida? Non abbiamo il beneficio della controprova, sappiamo solo che anche questo ha dato avvio alla fine del primato politico ed economico degli Stati Uniti d’America: se Osama bin Laden aveva questo fine, ha trovato in Bush un eccezionale aiuto. Solo un ex alcolizzato rinato in Cristo poteva raccogliere la sfida di un ubriaco di Allah sul campo dello scontro di civiltà, e così è stato: per combattere la barbarie ci siamo imbarbariti un po’ anche noi, per far fronte al delirio di un califfato teocratico abbiamo messo in discussione le nostre liberaldemocrazie, alla disperazione di frustrati che si erano emarginati dalle sorti di progresso e di emancipazione che il mondo faticosamente cercava fra le sue perenni contraddizioni abbiamo opposto la disperazione delle nostre più logore isterie.
Quando dicevamo: “Nulla sarà più come prima”, più o meno consapevolmente facevamo professione di impotenza. Ora, dieci anni dopo, ci resta solo la consolazione di questa smisurata macchina retorica che mette mano a scrivere la storia dell’11 settembre, e guai a chi osa dire che quei morti sono stati traditi, vendicati in malo modo, svendendo libertà in cambio di una sicurezza che comunque non abbiamo trovato.
sabato 10 settembre 2011
Appunti per una storia del berlusconismo come malattia sociale / 1
Dopo i fasti mietuti grazie a Erminio Macario, Carlo Dapporto, Gino Bramieri e Walter Chiari, la barzelletta divenne di colpo impresentabile sul grande palcoscenico, e allora scese in platea. Accadde intorno ai primi anni ’70, quando il tema che meglio si adattava ai suoi schemi – la differenza tra maschio e femmina, tra ricco e povero, tra bianco e nero, e per ogni altra antinomia fin lì accettata come “naturale” – divenne questione “politicamente” sensibile. Fu per questo che, scesa dal palcoscenico, la barzelletta andò a prosperare negli ambienti culturalmente più retrivi, funzionando quasi sempre da valvola di sfogo delle più incoercibili pulsioni reazionarie, pubblicamente biasimate.
Quando queste ebbero modo di potersi rappresentare come liberatoria risposta alla “dittatura” del “politicamente corretto”, la barzelletta risalì sul palcoscenico (La sai l’ultima? – Canale 5, 1992), ma ormai non era più la stessa. Aveva perso ogni leggerezza, era diventata grassa e aggressiva, ostentamente provocatoria, come se non mirasse più soltanto a far ridere, ma anche a mettere in discussione ciò che l’aveva emarginata. Non è un caso che sia riapparsa in tv, e una tv commerciale, quando si ritenne, e a ragione, che i telespettatori fossero pronti a riaccoglierla così com’era diventata.
venerdì 9 settembre 2011
Te credo!
Una vignetta di Altan sull’ultimo numero de l’Espresso (37/LVII, pag. 15) mi sollecita ad una riflessione che vorrei sottrarre ad ogni pregiudizio. Provvidenzialmente mi soccorre Maranatha, rinomata ditta di arredi liturgici, della quale il giornale dei vescovi pubblica oggi una réclame a pag. 16 (Avvenire, 9.9.2011). So di contravvenire alla regola di non ospitare pubblicità su questo blog, ma si tratta di una eccezione che non ha alcun fine di lucro, e da subito, per evitare che il rifiuto possa sembrare scostumatezza, faccio presente che non accetterò neanche un euro dal titolare della Maranatha, neanche se insistesse.
Ma veniamo alla questione sollevata da Altan. Davvero il guardaroba di un pastore è poi così costoso? A quanto può ammontare il costo dello stretto necessario per non degradare la figura di un apostolo di Cristo a un poveraccio? Calcolando camici, casule, stole, pianete e tutto il resto, e in numero adeguato a coprire le esigenze imposte dal calendario liturgico, a quanto può arrivare la spesa perché i simboli siano soddisfatti?
Inutile dire che dipende da una innumerevole serie di fattori, sicché la spesa complessiva potrà essere assai variabile. Non a caso sarà bene prendere nota del listino prezzi della pregiata ditta del signor Rosario Sollazzo, che mi pare offrire ottima merce a prezzi relativamente bassi, comunque assai onesti.
Delizioso camice in lino ricamato a mano...... € 1.650
Elegante dalmatica con ricami di fattura superiore....... € 1.926
Piviale dalla linea sobria e nel contempo assai raffinata..... € 2.250
Casule: da sinistra a destra, un modello dal drop morbido (€ 740),
uno per occasioni speciali, ma ottimo anche per party e cocktail (€ 1.850),
e uno dalla linea più severa, particolarmente consigliato per le messe indoor (€ 1.390)
Stole: a sinistra, modello dal disegno semplice, concepito per
benedizioni a portatori di handicap, disoccupati e affini (€ 345);
a destra, prezioso capo ricamato a mano, ottimo per la celebrazione
di sponsali di consiglieri regionali, capomandamenti, ecc. (contattare per il prezzo)
Pianete: a sinistra, modello consigliato per offici in stadi e spianate (€ 2.346);
a destra, capo indispensabile per le messe in latino (€ 7.461)
All’essenziale, ovviamente, manca ancora qualcosina, sennò il pastore è come fosse nudo, e non sia mai.
