In relazione a un post del 9 maggio (Avido, l’ebreo), nel quale affermavo che l’antisemitismo razziale ha radici nell’antigiudaismo teologico che ha il primo teorizzatore in Giovanni Crisostomo, un lettore mi scrive per chiedermi in cosa abbia radice l’antigiudaismo teologico, proponendo come ipotesi il materiale che lo stesso Giovanni Crisostomo trae dai Vangeli, dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere di Paolo. Non sono della stessa idea: l’uso di questo materiale, nelle sue otto omelie adversus judeos, è palesemente strumentale (come abbondantemente dimostrato da Jules M. Isaac in Jésus et Israël). L’antigiudaismo nasce tra il III e il IV secolo: nella letteratura antecedente a questo periodo non vi sono “insegnamenti al disprezzo” degli ebrei e, anzi, almeno fino a Paolo, gli ebrei continuano ad essere “popolo eletto” anche non avendo riconosciuto in Cristo il Messia. Proprio partendo dalle Lettere di Paolo, in Jeshù ha-nozerì, Joseph G. Klausner arriva a dimostrare che fra i primi cristiani, almeno fino al I/II secolo, fosse opinione corrente che gli ebrei avessero consegnato Gesù a Pilato solo per sottrarsi alle conseguenze che sarebbero potute venire dai romani in reazione a ciò che l’insegnamento di Cristo faceva fraintendersi come movimento di resistenza all’occupazione. Lo studio di Klausner mi pare convincente e basta una lettura della Lettera ai Romani (3, 1-2; 9, 4; 11, 1; 11, 11-12; 11, 29) per constatare che in Paolo v’è intento di proselitismo verso gli ebrei, ma mai una chiara accusa di deicidio. Come e perché sia nato l’antigiudaismo cristiano è faccenda complicatissima, ma è proprio il fatto che se ne abbiano le prime tracce nel III/IV secolo che può spiegarlo: è il momento in cui il cristianesimo diventa religione di stato e Gerusalemme comincia ad essere trasformata lentamente in città bizantina, con qualche resistenza da parte degli ebrei...
lunedì 14 giugno 2010
domenica 13 giugno 2010
Il Merdaccia
Sfoglio un vecchio numero di Semana (I/3, 12.3.1940) che celebra il primo anno del pontificato di Pio XII.
È il marzo del 1940 e l’Europa è un rogo sempre più incandescente, con poche eccezioni, una delle quali è proprio la Spagna, che se ne terrà fuori. Francisco Franco ha vinto la guerra civile (1936-1939) e si prepara a diventare l’unico fascista che resterà saldo al potere dopo la caduta di tutti i fascismi europei alla fine della seconda guerra mondiale, proprio grazie al suo tenersi defilato, praticamente neutrale. È che deve consolidare la vittoria interna sul comunismo, che ha avuto nella Chiesa un fortissimo alleato.
Pio XII è un papa che piace molto a Franco e una rivista filogovernativa come Semana non ne fa mistero, celebrando in questo numero fra le molte virtù del Pacelli quella più simpatica al regime franchista: l’anticomunismo. E però non la si può celebrare in modo esplicito, perché questo potrebbe imbarazzare il Papato: c’è delicatezza verso un altro tipo di neutralità, quella santa della Chiesa, certamente anticomunista ma da qualche tempo anche antifascista.
C’è un unico modo per dire quanto la Spagna di Franco senta vicino il Papa e quanto gli sia grata per il contributo che ha dato al fascismo spagnolo nella vittoria interna sul comunismo: mandargli insegne militari da benedire. E qui è la volta che tocca alla Marina militare.
“Vuestra profesión de marinos españoles Nos trae a la memoria quella provídenciales carabelas de la España misionera, verdaderas auxiliares de las naves de San Pedro…”. Stiamo parlando della Marina militare che Franco ha ormai definitivamente purgato di ogni ammiraglio che non gli sia stato fedele, a cominciare dai responsabili dell’ostruzione fattagli a Gibilterra dal cacciatorpediniere “Lepanto”, che nell’agosto del 1936 gli aveva ostacolato lo sbarco della sua “Armata d’Africa”.
In ginocchio innanzi al Papa ci sono militari fascistissimi e al Merdaccia paiono provvidenziali ausiliari della evangelizzazione, scorta armata in mare della fragile navicella di San Pietro. Sennò perché Merdaccia?
L’intento ritorsivo e minatorio
Filippo Facci sostiene che la cosiddetta legge-bavaglio introduce una sola “differenza sostanziale” rispetto alla “vecchia norma” (artt. 684 e 329 del Codice di Procedura Penale): “Il nuovo disegno di legge prevede sanzioni che giornalisti ed editori non potranno trascurare, se applicate”. Perché non bastava applicare la “vecchia norma”, allora, rivendendo eventualmente solo le sanzioni e il meccanismo col quale vengono erogate? Perché una legge nuova, “in teoria – sostiene Facci – più permissiva della precedente”?
