lunedì 28 giugno 2010

Collezione primavera-estate 2010

“Il mistero della pera è stato svelato, non c’è più mistero, non c’è mai stato mistero”
Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi 2010 - pag. 262

“L’Italia non ha mai conosciuto la rivoluzione liberale e non la vuole. Tutti vogliono più Stato, più protezioni, più sussidi, più incentivi, e perciò più tasse. La classe politica, imprenditoriale e culturale italiana mostra […] che l’Italia è un Paese naturalmente di sinistra, non di destra, anche quando vuol essere governata dalla destra. Fra libertà e uguaglianza, fra autonomia individuale e giustizia sociale, sceglie sempre la seconda. Compreso il mondo cattolico […] È l’Italia di sempre, che andrà avanti come sempre, inutile piangerci su” (La Stampa, 27.6.2010).
D’istinto verrebbe da sottoscrivere la mesta riflessione di questo sedicente liberale che è il Marcello Pera della collezione primavera-estate 2010. Sedicente, ma qui mimeticamente ben riuscito, almeno ad una prima occhiata. In più, c’è quel “compreso il mondo cattolico” che dà alla mimesi liberale un drop perfetto, facendo ritenere superati i gravi infortuni estetici delle passate collezioni: quella autunno-inverno del 2004 (Senza radici) e quella autunno-inverno del 2008 (Perché dobbiamo dirci cristiani). Lì sfilarono modelli che accostavano il liberalismo al cattolicesimo con grande disinvoltura, oggi il Pera dice che l’accostamento stride. Non c’è relativismo peggiore di quello che impera nel mondo della moda.

Verrebbe da sottoscrivere, mettendoci un “bentornato, Marcello”. E però c’è un buco nella mimesi: l’antitesi posta tra autonomia individuale e giustizia sociale. Bene, c’è una giustizia sociale che non è antitetica all’autonomia individuale, un liberale lo dovrebbe sapere ed evitare di usare una categoria come “sinistra” per intendere “illiberale”, per spacciarci la sua brutta mimesi “liberale” come cosa di “destra”. La giustizia sociale di un liberale decente rigetta l’egalitarismo ma anche la rendita parassitaria dei privilegi che la destra allega ai tradizionali detentori di “valori non negoziabili”. La giustizia sociale di un liberale non esita a radere al suolo gli istituti delle tradizionali prepotenze di individuo su individuo.
Insomma, “bentornato” un cazzo. Rattoppiamo quel buco, ne riparliamo alla prossima sfilata.


«We’re less inhibited»


“«We’re less inhibited, not as cautious about talking about it as in the past» said Sandro Magister, a veteran Vatican journalist in Italy. «There’s been a kind of contagion from other countries» where it was openly discussed, he added” (The New York Times, 26.6.2010).
Era inibito, poverino. Aspettava di essere contagiato.

Io ho un’altra tesi, l’ho già esposta in forma di obiezione a quella di un altro vaticanista italiano, l’ennesimo inibito (“Il giornalista in Vaticano non deve mai venire meno alla legge dell’ospitalità: può scrivere la verità con garbo, usando l’espediente di far intendere invece che dire”).
Scrivevo: “Vale solo per i vaticanisti italiani, perché all’estero non è difficile trovarne di quelli che si pigliano la libertà di trattare il Vaticano come un sinologo può pigliarsi la libertà di trattare la Cina. Cagare nella Sala del Trono della Città Proibita, quello no, ma a un sinologo è lecito scrivere che in Cina c’è una schifosissima dittatura? Se è un sinologo cinese, la cosa non conviene. Bene, direi che i vaticanisti italiani sono sempre stati ospiti così garbati da diventare prima o poi tutti di casa, e della casa hanno pigliato le abitudini, perfino l’aspetto che hanno i servi dei padroni di casa, però dei servi di livello superiore, gente dalle unghie ben curate e dai polpastrelli mollicci. Come dire: sinologi cinesissimi, assai garbati verso la schifosisima dittatura cinese. A me – al lettore – non è che nascondano la verità, questo no, ma me la rifilano con un espediente, talvolta l’eufemismo, talvolta la reticenza, talvolta l’attenuazione, talvolta la metonimia... Se colgo l’allusione nella figura retorica, entro in vibrazione sincrona col vaticanista e allora riesco a coglierne il messaggio, forse. Sennò vuol dire che son zotico, la verità mi sfuggirà e di un vaticanista del genere mi farò l’idea sbagliata, quella di un ipocrita qualunque, cui conviene esserlo” (I vaticanisti vaticani - Malvino, 9.4.2009).
Che poi è l’idea che m’ero fatto di Sandro Magister.