A sinistra, pastorale per vescovi estroversi (€ 1.050);
a destra, modello sfiziosissimo, in argento lavorato a mano
(contattare in privato per il prezzo)
Mitrie: da sinistra a destra, modello per vescovi pre-conciliaristi (€ 533),
per vescovi post-conciliaristi (€ 556), per vescovi un po’ e un po’ (€ 880)
Pettorali: siamo su un terreno delicatissimo
(tutti pezzi senza indicazione di prezzo)
A sinistra: parasole che è un vero amore, per processioni estive;
a destra: sfarzoso anello raffigurante tre allegri suonatori di putipù
(come sopra, contattare per sapere il prezzo, ché metterlo on line farebbe scandalo)
Possiamo considerare al completo il guardaroba base, calcolando per ciascun capo almeno una mezza dozzina di esemplari di foggia diversa? Non proprio, perché fin qui abbiamo preso in considerazione solo quelli indossati in sede liturgica: sono quelli abitualmente inclusi alla voce “sostentamento del clero”.
Possiamo riandare alla vignetta di Altan e chiederci quanto pregiudizio dobbiamo sottrarle.
«Non rianimatemi»
Farsi tatuare in petto «Non rianimatemi» è un modo di fare testamento biologico che di fatto scavalca ogni comitato bioetico: anche se muto, il paziente parla al medico con la sua viva voce, attraverso un gesto ponderato, preordinato, irrevocato.
Naturalmente il medico potrà ignorare la volontà del paziente. Potrà accadere in forza di una legge che lo obblighi a ignorarla, e quasi sempre si tratterà di una legge scritta dal suo Dio, che certamente non è il Dio di quel paziente, sennò si tratterà di una legge scritta da uomini che negano un diritto dell’individuo, quello della sovranità sul proprio corpo e sulla propria mente, che certamente il paziente dichiara inalienabile. Superfluo dire che il medico agirà contro la sua volontà, che però qui è scritta nella sua carne: sarà come imporre un trattamento terapeutico che viene rifiutato nel mentre viene imposto. Una violenza che si autocertifica come violenza nel suo compiersi.
giovedì 8 settembre 2011
Analogie
L’andamento della pressione fiscale che dobbiamo attenderci da questa manovra finanziaria (da lavoce.info, via phastidio.net - partic.) è curiosamente analogo alla curva di un orgasmo di Vincenzo Visco.
mercoledì 7 settembre 2011
L’orgoglio radicale
Stamane, chiudendo la sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha detto: “Infine, sulla pagina delle lettere de Il Foglio, c’è un’appuntita critica ad un articolo di Angiolo Bandinelli da parte di un lettore a proposito di alcuni giudizi di Bandinelli sull’arte, che è questione opinabile per eccellenza. Ma tutto questo deve riempire di orgoglio i radicali perché la replica di Giuliano Ferrara è: «Da un maestro indiscusso, accettiamo ogni cosa». E quindi non solo difende Bandinelli, ma lo definisce pure un maestro indiscusso”.
Duole deludere lui e i radicali, ma il maestro indiscusso al quale faceva riferimento Ferrara non è Bandinelli, ma l’autore dell’appuntita critica, Giulio Paolini, pittore e scultore di fama internazionale. In quanto all’appuntita critica, si trattava della correzione di ben 5 errori, tutti gravi, commessi da Bandinelli nella sua sciatta pagina sull’Arte Povera, pubblicata su Il Foglio di sabato 3 settembre: non si trattava di giudizi personali, che sull’arte sono sempre opinabili perché attinenti al gusto, ma di solari cazzate, palesi errori di documentazione storica e tecnica. Ferrara non poteva che prenderne atto, ma, non potendo dare pubblicamente del coglione a Bandinelli, ha preferito dare dell’indiscusso maestro a Paolini, in ossequio al principio di autorità che così gli consentiva di svicolare dalle questioni di merito sollevate in quella asciutta letterina.
Qui potremmo fermarci, ma l’errore nel quale è incorso Bordin rivela un altro dato degno di interesse: l’orgoglio radicale, quel sentirsi sale della terra che promuove anche un cretino a superiore intelletto per il solo avere in tasca la tessera di un partito politico, che però sarebbe meglio definire setta. Non è il caso di intrattenerci troppo su questo, basterà solo rammentare a Bordin, se dovesse passare da queste parti, la differenza che c’è tra un Paolini
e un Bandinelli
e un Bandinelli
Così l’orgoglio radicale si dà una calmata.
martedì 6 settembre 2011
“L’Illuminismo dei cattolici”
Volendo schematizzare – scriveva Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, 4.9.2011) – di illuministi ce n’era di due tipi: quelli moderati, tipo Voltaire, Hume e Kant, e quelli radicali, tipo Diderot, d’Holbach e Lessing. Io penso che, a leggere L’Illuminismo dei cattolici (Avvenire, 6.9.2011), i primi avrebbero scosso il capo e i secondi sarebbero scoppiati a ridere.