La principale ragione per cui hanno fatto la legge – dice – è quella di evitare la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni prima del tempo, cioè prima del processo. Ma questo non era già assicurato dalla “vecchia norma”, come lo stesso Facci ci rammenta col secondo comma del vecchio art. 114 del Codice di Procedura Penale?
Sono stati commessi abusi verso la “vecchia norma”? Si puniscano, eventualmente in modo più pesante. Ma com’è che Facci non riesce a leggere l’intento ritorsivo e minatorio che c’è nella legge-bavaglio? Com’è che non riesce a cogliere il movente intimidatorio?
Un marziano a Roma
Immaginate d’essere un marziano a Roma, però in incognito. E immaginate d’essere piovuto in Piazza San Pietro nel corso della messa che sta chiudendo l’Anno Sacerdotale: migliaia di preti, venuti lì da ogni parte del mondo. Naturalmente, da marziano, vi è oscuro il senso del termine, ma intuite che quei tizi assai diversi fra di loro per colore, forma e peso abbiano una cosa in comune che peculiarmente li contraddistingue sopra ogni cosa, e vi chiedete cosa.
Non avete che da porgere uno dei vostri sei meati uditivi, parla il loro boss: “Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente lui stesso, il Risorto, il suo corpo e suo sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a lui”.
Facciamo conto che su Marte siate tipi perspicacissimi e che questo vi sia bastato a cogliere l’essenza del cattolicesimo: vi rimane comunque un buco: cosa fa speciale questo umano detto prete? “Dio si serve di un povero uomo – dice per colmarvelo – al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore”, sì, ma perché proprio di lui? Perché lui ci si sente portato: sente che Dio stesso lo chiama a fare quel “qualcosa che nessun essere umano può fare da sé”. Ma l’onnipotente – chiederete voi – non poteva dotarne ogni essere umano? Obiezione tipicamente marziana che sulla Terra non ha senso: noi siamo fatti così, tendiamo a delegare le questioni personali, anche il rapporto con Dio, quando siamo credenti, e soprattutto quello, quando siamo cattolici.
Altra obiezione senza senso, almeno qui da noi, è quella relativa a cosa dia la garanzia che un prete sia indispensabile nel rapporto con Dio, a cosa certifichi l’indispensabilità di quelle “parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a lui”: è la stessa sua vocazione, ne fa garanzia un altro prete che lo fa prete.
Su Marte la chiamate tautologia e non l’avete in buona considerazione, ma qui da noi è il non plus ultra: con le tautologie riusciamo a costruire l’inverosimile e, più è inverosimile, più la tautologia ci sembra spiegar tutto. Dunque non vi stupite più di tanto se sentite: “Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua, questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio»...”; si tratterebbe dell’audacia dei sacerdoti, ma la tautologia la fa diventare “audacia di Dio”.
E allora non state a strabuzzare il vostro papillario ottico se il papa esprime “gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza” come se la vocazione fosse – di per se stessa – prova provata di un forza nel debole, di una virtù nel fetente e di una grazia nell’ordinato: su Marte fate come vi pare, qui da noi usa così.
“È successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio – dice – siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti, soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita”.
Su Marte ci sarebbe una contraddizione, so bene: il prete, che prima, anche se debole, trovava ogni sua forza nella vocazione e nel fatto che questa fosse certificata come genuina da un altro prete, non essendo fin lì venuto alla luce alcun abuso da lui compiuto su un minore, qui – di colpo – perderebbe ogni forza e la sua debolezza porrebbe dubbi sulla stessa autenticità della sua vocazione. Contraddizione su Marte, forse, qui da noi è solo apparente: la vocazione è autentica fino a quando non è più autentica, e nell’un caso e nell’altro a stabilirlo è un altro prete. In definitiva, l’autenticità della vocazione è garantita per ciascun prete dall’insieme dei preti.
“Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende”, e qui sembrerebbe che i preti non siano mera corporazione: “dono di Dio”, piuttosto. E però questo “dono di Dio”, che “rende concreto in questo mondo il suo amore” anche “attraverso tutta la debolezza umana” dei “vasi di creta” che sceglie, non è più tale solo quando la corporazione svuota il vaso, sicché “consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione”. La corporazione resta pulita disfandosi dei membri di cui gli abusi siano venuti alla luce: per tutti gli altri fa garanzia la vocazione, in assoluto.
Com’è da voi su Marte? Avete anche da voi una corporazione che si occupa del vostro rapporto con Dio? Anche da voi ciascun membro di questa corporazione offre garanzie da sé, in forza della vocazione? E accade anche da voi che queste garanzie perdano valore solo quando (e se) la corporazione gliene sottrae l’autentica? Insomma, avete pure voi un Dio così corporativo?
[...]
Il Decalogo del giornalista di Piero Ottone (la Repubblica, 25.9.1996) recita:
“1. Scrivi sempre la verità, tutta la verità, solo la verità.