Supplica



Quando avrai messo le mani su costui, o plebe di Piazzale Loreto, sii clemente: era disarmato già in partenza.

Bingo!


Giuliano Ferrara firma un pezzullo loffio e piagnone sulla vicenda di Malines (Il Foglio, 28.6.2010), nel quale in sostanza lamenta “una vasta crociata «antipedofila» contro il clero cattolico” condotta col “metodo di una giustizia fanatizzata, di un ordito politico con pretese di giacobinismo intollerante”, di cui sarebbe prova il fatto che la Chiesa è chiamata a rispondere del suo clero in una fattispecie di “concorso esterno in reato di pedofilia”, in dispregio del principio della “responsabilità personale nel crimine”. Pare che gli sfugga che la responsabilità penale è personale anche per chi commette il reato di favoreggiamento e che la Chiesa non è chiamata in toto a rispondere degli abusi sessuali su minori commessi dai suoi preti, ma di complicità fatta sistema in un ordinamento interno che imponeva l’omertà ai suoi membri, nel mentre consentiva che i preti pedofili continuassero a commettere abusi sessuali su minori, di diocesi in diocesi. O forse non gli sfugge, ma cerca solo di imbrogliare le carte, come al solito. E tuttavia il pezzullo ha un rimprovero anche per la Chiesa: non ha fatto muro, s’è sbracata, non ha dato ascolto a Giuliano Ferrara, che consigliava “resistenza”. Il Papa è consigliato male, ma non si azzarda a dirlo esplicitamente.
Ci pensa il vaticanista de Il Foglio, che sul suo blog scrive: “In Belgio la Chiesa cattolica subisce affronti che denotano quanto la linea della trasparenza totale rispetto alla pedofilia nel clero più volte evocata dai collaboratori del Papa sia altamente problematica”. E così comprendiamo che la “resistenza” era da intendersi come rifiuto della “trasparenza totale”: la “trasparenza totale” si rivela “problematica”, come ogni volta in cui è conveniente coprire qualcosa. Bingo!

domenica 27 giugno 2010

Aksak Maboul



[...]


Gentile lettore, ti sei risparmiato quattro recensioni (Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005; Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse, Einaudi 2009; Paul Verhoeven, L’uomo Gesù, Marsilio 2010; Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocattoli, Einaudi 2010): 32.000 battute che la pen drive rifiuta di restituirmi e che io mi rifiuto di riscrivere. Però ti consiglio il Verhoeven e, soprattutto, il Bartezzaghi. Soprattutto il Bartezzaghi. 

Alla faccia dell’equipollenza


Francesco D’Agostino scrive: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva»…”. Non sbuffate, siate carini: sta riscaldando la solita minestrina, è vero, però adesso metterà quel tanto di piccante da renderla mangiabile: una correlazione farlocca.
E dunque: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva» e, per soprammercato, ce n’è una «pessima». Qualcosa del genere capita anche per un altro termine di estrema complessità e cioè «religione». C’è una religione «buona» […] c’è una religione «cattiva» […] e c’è (purtroppo) una religione «pessima»”.

Di qualsiasi cosa possiamo dire, se vogliamo, essercene una buona, una cattiva e una pessima: provate, funziona con tutto. Ma di là da questa comune (comunissima) qualità, laicità e religione sono equipollenti? Solo se rendiamo equipollente ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di laicità a ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di religione, e così con «cattivo» e per «pessimo». Ora, la correlazione suggeritaci dal D’Agostino dà per scontato che “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” (il buono che starebbe nella «buona» laicità) si possa definire equipollente alla “percezione che in tutti gli uomini c’è un autentico anelito all’infinito” (il buono che starebbe nella «buona» religione). Ma questo è corretto?