Schematizzare può tornare utile a semplificare, ma lo stesso Firpo metteva in guardia: “Molte anime, molte differenze e anche aspri contrasti animavano quel complesso movimento che sotto il nome di Illuminismo percorse da un capo all’altro l’Europa del Settecento”. C’è da ritenere, dunque, che scuotere il capo e scoppiare a ridere non esaurirebbero la gamma di reazioni che oggi gli illuministi avrebbero alla lettura di un articolo così stronzo: c’è chi lo metterebbe via senza neanche arrivare in fondo, chi non perderebbe un attimo nell’iniziare a scrivere un pamphlet in risposta, chi si limiterebbe a staccare la pagina dal giornale dei vescovi per il pulirsi il culo, ecc. Una sola cosa è certa, ed è che nessun illuminista si sarebbe armato di un randello per andare ad appostarsi sotto casa di Pierangelo Sequeri, Francesco Botturi e Franco Cardini, i “tre esperti” che “replicano alle tesi di Massimo Firpo” e interpellati da Edoardo Castagna, autore dell’articolo, tanto meno sotto casa di quest’ultimo: la tolleranza, infatti, era caratteristica comune a tutti gli illuministi.
Anche per questo – Firpo teneva a precisarlo – va decisamente sfatato “il mito storiografico del nesso causa-effetto tra Illuminismo e Rivoluzione francese da cui sarebbero poi scaturite le fantomatiche genealogie che vi avrebbero colto l’archetipo del Terrore robespierrista e addirittura la matrice prima di tutte le più sanguinarie tirannie sperimentate in seguito dalla storia europea”, perché si tratta di un mito “coniato dai reazionari di fine secolo”, “di origine hegeliana, sviluppato e piegato alle loro costruzioni intellettuali anche da Marx e da Nietzsche, ripreso poi da Horkheimer e Adorno, e poi da Foucault”.
E dunque gli illuministi avrebbero in comune solo la tolleranza? Ovviamente, no. Basti la celeberrima pagina di Kant: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro…” (Was is Aufklaerung? – 1784). Parliamo del coraggio di servirsi della ragione, rifiutando la guida dell’autorità storicamente incarnata nei detentori del potere, che ci spacciano la loro verità come rivelata.
“Si comprende dunque – scriveva Firpo – come l’Illuminismo abbia potuto assumere anche un significato metastorico, diventando una sorta di temibile archetipo intellettuale, bersaglio di severe condanne da parte della Chiesa di ieri e di oggi”. Ecco, dunque, un altro carattere comune a tutti gli illuministi di ieri e di oggi: non essere cattolici. Anzi, trovarsi spessissimo su posizioni opposte a quelle della Chiesa, e perciò il doverne subire la condanna e non di rado la diffamazione. Poi, però, ci sono i molto fessi o i molto furbi che pensano di poter cambiare le carte in tavola inventandosi L’Illuminismo dei cattolici. Hanno bisogno di attenuare la condanna e di arrotondare la diffamazione a uncino.
“Firpo accusa Benedetto XVI – scrive Edoardo Castagna – di «aver più volte additato il deprecabile atto di nascita» dell’odierna civiltà proprio nei Lumi, tralasciando tra l’altro il celebre discorso di Subiaco del 2005 nel quale l’allora cardinal Ratzinger aveva ribadito che «è stato merito dell’Illuminismo aver riproposto i valori originari del cristianesimo, fin dal principio religione del logos»”.
Ecco, da subito, svelato il trucco: siamo di fronte a chi si sente molto furbo e pensa di avere a che fare con dei fessi. Ratzinger in persona avrebbe benedetto l’Illuminismo, ergo l’Illuminismo, se non cattolico, è cristiano: come se bastasse levare la maiuscola al Logos giovanneo, che è pura trascendenza, per ridurlo al logos degli illuministi, che è la ragione immanentissima. Cancellate centinaia di pagine del magistero petrino che condannano l’Illuminismo, almeno dalla Inscrutabile divinae di Pio VI (1725) e fino allo stesso Ratzinger nel 2008 (“Il Vangelo non sia in alcun modo confuso nelle menti dei credenti ai principi laici associati con l’Illuminismo”, e sì che l’Illuminismo ha “riproposto i valori originari del cristianesimo”). Ma non bisogna essere troppo severi col Castagna, in fondo cerca imitare un treccartaro un po’ più bravo di lui, e si può capire che non sia troppo lesto di mano. Bisogna essere clementi, passiamo agli esperti.