2. Cita le fonti. Se la tua fonte vuole restare anonima, diffida.
3. Verifica quel che ti dicono. Se non puoi verificare, prendi le distanze.
4. Non diffamare il prossimo, ed evita le frasi del tipo: «Sembra che il tale abbia rubato...».
5. Non obbligare il lettore a leggere una colonna di roba prima che cominci a capire che cosa è successo.
6. Non fare lunghe citazioni fra virgolette all’inizio di un «pezzo» senza rivelare subito chi sia il loro autore.
7. Non mettere mai fra virgolette, nei titoli, frasi diverse da quelle che sono state pronunciate.
8. Evita le iperboli e le metafore di Pierino, come «bufera» («il partito è nella bufera»), «giallo» («il giallo di Ustica»), «rissa» («ed è subito rissa fra x e y»), «fulmine a ciel sereno».
9. Prima di scrivere nel titolo che «Londra è nel panico», va’ a Londra e controlla se otto milioni di persone sono davvero usciti di testa.
10. Non dire mai: «L’obiettività non esiste». È l’alibi di chi vuole raccontare balle”.
Quello di Manuel Lozano Garrido (1920-1971), giornalista cattolico spagnolo, beatificato oggi, è tutta un’altra cosa:
“1. Ringrazia l’angelo che sulla tua fronte segnò la stella della Verità e che la fa brillare ogni momento.
2. Ogni giorno partorirai il tuo messaggio con dolore, perché la verità è una brace che si toglie dal cielo e brucia il nostro cuore per illuminare. Tu fai in modo di portarla dolcemente fino ai cuori dei tuoi fratelli.
3. Tu, quando scriverai, lo dovrai fare in ginocchio per amare; seduto per giudicare, in piedi e con forza per combattere e seminare.
4. Apri con stupore gli occhi a ciò che vedrai, e lascia le tue mani riempirsi della freschezza della linfa, in modo che gli altri, quando ti leggeranno, toccheranno con mano il miracolo palpitante della vita.
5. Il buon pellegrino della parola pagherà con la moneta della franchezza nella porta aperta della locanda che è ogni cuore.
6. Lavora il pane dell’informazione pulita con il sale del buon stile e il lievito dell’eterno. Poi offrilo affettato per avvivare l’interesse, ma non togliere a ciascuno la gioia di assaporare, giudicare ed assimilare.
7. Albero di Dio, chiedi di diventare una rovere dura ed impenetrabile all’ascia della lusinga e della corruzione, ma con la tua fronte nel fogliame al momento della raccolta.
8. Se chiamano fallimento il tuo silenzio perché la luce manca all’appello, accetta e taci. Guai al povero idolo con i piedi fatti con il fango della bugia. Ma attento anche alla vanagloria del martire quando le parole non si fanno sentire a causa della codardia.
9. Taglia la mano che vuole imbrattare, perché le macchie nei cervelli sono come quelle ferite che non guariscono mai.
10. Ricorda che non sei nato per la stampa a colori (gialla, nera, rossa..). Né confetteria, né piatti forti. Meglio servire il buon boccone della vita pulita e speranzosa, così come è”.
Io preferisco quello che sta in una sentenza della Corte di Cassasione del 17.10.1984:
“Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) [...] è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma «civile» della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è «mezza verità» (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è «civile», non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria. Proprio per questo il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione.
Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre - con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato - ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette):
a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più sfavorevole - se non apertamente offensivo - nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;
b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate;
c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo - anche là ove di solito non viene messo - o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, «notevole», «impressionante», «strano», «non chiaro»;
d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui «non si può escludere che...», riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto”.
A scanso di ogni equivoco, dico subito che, a mio parere, un blogger non è un giornalista: non ne ha i titoli, non ne ha gli onori, non ha diritto agli oneri che gravano sul giornalista (qualunque sia il Decalogo qui preso in considerazione). Un blogger diffonde notizie e commenti, ma non lo fa per mestiere: ha doveri verso la legge ordinaria, non verso un codice deontologico condiviso, tanto meno verso una normativa speciale implicita nell’adesione ad un ordine professionale. Ed è per questo che mi stanno sul cazzo i giornalisti che hanno un blog e i blogger che si danno arie da giornalisti.