C’è equivalenza di valore tra un principio includente come “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” e quello escludente di chi dà per assodato che l’“anelito all’infinito” dimostri il trascendente? Sì, perché il D’Agostino dice che il «buono» che sta nella laicità dà due sole opzioni: “un Dio personale” o “un divino impersonale”. Né l’uno né l’altro? Vi fottete: senza una qualche divinità non siete «buoni» laici, tutt’al più dei laicacci o, “per soprammercato”, dei laici di merda.
Idem con la «cattiva» religione e la «cattiva» laicità, dove l’equipollenza è posta tra ciò che “guarda con disprezzo le confessioni di fede diverse dalla propria” e ciò che porta a “ritenere che tutte le religioni siano forme premoderne, infantili, mitologiche o comunque immature di pensiero”. Ma c’è equivalenza di valore tra il ritenere che tutte le religioni siano “forme immature di pensiero” e il ritenere che lo siano tutte tranne una (la propria)? Solo dando per assodato che il disprezzo per tutte le “forme immature di pensiero” abbia qualcosa in comune al disprezzo per “le confessioni di fede diverse dalla propria”.

Ma è così? Non avevamo detto che un laico è già «cattivo» se nega il trascendente? Stiamo mica cercando di deformare le accezioni di laicità e di religione per adattarle a forza a ciò che per assodato diamo per «buono» e «cattivo» per l’una e per l’altra? Possibile che il D’Agostino ricorra a trucchetti del genere? Vediamo con la «pessima» religione e la «pessima» laicità.
La prima “ritiene che i credenti in altre religioni vadano perseguitati, convertiti coercitivamente o addirittura sterminati”, la seconda “ritiene doveroso perseguitare ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa”. Ce n’è di che considerare il cristianesimo una «pessima» religione fino a qualche secolo fa e la Dominus Iesus, che a giorni fa dieci anni, non troppo «buona», quasi «cattiva»: possibile che il D’Agostino voglia osare tanto?
Di più: c’è di che considerare «pessima» solo la laicità di quanti hanno perseguitato ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa (ce ne sono più?), ma già «cattiva» la laicità di chi nega il trascendente (e non sono pochi).

In definitiva, basta poco a un cristiano per essere «buono»: basta che rinneghi una dozzina di secoli. A un laico, invece, un po’ troppo: ammettere una dimensione trascendente, antecedente e superiore all’“arbitrio di chi detenga occasionalmente il potere (chiunque esso sia, un soggetto individuale o un soggetto collettivo, come nelle democrazie moderne)”. Il laico «buono», insomma, è quello che nega anche alla democrazia il diritto di toccare i cosiddetti “valori non negoziabili”, fra i quali occorrerà rammentare l’indissolubilità del matrimonio e l’indisponibilità del proprio corpo, a mo’ d’esempio.
Basta che un cattolico rinunci a sgozzare protestanti e a definire “perfidi” gli ebrei, e già è un «buon» cattolico. Per essere un «buon» laico ci vuole molto di più: praticamente pensarla come un cattolico su tutto ciò che un cattolico ritiene essere “bene comune di tutti”. Alla faccia dell’equipollenza.


Postilla
Avevo in mente un post di tutt’altro genere: “La lettura di Francesco D’Agostino [e qui ci avrei piazzato il link] mi eleva, nel senso che mi fa due palle enormi”. Stop. Però mi sembrava troppo ellittico, così mi sono dilungato. Chiedo scusa ai patiti della brevitas.

[...]

256 passanti

Robe che invocano la vendetta di Dio



La foto ritrae un vescovo all’uscita dall’arcivescovato di Malines nel quale è stato trattenuto per 0,001027397260 anni (9 ore) subendo un trattamento peggiore di quello che era riservato ai vescovi nei regimi comunisti, come dimostrano gli occhiali rotti, i vestiti laceri, le vaste ecchimosi e l’espressione stravolta.