Pierangelo Sequeri: “L’allargamento del logos è l’istanza dell’Illuminismo incompiuta. Il formalismo di una ragione che non vuol sapere nient’altro di ciò che trova in se stessa, e da lì ricostruire tutto il mondo, è stato sconfitto dalla storia”. Ecco una interessante spiegazione di come l’Illuminismo abbia tradito il logos: ha voluto emanciparlo dal ruolo di ancella della fede, l’unica che dà luce vera. E allora che senso ha parlare di un Illuminismo dei cattolici? La fede non ti concede alternative: o cattolico o illuminista.
Francesco Botturi: “La domanda sulla compatibilità tra modello illuminista della ragione e antropologia religiosa o, più specificamene fede cristiana, percorre la storia intera della seconda modernità, sia sul fronte laico, sia su quello religioso. Le risposte sono state le più varie. Si pensi alle posizioni di un Leopardi, un Beccaria, un Cattaneo, da una parte e di un Taparelli d’Azeglio, un Manzoni, un Rosmini, dall’altra; tutte così diversamente connotate tra loro, benché confrontabili e interagenti. Una varietà che dipende dalla multiformità storica del fenomeno illuminista stesso, a cui ha corrisposto una variegata sensibilità religiosa e cristiana. La prima osservazione dovrebbe dunque concludere all’impossibilità di ricondurre l’Illuminismo ad uno schieramento bipartito o addirittura a un idealtipo univoco… Non tutto l’Illuminismo fu giacobino, per intenderci. Illuminista è anche e più vastamente la rivendicazione che tradizione e autorità ricevano il consenso della libertà”. E così, allargandolo di quel tanto da infilarci dentro anche Rosmini, abbiamo un l’Illuminismo che può arrivare pure a concepire la libertà della ragione come obbedienza al papa. Da rompergli il randello sul groppone, questo esperto.
Ma veniamo al nostro esperto preferito, il sempre impareggiabile Franco Cardini, quello che “noi ci dichiariamo integralmente e attualmente fascisti” (1965), quello che “a noi pare che i paesi a regime socialista siano più umani di quelli a regime capitalista” (1968), quello che “Goebbels è senza dubbio un geniale pioniere” (1974), quello che “piantatela una buona volta di rabbrividire dinanzi all’idea della pena capitale” (1981), quello che “non possiamo non dirci nietzscheani” (1983), quello che “io credo che Dio parli in tedesco con gli angeli” (1990).
Qui, mantenendosi a un livello appena più decente, ma neanche tanto, “non abbiamo nessuna ragione scientifica per sostenere che un sistema è migliore di un altro, a meno di affidarsi al determinismo storico o alla legge della giungla, per cui chi vince ha ragione perché vince. Come si fa a parlare del sistema nato dal sistema illuministico come il migliore dei mondi possibili, quando sappiamo tutti che anche il comunismo e il nazismo sono figli dei Lumi? Si può anche dire che sono figli degeneri, va bene: ma quando si ha una casistica storica che ci mostra come non esistano sistemi ottimali, con quale ottica si continua a percorre questa strada? Per non parlare che nel Settecento buona parte della Chiesa cattolica era coinvolta nel processo illuminista e in particolare nelle logge massoniche; soltanto dopo si è sviluppata una dialettica, con la massoneria che ha virato in senso anticattolico. L’Illuminismo è in gran parte legato al mondo cattolico”. Capite che, a volersi dire illuministi, qui conviene essere massimamente tolleranti e limitarsi a scuotere il capo pensando alle decine di encicliche che condannano la Massoneria. Poi, sì, sentirci ripetere che il comunismo e il nazismo siano figli dei Lumi si può cedere alla voglia di scrivere un pamphlet. Ma leggere che nessuna ragione scientifica possa serenamente dichiararsi in favore di un sistema razionale piuttosto di un sistema fideistico, be’, ecco, fa venir voglia di lasciar perdere il pamphlet e fare almeno un pensierino al randello. Pensierino fugace, perché in fondo siamo illuministi, mannaggia.
lunedì 5 settembre 2011
Un segno di rispetto
Quattro blogger che concorrono al Macchianera Blog Awards 2011, uno dei quali nemmeno sapevo chi fosse, mi hanno scritto per chiedermi il voto e sono certo che alcuni dei candidati, soprattutto quelli ai quali non ho mai fatto mancare le mie tangibili manifestazioni di stima, in qualche caso anche di simpatia, se lo aspettano, pur senza cedere alla tentazione di chiedermelo: questo post è una risposta ai quattro e un messaggio agli altri.
Premesso che avrei voluto tanto essere candidato anch’io, ma solo per poter scrivere adesso le stesse cose senza dover subire il sospetto che siano mosse dall’invidia, premesso che vorrei tanto vincere uno di quei premi ma solo per poterlo rifiutare con una motivazione ancora più dura di quella che qui porto, direi che questo genere di concorsi sono una vera vergogna. Potranno essere utili a chi li organizza per scroccare un po’ di visibilità, non caso li organizza Gianluca Neri, da quando non ha più niente da dire.