Tutto questo a premessa di due o tre post che, se ho tempo, butterò giorni giù entro lunedì. Sennò quando sarà.
sabato 12 giugno 2010
“Avranno una ragione”
“È un bugiardo, punto. […] Penso che in molte cose sia davvero convinto di fare il bene del Paese. È talmente così fuori di testa che pensa di fare il bene del Paese. Non è un mascalzone, non è una carogna, è l’Alberto Sordi della politica. Ognuno di noi ha delle caratteristiche e gli italiani ne hanno diverse: sono un po’ bugiardi, un po’ gradassi, un po’ mascalzoncelli. Lui ha preso tutte queste cose, le ha messe insieme e le ha elevate al cubo. C’è riuscito mirabilmente, tanto è vero che gli italiani lo votano, gli danno il consenso: avranno una ragione”
Lo scalpore
Su L’Osservatore Romano di ieri:
All’articolo Tammurriata nera, di Giulia Galeotti – pubblicato su L’Osservatore Romano dell’11-12 gennaio scorso – andrà il Premio Eduardo Nicolardi 2010; la cerimonia di premiazione si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 10 giugno, alle 18.30, presso l’Institut Français Grenoble di via Francesco Crispi a Napoli. Il premio, giunto alla sua ventesima edizione, è nato per onorare la memoria del poeta e giornalista Eduardo Nicolardi, e per valorizzare chi diffonde, promuove e salvaguarda la canzone e la cultura napoletana nel mondo. Nel suo articolo, Giulia Galeotti citava proprio la celebre canzone scritta da Nicolardi nel 1945 nel periodo in cui dirigeva un ospedale cittadino, come simbolo di una società abituata a non discriminare chi ha un diverso colore della pelle.
È notizia che mi lascia senza fiato, perché a commento di quell’articolo avevo scritto:
Gli italiani sono più razzisti oggi che nel 1945? Può darsi, ma Tammurriata nera è un pessimo argomento per sostenere questa tesi. Giulia Galeotti, invece, è convinta del contrario e così scrive su L’Osservatore Romano:
“Nel vivace botta e risposta con la gente del vicolo, il protagonista-spettatore commenta un fatto «strano», la nascita di un bambino nero da una ragazza partenopea. Nella canzone lo stupore per un fenomeno nuovo («Io nun capisco ‘e vvote che succede / e chello ca se vede nun se crede. / È nato nu criaturo, è nato niro») e diffuso («Sti cose nun so’ rare, se ne vedono a migliare»), viene spiegato in modo affascinante e singolare: «‘E vvote basta solo ‘na guardata / e ‘a femmina è rimasta sott’ ‘a botta impressionata». Interviene quindi il parularo: poco importa che sia dalla pelle bianca o nera, rimane una creatura. «Addò pastíne ‘o ggrano, ‘o ggrano cresce: / riesce o nun riesce, sempe è ggrano chello ch’esce!». Nel 2010, invece, siamo ancora all’odio”.
Bene, è proprio ciò che afferma il «parularo» [in realtà: «parulano»] a smentire ciò che erroneamente sembra a Giulia Galeotti. La sua frase, infatti, è da interpretare in tutt’altro modo: se pianti [un seme] bianco, buona o cattiva che sia la raccolta, mieterai [un raccolto] bianco (se mieti [un raccolto] nero, dev’essere stato piantato [un seme] nero). La spiegazione “affascinante e singolare” è in tal modo rigettata dal «parularo», come è evidente da ciò che dice nel ritornello subito seguente: “Seh, ‘na uardata, sì. / Seh, ‘na ‘mpressione, seh. / Va’ truvanne mo chi è stato / c’ha cugliuto bbuono o’ tiro: / chillo ‘o fatto è niro niro…”. Tutt’altro che bianco, diverso da un bianco, sicché “ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono, / ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro / chillo ‘o fatto è niro niro…”: un nome da [uomo] bianco non lo farà diventare un [uomo] bianco. Ci si legge più razzismo, temo, che il contrario.
(Italiani e razzismo – Malvino, 11.1.2010)
Ho ripreso fiato informandomi sui membri della giuria del Premio Eduardo Nicolardi e sull’associazione che ne cura le edizioni, ma qui non è il caso di fare polemiche, perché anche premi assai più prestigiosi vengono dati a cazzo di cane, in Italia, da cani a cani. Quello che mi interessa è altro: Tammurriata nera descrive un’Italia del 1945 meno razzista di quella del 2010, come sostiene la Galeotti nel suo articolo, o no? In altri termini: ho letto male il suo articolo a gennaio?
L’ho letto bene, l’ho letto bene: ci ho passato un pomeriggio, ma ho trovato la conferma alla mia lettura. In due volumi di storia della canzone napoletana (l’enciclopedia di Ettore De Mura e il trattato di Vittorio Paliotti) e in una biografia di E.A. Mario che musicò Tammurriata nera (di Max Vajro) ho trovato lo stesso aneddoto.
Nel 1945, all’Ospedale Loreto Mare, dove Eduardo Nicolardi lavora in amministrazione, nasce un bambino niro e la cosa genera scalpore. Al momento chiamiamolo scalpore. È lo scalpore descritto nella canzone. E che il Nicolardi comunica a E.A.Maio, suo amico (di lì a poco anche suo consuocero). Il quale ne rimane assai colpito. Al punto che gli fa: “È ‘na mamma curaggiosa! È ‘na mamma chiena ‘e core! Edua’, facimmo ‘sta canzone!”.