“Il fascino del calcio”


Ciò che per Joseph Ratzinger (*) spiegherebbe “il fascino del calcio” vale per ogni gioco di squadra, anche assai meno popolare e, dunque, non spiega niente. Anche il curling “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere, con l’allenamento, la padronanza di sé”, anche nel curling “il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto”, anche col curling “la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione”, e tuttavia il calcio ha una platea che il curling non ha mai avuto.
Pagina infelice, riflessione superficiale, però di un qualche interesse se si tiene conto che è del 1985, l’anno del famigerato Sinodo straordinario dei vescovi, dal quale sarebbero venute le linee tattiche della reconquista cattolica. Se leggiamo ciò che Joseph Ratzinger scrive sul calcio come una meditazione su ciò che ha da essere valorizzato in una impresa che miri ad affascinare grandi masse, la pagina si fa più felice, la riflessione diventa meno superficiale e il calcio si rivela strumento di metafora: “Riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina...”. Affascinante.

(*) Joseph Ratzinger, Cercate le cose di lassù, Edizioni Paoline 1986 – riproposto da Avvenire, venerdì 25 giugno, col titolo Il campo insegni la disciplina.

Ghana



Uno ci rimette la faccia, ma ci vuol niente a rifarsela



“Uno passa buona parte della sua età adulta a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico, che il Cavaliere ha successo perché ha un messaggio e non soltanto un mezzo (televisivo), che vince le elezioni perché incarna un’idea e una speranza e non perché l'Italia è fatta di una maggioranza di corrotti e di evasori che si identifica con lui. Uno passa gli anni a dire che il berlusconismo va compreso e non demonizzato, che perfino nelle sue menzogne c’è del vero. Che, certo, lui si fa le leggi per salvarsi dai processi, ma anche i processi che gli fanno non sono proprio tutti a prova di bomba. Che, di sicuro, non si può permettere di insultare la magistratura e di contestare l’autonomia costituzionale del potere giudiziario, ma che a vedere come si comportano certi magistrati e come talvolta usano la loro indipendenza si capisce che la Giustizia italiana ha comunque urgente bisogno di una radicale riforma. Uno ci mette la faccia e ci rimette anche qualche rapporto di amicizia per spiegare che perfino l’immunità pro-tempore per il capo del governo non è in sé una bestemmia, che anzi in alcuni paesi è prevista, e che comunque esiste la necessità di proteggere l’esercizio del mandato popolare. Poi Berlusconi, con il favore delle tenebre, senza dire niente a nessuno, nomina l’amico, sodale e imputato Aldo Brancher ministro del nulla, e Aldo Brancher attua immediatamente - invece del federalismo - il legittimo impedimento per evitare il suo processo. E ti chiedi dove hai sbagliato”.

Così, su il Riformista di venerdì 25 giugno, il suo ineffabile direttore. Il quale, con la rinuncia di Brancher a usare il legittimo impedimento, potrà tirare un sospiro di sollievo e pensare che non ha sbagliato niente. Potrà perfino pensare di rifarsi la faccia persa.

sabato 26 giugno 2010

La metafisica


Con l’ordinanza di sequestro degli archivi dell’arcidiocesi di Malines, contenenti dati cui la Chiesa non intendeva dare accesso alla magistratura inquirente facendo vera e propria resistenza fisica, in Europa si risveglia un bisogno di metafisica, ma di quella sana.

O Vaticano de Bento XVI


In 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 spezzoni (ciascuno di circa 5 minuti) è reperibile su Youtube un documentario di produzione portoghese dal titolo O Vaticano de Bento XVI, che merita attenzione. Il commento è in portoghese, naturalmente, e si sovrappone all’audio sorgivo delle riprese, che è in lingua inglese, tedesca e perfino latina, mentre le scritte in sovraimpressione sono in spagnolo, ma se adottate l’interfaccia giusta – vedete voi un po’ quale – ve la cavate.
Riprese interessantissime, ravvicinate, che s’offrono allo studio di ogni singola espressione, di ogni occhiata, di ogni accento, e tono, e posa degli eminentissimi: soprattutto del cardinale Joseph Ratzinger, lì eternato sul finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ma anche del cardinale Edmund Skoza, numero uno dell’Operazione Giubileo e a quei tempi Governatore della Città del Vaticano. Di questi è interessante la lezioncina giuridica in 5 (0:54-2:07), di Ratzinger è interessante il passaggio in cui spiega come sente il suo passaporto diplomatico, in 4 (2:42-3:22).
È tutta roba che può tornare utile nel dare al caso Sepe la corretta misura, che – ripeto – non è giudiziaria, ma politica: la politica dei rapporti tra Santa Sede e Repubblica italiana. Punta di rilievo del documentario, in questo senso, sta in un futuro Benedetto XVI che avrà tra le mani il caso Sepe e che dice: “Direi che lo Stato del Vaticano e l’amministrazione che qui si svolge non è molto differente, né più misteriosa, di quella di una grande impresa o di una organizzazione politica”. Bene, tutt’è che a dare conto della bestia sia chi ne è indiscutibile padrone, così usa tra i laici.