Per come vi si partecipa, poco importa se da candidati o da votanti, e, prim’ancora, per come sono concepite, per quella avvilente atmosfera che è comune alle mostre canine, si tratta di patetiche riproduzioni in scala 1:25 dei premi letterari di fine estate, che è sempre assai difficile dire se siano più tristi, volgari o tristi e volgari. Non vi voto, dunque, prendetelo come un segno di rispetto.
Per come vi si partecipa, poco importa se da candidati o da votanti, e, prim’ancora, per come sono concepite, per quella avvilente atmosfera che è comune alle mostre canine, si tratta di patetiche riproduzioni in scala 1:25 dei premi letterari di fine estate, che è sempre assai difficile dire se siano più tristi, volgari o tristi e volgari. Non vi voto, dunque, prendetelo come un segno di rispetto.
Duce, fattene una ragione
Claretta Petacci non riesci a levartela di dosso, te la ritrovi appesa accanto, a testa in giù, e può darsi che sia prova del suo immenso amore. Ci sono anche i gerarchi, è vero, almeno quelli più compromessi, quelli che non hanno fatto in tempo a tradirti per salvare il culo o che avevano scommesso che la tua buona stella avrebbe brillato in eterno, e anche loro penzolano, puoi dire che non ti hanno abbandonato, via. Per il resto, caro Duce, dovresti sapere come sono gli italiani, peraltro, e non a torto, li hai sempre intimamente disprezzati, anche quando ti consideravano un dio, e forse proprio per quello, perché di te in fondo non hai mai avuto stima, ma solo una formidabile superstima.
Sapendo bene, e da sempre, che la Sacra Patria è un Paese di Merda, ora non dovresti cadere dalle nuvole, che d’altra parte, a testa in giù, ti stanno ancora sotto gli stivali. “Cortigiani, vil razza dannata”, dice Rigoletto, ma potrebbe dirlo pure il Duca di Mantova, se solo il libretto non chiudesse col terzo atto, gli scandali di corte corressero di bocca in bocca per il Ducato, ecc. Non dovresti stupirti troppo, caro Duce, se prima ti adoravano come un’icona pop e ora ti rinfacciano i mille errori che ti hanno portato alla rovina, che è pure la loro. Prima non potevi tirare una scoreggia che tutti la prendevano per un ordine, perché si sa che “il Duce ha sempre ragione”, e tutti i tuoi difetti, anche i più miserabili, apparivano magnifiche virtù. Frivolo? Era sublime leggerezza. Narcisista? No, è che avevi il midollo di un leone. Puttaniere? Macché, incarnavi la leggenda del maschio latino. Cinico e bugiardo? Ma no, era la tua superiore arte del governo. Rivoluzionario a chiacchiere, ma più conservatore di un qualsiasi borghesuccio? Macché, novello Principe del Machiavelli. Ora, da cadavere, è solo un fastidioso residuo di devozione che impedisce loro di essere crudeli nel dirti che ha un alito da far schifo, e non si trattengono neppure dallo storcere il muso.
Quel ciccione che ti si strusciava addosso millantandosi tuo consigliere, per esempio. Ieri, meno di un anno fa: “Non mi sognerei mai di mettere becco nel suo modo di divertirsi, di stare con le donne, di considerare amici e amiche nelle ore libere, vorrei anche vedere” (Il Foglio, 1.11.2010). Oggi, invece, “dovrebbe vivere con intorno un mucchio di gente seria e responsabile, e ce n’è parecchia tra i suoi collaboratori, che abbia il potere di dirgli no, quella telefonata non la deve prendere, no, quell’operazione sottopelle è troppo a rischio, no, quello non è un tipo affidabile” (Il Foglio, 4.9.2011). Duce, fattene una ragione, sei fottuto.
“Chi ha orecchie per intendere intenda”
L’idea di spostare le feste patronali alla domenica più vicina, uno dei conigli più spelacchiati che questo governo ha tirato fuori dal cilindro della sua manovra finanziaria, ha provocato solo qualche mugugno clericale, e per la semplice ragione che questo già accade, almeno da due decenni, in gran parte del paese. Qualcuno ha sollevato la questione di principio, questo sì, ma si è capito subito che la consegna fosse quella di non insistere troppo, perché lo slittamento delle feste patronali era il contributo simbolico al risanamento economico del paese che la Cei considerava più che conveniente, e sul quale era disposta a cedere, anche per meglio difendere l’intangibilità di assai più sacri principi come le esenzioni fiscali e l’8xmille. E però c’è stata un’eccezione, perché da subito, e poi senza mai cedere, anzi, facendo voce sempre più grossa, il cardinale Crescenzio Sepe si è detto contrario a far slittare la festa di San Gennaro, patrono della città di cui è arcivescovo, arrivando a usare toni assai duri: “Il Senato faccia ciò che vuole, noi facciamo ciò che vogliamo, cioè ciò che vuole Dio, e chi ha orecchie per intendere intenda” (Corriere del Mezzogiorno, 4.9.2011).