Curaggiosa: per una donna bianca che mette al mondo un bambino nero, nell’Italia del 1945, ci vuole del coraggio per affrontare lo scalpore. Forse non è proprio scalpore.
La Galeotti non ha capito un cazzo. Ma è stata premiata. È questo che dovrebbe provocare scalpore.
venerdì 11 giugno 2010
Chi ha fatto fuori padre Vianney?
“L’anno che il Papa ha dedicato ai sacerdoti si sta chiudendo con un giallo” (Il Foglio, 11.6.2010). Non si tratta del caso Padovese, che Il Foglio ha già archiviato come martirio della fede. Il giallo sta nel fatto – cominciate a rosicchiarvi le unghie, la cosa merita – che “Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars, non verrà proclamato «patrono dei preti di tutto il mondo» come l’Osservatore Romano aveva annunciato il 9 giugno”.
Eccitante, no? Eccitante ed edificante, direi. Come un giallo della serie di padre Brown, tenuto conto che il signor direttore copia i papillon a Chesterton. Mica un giallaccio di quelli da cronaca nera, nel quale – faccio per dire – il cadavere è quello di un gay assillante e l’assassino ha agito con la furia di quella resipiscenza omofoba che prende chi ha dato un qualche diritto all’assillante: questo no, sarebbe un Giallo Mondadori, mentre Il Foglio smercia suspense di qualità superiore.
Sentite come monta: “La proclamazione era un passo naturale dopo che nel corso dell’anno più volte il Papa ha citato Vianney come modello per il clero”; al vertice del climax: “Perché dunque la retromarcia?”. (Non ho ancora un iPad, non posso controllare, ma a questo punto, sulla versione scaricabile de Il Foglio, dev’esserci di certo un link che apre un file audio con breve traccia musicale dall’effetto a incalzo, come in ogni buon film noir.)
Chi ha fatto fuori padre Vianney? “Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Vaticano all’agenzia I.Media, l’inedita decisione è stata presa perché il curato d’Ars non è «abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale». Inoltre non riflette «completamente la figura del prete di oggi, all’epoca della comunicazione»”.
Dopo averlo portato in giro dappertutto con più devozione che per una Madonna Pellegrina e per un anno intero? È chiaro che qui il giallista ci sta dando solo una delle false soluzioni che solitamente anticipano, con immediata smentita, la rivelazione finale, la vera soluzione del giallo, due minuti prima dei titoli di coda, all’ultima pagina del thriller. È banale solo a non capire che si tratta di un meccanismo canonico della suspense, solo se siete lettori di basso livello potete chiedervi: se ne accorgono solo adesso che come modello faceva cagare?
Se siete lettori di alto livello – al livello de Il Foglio – vi godete buoni buoni l’effetto a incalzo e le false soluzioni. Dopo la prima, la seconda: “Il motivo potrebbe anche essere burocratico. Qualcosa non avrebbe funzionato nella stesura del Motu proprio che ne sanciva la proclamazione”.
Soluzione finale del giallo? Non c’è: il giallista lascia l’opera aperta. In meno di 24 ore Il Foglio è riuscito ad archiviare un fattaccio oscuro accaduto a migliaia di chilometri di distanza, in Turchia, ma il giallo che sta di là da Lungotevere Raffaello Sanzio resta senza assassino. (Una eventuale delusione prova che siete fatti solo per i gialli volgari, da plebe incolta.)
“L’informazione, va saputa maneggiare”. Per tacere della grammatica.
Agli illustri letterati che scrivono su Il Post andrebbe consigliato un uso meno disinvolto della punteggiatura, almeno nei titoli, com’è nel caso de “L’informazione, va saputa maneggiare” e di “Sapessi com’è strano, fare le primarie a Milano”, entrambi in homepage oggi. So bene che sollevare le basse questioni di grammatica fino agli eccelsi livelli di scrittura offertaci dalle prestigiose firme del fighissimo aggregatore è operazione ardita, a rischio di apparire petulanza un po’ codina, ma ritengo che l’uso della virgola nei due casi sopra riportati non può arrivare ad essere tanto arbitrario.
Il genio italico è in fermento, accanto a un Silvio Berlusconi che vuol riscrivere la Costituzione non sfigura affatto una riforma della lingua ad opera di Luca Sofri, e tuttavia – sarò un fottuto conformista – non riesco a cogliere altra ratio in queste velleità rivoluzionarie se non quella di disfarsi di leggi delle quali – mi sembra di capire – non si è mai penetrato bene il senso: nella proposta di inserire una virgola tra soggetto e verbo, ad esempio, mi pare che l’istinto di scrivere alla-come-cazzo-viene prevalga sulla logica che informa la relazione fra le parti del periodo, e questo – confesso – mi rende un poco controriformista.