[...]


Sull’origine extraterrestre degli Ufo non si discute, ma non si tratta di navicelle spaziali che arrivano da chissà quale luogo nella nostra galassia o addirittura da fuori: la Madonna ci ha rivelato, fin dal 1973, che si tratta di “mezzi di trasporto dell’inferno” e che “vengono da Satana”, “per far credere all’esistenza di altri esseri viventi sugli altri pianeti”.
Roberto mi segnala un post di pontifex.roma.it e, riprendendo una mia ipotesi, commenta: “Se non è un fake, è da trattamento sanitario obbligatorio”. Sì, ma in entrambi i casi, sul piano teologico, la rivelazione fattaci dalla Madonna riguardo agli Ufo sarebbe meno compromettente delle dichiarazioni fatte da padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, non molto tempo fa: “La possibilità che esistano altri mondi e altre forme di vita non contrasta con la nostra fede” (L’Osservatore Romano, 13.5.2008), mai dichiarata errata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Materia bollentissima, Malvino 16.5.2008).
Pazzi, quelli di pontifex.roma.it, e però in quella pazzia c’è un metodo. Se si tratta di pazzerelloni, invece, bisogna riconoscer loro una solidissima preparazione su quanto è oggetto delle loro parodie.

venerdì 25 giugno 2010

Era meglio che non lo spiegavi e lo lasciavi nel vago


“Luciano Canfora ha riferito di aver letto con «una certa impressione» […] una lettera del 24 febbraio 1934, in cui Guido Gonella, «collaboratore de L’Osservatore Romano» negli anni del fascismo […] richiede all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede la tessera d’iscrizione al Partito nazionale fascista” (L’Osservatore Romano, 25.6.2010), e si capisce che con «una certa impressione» ci avrà messo pure un poco di ironia, forse. Ma L’Osservatore Romano dà notizia di un documento che spiega tutto: si rimangi l’ironia, se c’era: “È una lettera ufficiale della Regia Università degli Studi di Roma che [comunica] al giovane […] l’assegnazione di un sussidio di lire duemila”.
Un venduto, si direbbe? Ma no: “Nel 1931 in Italia era stata fondata l’Associazione fascista della scuola, diretta emanazione del Pnf […] e per i docenti universitari c’era l’obbligo del giuramento di fedeltà. Nel 1933 poi fu stabilito l’obbligo della tessera del Pnf per accedere ai concorsi. Chiunque avesse prestato servizio all’università (salvo quanti beneficiassero di rendite personali o di beni al sole) era costretto a iscriversi”. Rammentando che ci fu chi non si piegò, il Gonella pare proprio un venduto: L’Osservatore Romano ci impedisce solo l’ironia.

L’inconsapevolezza


Giovanni Paolo II non voleva che sulla Humanae vitae di Paolo VI restassero quei dubbi che avevano portato perfino alti prelati e qualche teologo di peso a contestarne l’autorità, sicché ne ribadì con forza i contenuti nella sua Evangelium vitae. Lo fece con tanta forza – afferma il cardinale Carlo Maria Martini (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori 2008), citato da Paolo Rodari (Il Foglio, 25.6.2010) – che “pare avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”.
Ora è evidente che Sua Eminenza sia fra quanti ritengono che il Papa non parli necessariamente ex cathedra quando scrive un’enciclica. Non è mia intenzione entrare nel merito, andremmo troppo lontano da una questione che qui intendo circoscrivere a un solo punto: oltre al farci un pensierino, Giovanni Paolo II non l’ha fatto?
“Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore, è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale” (Evangelium vitae, 57). È azzardato leggervi un “qui sto parlando ex cathedra”?
Si dice che solo la materia dogmatica è quella data ex cathedra, ma allora come spiegare il riferimento che in chiusa alla suddetta formula rimanda ad una Costituzione dogmatica (Lumen gentium, 25)?
Ancora: cosa significa “ex cathedra” per quel Concilio Vaticano I che ha sancito il dogma dell’infallibilità papale? Significa: “Quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore [l’enciclica non è un momento pastorale?] e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale [l’aborto non vi attiene?] dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro [Giovanni Paolo II non la richiama?], [con] quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi” (Pastor aeternus, IV).
Giovanni Paolo II parlò ex cathedra, anche se Martini, forse inconsapevolmente, vuol darci a bere che vi abbia rinunciato, servendosi dell’inconsapevole Rodari.