Sarà che Napoli, più che una città, è una condizione dello spirito che accomuna il plebeo e il patrizio, ma in queste parole vibra l’eco della sfida che il contrabbandiere di sigarette oppone ad ogni ulteriore inasprimento delle pene che lo Stato decide di erogare a chi commette tale reato: lo Stato faccia ciò che vuole, ma io sono contrabbandiere e contrabbandiere resto. In più, è vero, Sua Eminenza ci aggiunge quel “chi ha orecchie per intendere intenda”, che per metà è evangelico e per metà è camorristico, perché equivale a quell’implicita proposta che in passato fu in più occasioni avanzata da qualche illuminato contrabbandiere di alto rango: concedere a Napoli uno statuto speciale in deroga alle prerogative del Monopolio di Stato. Al netto della sfida alla legalità, il contrabbandiere sembrò dar corpo a un’idea che profumava di liberismo e di federalismo. Così pure Sua Eminenza, sfidando il Parlamento.
domenica 4 settembre 2011
Postmodernism is dead
Arriva su la Repubblica di sabato 3 settembre, tradotto da Anna Bissanti, un lungo articolo di Edward Docx, pubblicato alcuni mesi fa su Prospect Magazine col titolo Postmodernism is dead, che qui diventa Addio, Postmoderno. Tutta nel titolo, la tesi non è affatto nuova – basti pensare a The death of Postmodernism and beyond di Alan Kirby (Philosophy Now, 2006) – ma qui si fa forte di un argomento che l’autore ci offre come inoppugnabile: il 24 settembre, al Victoria and Albert Museum di Londra, si inaugurerà una prima retrospettiva globale di quanto il Postmodernismo ha prodotto in campo artistico, e tanto farebbe da lapide all’“idea predominante della nostra epoca”. Non ci vuol molto a capire, infatti, che per Docx non sarebbe morto solo un movimento artistico, ma “un modo di pensare e di fare”, perché col Postmodernismo siamo dinanzi a “una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico”. Il consueto interpretare l’arte come prodotto di una società, dunque, qui è capovolto: “ogni forma d’arte è filosofia e ogni filosofia è politica”, ma il pensiero e l’azione sarebbero frutto della loro rappresentazione, non viceversa, sicché parrebbe che la fine di un mondo possa essere causata dal collasso della sua immagine, non il contrario, e che questa immagine non proceda dal mondo, ma lo preceda, anzi. Docx non chiarisce se questo assunto valga in assoluto o solo per il Postmodernismo e, in tal caso, perché. Verrebbe voglia di consigliargli di non sprecarsi in frivoli articoletti, ma di impegnarsi seriamente nella costruzione di una teoria, possibilmente solida, così poi vediamo se ci convince. Chissà, può darsi riesca a spiegarci l’avvento del nazismo col tramonto del Déco.
Il Postmodernismo, dunque, è morto. Era “scherzoso, intelligente, divertente, affascinante”, prediligeva “la mescolanza, l’opportunità, la ripetizione”, aveva un debole per “l’apparenza e l’ironia”, “mirava a rompere col passato”, era animato da “un forte desiderio di disfare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’individuo, l’intero territorio del dibattito occidentale”, insomma, era uno stronzetto mosso da pulsioni nichiliste che ci ha instillato una letale “mancanza di fiducia nei dogmi”, generando in noi “una sensazione di confusione” che “negli ultimi anni è diventata onnipresente”, sicché erano in tanti a lamentare: “Nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Ma per fortuna, è finita: si avverte, infatti, “un crescente desiderio di una maggiore veridicità”, e “i valori tornano ad avere importanza”, e “stiamo entrando in una nuova era” che “potremmo provare a chiamare Età dell’Autenticità”. Non ci vuole molto per capire che l’anima del Postmodernismo era il Relativismo e che, pur riconoscendogli qualche merito, Docx gli rimprovera di averci fatti orfani della Verità, rendendoci così deboli e insicuri, vulnerabili alle bieche norme del mercato che hanno sostituito le leggi dei padri. Non si trattasse dell’articoletto di un professorino che insegna al Christ’s College di Cambridge, sembrerebbe il fervorino di un pretonzolo sulla crisi di un mondo che ha smarrito le sue radici cristiane. Ma la riflessione si mantiene a un livello basso, poco più articolato del malessere di una anziana signora con veletta davanti a una installazione di Hermann Nitsch.