Devo considerarlo unico responsabile dei due titoli oggi in pagina su Il Post, perché i pezzulli non sono firmati, sicché è a Luca Sofri che consiglio: Lynn Truss, Eats, Shoots & Leaves: The Zero Tolerance Approach to Punctuation, Profile Books, London 2003. Consigliargli un manuale di grammatica italiana ad uso degli studenti delle medie inferiori potrebbe apparirgli offensivo, e non voglio: sono sicuro che un testo in lingua inglese, relativamente recente, di scorrevole lettura, gli sembrerà meno provocatorio.
Sì, lo so, la legge non è stata varata ancora, faccio per dire...
Dopo aver visto quant’è tiranno Berlusconi nel mettere il bavaglio ai giornalisti italiani, c’è da vedere solo quanto sapranno essere eroi loro, levandoselo, costi quel che costi, perché la libertà d’informazione è cosa sacra, eccetera.
Interiors
Mosso da ragioni esclusivamente sentimentali, e però così forti da farmi essere disposto a ricorrere a qualche piccola disonestà intellettuale, volevo scrivere una lunghissima pagina in difesa di Daniele Luttazzi: sono stato più di un’ora davanti alla pagina bianca (*) senza riuscire a trovare niente di convincente, neanche tentando di ricorrere a disonestà intellettuali via via più grosse, e confesso che mi sono spinto fino a quelle che sfioravano il grottesco. Ogni volta che mi sembrava di aver trovato un buon argomento per sostenere la sua buona fede o almeno per dimostrare la mala fede in una delle accuse mossegli – e in entrambi i casi non avrei comunque dimostrato la sua innocenza – dovevo ricredermi: l’argomento era inutilizzabile, reso inservibile da precedenti affermazioni di Daniele Luttazzi.
Finisci per odiare chi ami se non ti consente di amarlo, e sì che tu stai lì a rischiare il grottesco, arrivando addirittura a tirar fuori la differenza tra rapsodo e aedo...
Non sono arrivato a odiarlo – non ci sono riuscito, nonostante tutto – ma sono riuscito a sentirmi un po’ idiota, ed è stato quando dopo più di un’ora, logoro d’imbarazzo dinanzi a me stesso, ho dovuto costatare che la sua innocenza o la sua buona fede erano sostenibili solo a patto che Daniele Luttazzi mi fosse venuto incontro dichiarando: “Oh, ma io non conosco la lingua inglese”.
Non sono arrivato a odiarlo – non ci sono riuscito, nonostante tutto – ma sono riuscito a sentirmi un po’ idiota, ed è stato quando dopo più di un’ora, logoro d’imbarazzo dinanzi a me stesso, ho dovuto costatare che la sua innocenza o la sua buona fede erano sostenibili solo a patto che Daniele Luttazzi mi fosse venuto incontro dichiarando: “Oh, ma io non conosco la lingua inglese”.
Ma lui – mi son chiesto – sarebbe capace di amarmi fino a venirmi incontro, e fino questo punto? Qui ho ceduto e ho dato dello stronzo a me e a lui.
(*) Avevo pure l’Instrumentun laboris in arretrato, puttana la miseriaccia!
(*) Avevo pure l’Instrumentun laboris in arretrato, puttana la miseriaccia!
giovedì 10 giugno 2010
mercoledì 9 giugno 2010
Tutto chiarito: quelli della Reuters sono santi e io sono un fetente
Sono stato aspramente rimproverato di aver corredato un post con una delle foto della Reuters che ritraevano un soldato israeliano pestato dai «pacifisti» della Freedom Flotilla: mi hanno detto che usare quella foto aveva intento malizioso, come a reclutare la ragione in forza di un dato emotivo, perciò intrinsecamente strumentale… E pensare che si trattava di una foto taroccata, ripulita di lame e sangue: a pubblicare la foto originale – è chiaro – avrei avuto intento ancora più ingannevole.
A zoppo, zoppo e mezzo
[Proseguono le indagini della polizia turca, ma per i cattolici è già tutto certo: monsignor Padovese è stato ucciso per odio religioso. Si nega anche l’eventualità che il movente dichiarato dal reo confesso possa essere quello vero, come se non fosse neanche teoricamente possibile che Sua Eccellenza avesse perso la testa per il giovane Altun, e intanto nessuno osa dire una frase semplice, anche se impegnativa: il Padovese non era gay. Io non sono certo che lo fosse, né che sia stato ucciso per le sue pressanti avances, e nemmeno escludo del tutto che l’omicidio sia stato rituale. Ma a fronte di questo insistere nel volercelo rifilare come martire, mi sento autorizzato a usare argomento altrettanto zoppo in favore della tesi del delitto a sfondo sessuale.]