Non è metter mano alla materia vivente?




“Mi accorgo che non so disegnare né dipingere”
Pierre-Auguste Renoir



I nostri occhi e il nostro cervello ormai si sono abituati al fenomeno che impropriamente è detto impressionismo, ma ci è ancora possibile fare uno sforzo di immaginazione per figurarci la vertigine dei sensi, la rivoluzionaria traveggola di una macchia che per la prima volta dava l’impressione di cosa artificialmente riprodotta, dinanzi ad una tela che ti ridà una rosa in 23 macchie. Con ardita noncuranza, rasente alla sfacciataggine, l’artista – questa fottuta scheggia impazzita della Tradizione che da poco si è liberata dalla commessa del Principe – non cura di dare vita autonoma alla riproduzione, ma costringe l’osservatore a finire il lavoro coi propri mezzi, di quelli fin lì mai usati.
Ci sono correnti pittoriche che hanno attivato aree cerebrali latenti e, anche se la crescita della capacità di vedere è poco celebrata rispetto alle altre acquisizioni della modernità, c’è una bella fetta di cervello che dobbiamo all’esercizio forzato di vertigine e traveggole cui ci hanno sottoposto i maestri dell’arte degenerata. La loro rosa veniva a rappresentarsi tale seguendo altra via, altro circuito, anche altra biochimica, chissà. La rappresentazione s’è decostruita e ricostruita in altro modo, alternativo ma parallelo, acquisito per diventare connaturato.

Non è metter mano alla materia vivente? Non è il tentativo di snaturare la Creazione? E tuttavia si censurano le velleità della scienza ai danni della cosiddetta Natura, mentre nessuno più lamenta la corruzione del processo di rappresentazione: continuano a imporci mordacchia e cintura di castità, ma continuano a dimenticare il paraocchi. E non capiscono che si può tradire la Tradizione e la cosiddetta Natura anche soltanto con un altro modo di guardare.
Né un Prometeo, né un Faust, ma a sovvertire l’ordine ci pensa il figlio del sarto, quello che ti ridà una rosa in 23 macchie.


giovedì 24 giugno 2010

E vinceremo



[...]


È strano che chi qui da noi sostiene il primato della politica anche a discapito dell’autonomia della magistratura, come nel caso in cui si vuole che l’eletto sia ingiudicabile, spezzi una lancia in favore di McChrystal, contro Obama: alle forze armate non si può accordare alcuna autonomia, e qui abbiamo un militare che si permette di contestare ordini che sarebbe tenuto solo ad eseguire. Assai più scandaloso del veto di una Procura su una legge in discussione in Parlamento su proposta del Governo. E tuttavia, giacché imbarazza fortemente Obama, McChrystal è una specie di eroe per i neocon de noantri, sempre più tragicamente fuori tempo massimo, ancora a spararsi pippe sulla Palin. Certo, dà un brivido di piacere vedere che Obama rimuove in quattro e quattr’otto il mero dipendente statale macchiatosi del crimine di lesa maestà, ma è che Obama non incarna la maestà dell’eletto del popolo quando il popolo elegge un repubblicano, e il brivido è moscio. Sì, c’è stato un grave vulnus al primato della politica, ma non l’ha inflitto la magistratura, e non a Berlusconi. Si aggiunga il fascino che la divisa esercita su chi ama l’uomo forte. Si aggiunga il fatto che Obama non somiglia troppo a Bush. Sicché “McChrystal è rock e Obama è lento”.