Il Postmodernismo, dunque, è morto. Era “scherzoso, intelligente, divertente, affascinante”, prediligeva “la mescolanza, l’opportunità, la ripetizione”, aveva un debole per “l’apparenza e l’ironia”, “mirava a rompere col passato”, era animato da “un forte desiderio di disfare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’individuo, l’intero territorio del dibattito occidentale”, insomma, era uno stronzetto mosso da pulsioni nichiliste che ci ha instillato una letale “mancanza di fiducia nei dogmi”, generando in noi “una sensazione di confusione” che “negli ultimi anni è diventata onnipresente”, sicché erano in tanti a lamentare: “Nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Ma per fortuna, è finita: si avverte, infatti, “un crescente desiderio di una maggiore veridicità”, e “i valori tornano ad avere importanza”, e “stiamo entrando in una nuova era” che “potremmo provare a chiamare Età dell’Autenticità”. Non ci vuole molto per capire che l’anima del Postmodernismo era il Relativismo e che, pur riconoscendogli qualche merito, Docx gli rimprovera di averci fatti orfani della Verità, rendendoci così deboli e insicuri, vulnerabili alle bieche norme del mercato che hanno sostituito le leggi dei padri. Non si trattasse dell’articoletto di un professorino che insegna al Christ’s College di Cambridge, sembrerebbe il fervorino di un pretonzolo sulla crisi di un mondo che ha smarrito le sue radici cristiane. Ma la riflessione si mantiene a un livello basso, poco più articolato del malessere di una anziana signora con veletta davanti a una installazione di Hermann Nitsch.
sabato 3 settembre 2011
Allontanate i bambini
Bisogna avere tanta comprensione per il povero Sacconi. Gli era venuta la brillante idea di scorporare gli anni di università e quello della leva militare obbligatoria dal computo di anzianità per l’età pensionabile, il Consiglio dei Ministri l’aveva fatta sua, si era sentito un genio, avrà avuto la sensazione che la prostata gli resuscitasse . Poi, nel volgere di un giorno, la sua brillante idea si è rivelata una stronzata di notevole portata, anche un pochino incostituzionale, e il Consiglio dei Ministri l’ha subito ritirata, anche con un certo imbarazzo, cosa rara per quella carretta di svergognati. Povero Sacconi, si può capire gli sia venuto l’acido. Spettacolo inverecondo: prima di pigiare play, allontanate i bambini.
[grazie a Denis per la segnalazione]
venerdì 2 settembre 2011
“A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”
Non fosse caduto in disgrazia, il suo curriculum vitae farebbe invidia a tanti: “A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”. In un paese dove il successo è così spesso dato, e quasi sempre rappresentato, assai più che dal pubblico riconoscimento di meriti, dall’intimità privata che si riesce a poter vantare coi potenti, Giampaolo Tarantini non poteva a buon diritto dirsi un uomo di successo? Non fossero venuti a galla i suoi maneggi, che da subito, e per sua stessa ammissione, hanno mostrato i caratteri della spregiudicatezza che si è fatta ripetutamente prossima al reato, chi non avrebbe dato per scontato che tanta confidenza con due uomini così potenti, due autorevolissimi leader politici, due premier, fosse prova provata di qualche sua indubbia dote, ancorché ignota, comunque degna di un meritato successo? Tanto più solido, nel suo caso, per la caratura dei potenti coi quali, ancora fino a ieri, poteva vantare di aver intrattenuto rapporti personali, per il grado di intimità di queste frequentazioni, per la continuità nel tempo e per la trasversalità di ambienti.
Ora, ammettiamo per pura ipotesi che il nostro uomo di successo non sia in carcere, che le vicende delle quali è stato protagonista non siano mai arrivate sulle scrivanie dei magistrati che indagano sul suo conto, né nelle pagine di politica interna e di cronaca giudiziaria. Ammettiamo, dunque, di ignorare quanto sappiamo sul suo conto e di essere ospiti a casa sua, in poltrona, con un bicchiere in mano, a un metro da un tavolinetto sul quale, in splendide cornici di radica o d’argento, stiano due foto: Giampaolo Tarantini accanto a Massimo D’Alema, ritratto al timone della sua Ikarus; Giampaolo Tarantini sotto braccio a Silvio Berlusconi, sui prati della tenuta di Arcore. Chi oserebbe sospettare di essere a casa di un delinquente? Ve lo dico io: solo chi nutra il pregiudizio che, per sua intrinseca natura, il potere non possa fare a meno di concedere intimità a dei delinquenti.
Ve la sentite di farvi vittima di questo pregiudizio? O preferite rinunciare a un altro pregiudizio, che è quello di considerare di per se stesso un merito l’intimità coi potenti, che pure è esibita da tanti uomini di successo, non necessariamente delinquenti? Io vi consiglierei questa seconda opzione. E allora dovete cominciare a guardare con sospetto quel genere di foto, quel genere di cornici, quel genere di tavolinetti. Dovete cominciare a non invidiare la prossimità al potere e a sospettare della sua esibizione, che è colpevole sempre.