Nell’iconografia cristiana il “guancia a guancia” è pressoché esclusivo tra la Vergine e il Bambino, e perfino i santi Sergio e Bacco, che la vulgata vuole gay, vengono solitamente raffigurati in posa non compromettente. Ma non bisogna leggere con quest’occhiale poco levigato la stranezza dell’icona appesa al muro in casa Padovese, in quel di Iskenderun: i tratti dei due santi rimandano a quelli tradizionalmente riferiti ai santi Pietro e Paolo, e anche se tra i due in realtà non corse ottimo sangue – Paolo andò d’accordo a malapena con se stesso – esistono dipinti su tavola e mosaici che li ritraggono a figura intera, nell’atto di baciarsi sulle guance, com’era in uso fra i cristiani del I e del II secolo (talvolta fino al IV) quando si incontravano… No, la stranezza sta nell’aver isolato quel particolare per un quadro da appendere in casa o, meglio, di aver scelto proprio quel dettaglio: il “guancia a guancia” tra due maschi, senza dubbio santi, e di prima importanza, quindi al di sopra di ogni sospetto in quanto a ineccepibilità di comportamento. Naturalmente non è detto che la scelta sia stata conscia.
Decapitato?
In molti paesi dove è vigente la shari’a – l’Arabia Saudita, per esempio – la pena comminata per il peccato/reato di sodomia è la decapitazione. Superfluo dire che, anche in questa occasione, come in mille altre nella tradizione islamica, il grido di “Allah Akbar!” che si leva a compimento dell’esecuzione capitale non è altro che un sigillo equivalente al nostro “amen”, nulla più di un “così sia”.
Essere decapitato da mano musulmana, insomma, non è di per se stesso un merito che possano apporsi sul petto solo i martiri della fede cristiana, crociati o meno, ma spetta di diritto pure i gay. Che monsignor Luigi Padovese sia stato decapitato, dunque, non fa prova provata che lo sia stato a causa della veste che indossava, e non esclude che il motivo stesse sotto quella.
Le contraddizioni in Dio
L’uomo vive di contraddizioni, ed è oggetto di discussione se eliminarle non comporti l’eliminazione dell’uomo stesso. In uno di questi tentativi – il monoteismo – lo sforzo mira ad azzerare le contraddizioni umane nelle contraddizioni che l’uomo ha appioppato a Dio, nel venirlo a costruire così come lo vediamo nella Torah, nei Vangeli, nel Corano: il monoteista si libera delle contraddizioni riponendole nel Mistero entro le quali non sono più tali, e il suo Dio si contraddice senza sbagliare mai.
Se prendiamo l’islam, per esempio, dove le parole di Dio sono indiscutibilmente quelle del testo sacro, senza che all’interprete sia consentita una lettura simbolica o allegorica, abbiamo un Allah violentissimo, ma anche infinitamente misericordioso, che qui prescrive di sgozzare gli infedeli, lì di tollerarli, più in là perfino di amarli come fratelli.
Idem coi Vangeli, naturalmente, dove le contraddizioni si contano a dozzine, ma il cristianesimo – anche il fondamentalismo cristiano, che tende a coranizzare i Vangeli – lascia un margine all’interprete, sicché le contraddizioni dell’uomo si annullano in Dio – rimanendo tali nel peccato – con la plasticità che i tempi richiedono al suo Cristo vivente: e così, dal puntare l’attenzione a un Dio “padrone del cielo e della terra”, la si sposta al “date a Cesare quel che è di Cesare”.
Con l’islam è diverso. L’islam non ha bisogno di interpretazioni e queste contraddizioni le risolve in un califfato che non è né teocratico né cesaropapista. E sul rapporto cogli infedeli risolve le contraddizioni prima della politica, mentre il cristianesimo le risolve tramite essa: ecumenismo sul piano interno, evangelizzazione su quello esterno, tutto secondo quando possibile, con prudenza e opportunismo. Nessuna prudenza, invece, e scarsissimo opportunismo nell’islam: le sorti della politica interconfessionale sono affidate a quelle del califfato virtualmente elaborato, ed è da quando i musulmani hanno perso i loro territori in Europa che l’elaborazione del califfato è revanchista e sciovinista, cioè jihadista. Il trauma delle crociate e poi della sconfitta subita a Lepanto ha precluso all’islam ogni altra possibile elaborazione delle contraddizioni del suo Dio.
E dunque – per dirla con Manuele II Paleologo – “Maometto ha portano di nuovo solo cose cattive e disumane”? Sarebbe un “modo pesante” di porre la questione, così disse Benedetto XVI a Ratisbona, quattro anni fa, e non bastò: le proteste levatesi nel mondo musulmano lo costrinsero a inserire nella sua lectio – dopo – che l’imperatore bizantino si fosse espresso “in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile”. E però il problema resta: per quanto espresso in modo inaccettabilmente pesante, il concetto di un islam inemendabilmente irrazionale e violento è – o non è – di questo pontificato? Se Giovanni Paolo II baciava il Corano, lo vedremo fare pure a Benedetto XVI?
Cominciamo col dire che, quando lo fece Giovanni Paolo II, quasi nessuno ebbe troppo da ridire (ai lefebvriani venne un attacco epilettico), ma era il maggio del 2001, mancavano ancora quattro mesi all’11 settembre: l’islam non era stato ancora dichiarato nemico dell’occidente. Il gesto non sarà piaciuto di certo al cardinale Joseph Ratzinger, quello che alcuni mesi prima aveva firmato la Dominus Jesus, ma se è per questo molto di ciò che faceva Giovanni Paolo II non gli andava a genio, ma non aveva indole per darlo a vedere. Sempre stato un cagasotto, il nostro. Uomo dei due passi avanti ed uno indietro. Come con l’islam. “Per la dottrina musulmana – diceva a Ratisbona – Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”: un po’ meno “pesante” di Manuele II Paleologo, indubbiamente, ma non di tanto. Sicché in una nota aggiunta successivamente: “Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica”.
Mica si diventa papa senza essere almeno un poco figlio di puttana.
Ordunque, siamo al passo indietro dopo i due passi avanti di Ratisbona? Pare proprio di sì, e in fondo già nei ritocchi successivi alla lectio era evidente l’intenzione: il professorino s’era accorto che da pontefice l’uditorio si ampliava di orecchie poco condiscendenti, fino al permaloso. Ma con le batoste prese da al Qaida, con il venir meno della sensazione di essere assediati da un miliardo e più di jihadisti, con la costruzione (ancorché surrettizia) di un “islam moderato”, i musulmani diventavano più facilmente dei possibili alleati che dei nemici contro la secolarizzazione del mondo.
I segni c’erano già tutti nel 2007 e nel 2008 con la ripresa dell’attività interconfessionale su temi di comune interesse. Meno irenismo, più agenda geopolitica. Naturalmente rimanevano in piedi gli enormi problemi politici relativi ai musulmani nei paesi di tradizione cristiana e ai cristiani nei paesi di tradizione islamica, ma questi, se non accantonabili, erano secondari a fronte dell’urgenza di spiritualizzare un mondo sempre più materialista.
Marciare divisi per colpire uniti: il senso del “trialogo” (cristiani, ebrei e musulmani) proposto dal papato era (ed è) questo. Ma in quale ardita ipotesi culturale e psicologica si possono immaginare insieme i vincitori e i vinti di Lepanto?
“Perché la Chiesa non può abbandonare lo spirito di crociata?”, si chiede uno jihadista cattolico. “Molto semplicemente perché non può rinnegare la propria storia e la propria dottrina. […] L’idea di crociata infatti non è solo un evento storico circoscritto al Medioevo, ma è una costante dell’animo cristiano che nella storia conosce momenti di eclissi, ma che sotto diverse forme è destinata a riaffiorare. […] Il Vangelo del resto, nel suo significato originario, è annuncio di vittoria militare, in questo caso la vittoria di Cristo sul male e sulle potenze delle tenebre” (Roberto De Mattei – Il Foglio, 8.6.2010). Manuele II Paleologo ne rimarrebbe imbarazzato: non è dunque solo l’islam a volersi imporre con la spada? E come si tengono buone queste feroci pecorelle? Come si può convincerle che i musulmani sono “fratelli”?
Ne scriverò ancora, diciamo che questa era solo l’esposizione del tema. Ma fin d’ora pare chiaro che molti ratzingeriani si sono dichiarati tali troppo in fretta, senza aver chiaro chi sia davvero Joseph Ratzinger. Ne vedremo delle belle: o Benedetto XVI dovrà tradire Joseph Ratzinger (come in parte ha già fatto) o dovrà tradire l’immagine che Joseph Ratzinger aveva dato di sé per vendemmiare fra i riformisti e i tradizionalisti (e anche questo in parte è già stato fatto).
Un’altra considerazione, prima di chiudere. Ancora non è noto il testo integrale dell’Instrumentun laboris per la Chiesa in Medioriente (qualche stralcio a Radio Vaticana, solo frustoli), ma potrà essere utile leggere quello la Chiesa in Africa dell’anno scorso, al punto in cui si fa cenno ai rapporti interconfessionali (102). Metto in evidenza i tratti salienti: “In certi luoghi, la convivenza con i nostri fratelli musulmani è sana e buona; in altri, invece, la diffidenza da entrambi i lati impedisce un dialogo sereno”. Qui è interessante notare che ultimamente la Chiesa di Roma tende a prendere le distanze da quel cristianesimo fondamentalista col quale aveva civettato negli scorsi anni, quasi a sottolineare che diffidenze cattoliche verso i musulmani non ci sono mai state, eventualmente erano soltanto di folli evangelici nel fondo più rurale di una certa America. “La tendenza a politicizzare le appartenenze religiose è del resto un pericolo comparso laddove si era iniziato il dialogo”, ma questo non vale pure per i lepantisti di casa nostra?
Ci divertiremo, ci divertiremo un sacco a constatare che le contraddizioni in Dio sono assai al di sotto dell’umano di quando rimangono nell’uomo.
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