Non se ne andrà
Quando Silvio Berlusconi telefona a Valter Lavitola, lo scorso 13 luglio, sa bene che molto probabilmente quella conversazione sarà intercettata, perché l’uomo è coinvolto in almeno due inchieste ed è assai verosimile che le sue utenze telefoniche siano sotto controllo. Sa bene, dunque, che il contenuto di quella telefonata avrà buone possibilità di essere reso pubblico, anzi, non è escluso che decida di farlo proprio a tal fine, di modo che le sue affermazioni possano avere il sapore di uno sfogo sincero, fatto in piena libertà con persona dalla provata fede. È solo una mia ipotesi, ovviamente, ma mi pare abbia trovi fondamento da ciò che pare emergere come unica premura nel corso della conversazione telefonica: dichiararsi interamente estraneo ai traffici di Luigi Bisignani, dei quali Silvio Berlusconi tiene con insistenza a ribadire d’essere vittima, per il coinvolgimento, che pure concede possa essere inconsapevole, di Gianni Letta. Dietro ci sarebbe un complotto dei suoi “nemici”: Italo Bocchino, Massimo D’Alema, Ferruccio De Bortoli, Luca Cordero di Montezemolo.
Anche se la mia ipotesi fosse errata, sarebbe verosimile un simile scenario? Per meglio dire: è più probabile che Silvio Berlusconi ritenga davvero credibile questo complotto ai suoi danni o invece è possibile che voglia offrircelo come spiegazione dell’enorme intreccio che coinvolge tanti fra i suoi uomini più fidati (Denis Verdini e Marcello Dell’Utri, innanzitutto, oltre Gianni Letta)? La domanda ha senso solo fino a un certo punto, perché si tratta di un uomo malato per il quale non c’è troppa differenza tra ciò che crede davvero e ciò che vuole far credere: la realtà, per Silvio Berlusconi, è ormai soltanto ciò che può tornargli utile ad accreditarsi, innanzitutto dinanzi a se stesso, come innocente. Meglio: come al di sopra di ogni responsabilità.
In questa fantasiosa versione dell’enorme intrico di malaffare al quale diamo il nome di P4, che con quella telefonata ci è suggestivamente offerta come se certificata dalla nuda buona fede, risuona l’eco della frase che l’anno scorso Silvio Berlusconi citò dai falsi diari di Benito Mussolini, per calzarla: “Dicono che ho potere, ma non è vero. Forse ce l’hanno i gerarchi, ma non lo so”. Se questa ipotesi è valida, “tra qualche mese me ne vado da questo paese di merda di cui sono nauseato” è frase che pretenderebbe di certificare la sua buona fede, e in tal caso possiamo esser certi che non se ne andrà.
giovedì 1 settembre 2011
Non si dica
Il contribuente è “moralmente autorizzato” all’evasione fiscale se lo Stato lo tassa per più del 33% di quello che guadagna, questo almeno è quanto sosteneva l’ometto che prometteva “meno tasse per tutti”, e che ora, dopo non essere riuscito ad abbassarle, pensa all’eventualità del carcere per chi le evada. Non si dica che è una merda, è peggio.
Se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva
Con una notevole faccia tosta, essendo stato il plenipotenziario per Bettino Craxi nelle trattative tra Stato e Chiesa per la revisione del Concordato del 1984, Gennaro Acquaviva spreca l’occasione di star zitto e interviene nel dibattito che in questi ultimi giorni si è riaperto sull’8xmille, sua creatura, e ammette che, sì, “quella percentuale è troppo alta” e “andrebbe ridotta al 7xmille” (Corriere della Sera, 30.8.2011).
Solo la quota relativa ai contribuenti che nella loro dichiarazione dei redditi fanno specifico indirizzo dell’8xmille alla Chiesa cattolica è nota: è solo il 40%, e già fanno poco più di un miliardo di euro. A questa cifra bisogna aggiungere la quota parte del restante 60% dei contribuenti che omette ogni indicazione, e che per circa il 90% prende comunque la via del Vaticano. Parliamo di una cifra mostruosa, e poco più della metà è rubata con un trucco schifoso: Gennaro Acquaviva pensa che forse è il caso di alleggerirla di qualche centinaio di milioni. Non di più, per carità di Dio, perché “la Chiesa cattolica tiene letteralmente in piedi e unito il nostro Paese” e, “se si fermano i preti e le parrocchie, si ferma l’Italia”. E questo forse dà un’idea di cosa debba intendersi con “socialista” quando si parla del Psi di Bettino Craxi.
Sì, vabbe’, concesso, e quando questa sforbiciatina? Boh, chissà, stando a quanto è stato stabilito nel 1984 grazie all’illuminata opera di Gennaro Acquaviva, “la prima mossa è in mano alla Cei”. Tutt’è che adesso la Cei recepisca il suo autorevole parere, vediamo se lo recepisce, può darsi che lo recepisca. Potremmo concordare in questo modo: se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva, sarà lui a recepire il nostro, che è quello di andare a fare in culo.
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