martedì 29 giugno 2010

Mi arrendo e però


Pure Avvenire – perfino Avvenire – ritiene che quei “possibili errori di valutazione” siano la cosa notevole del comunicato che la Sala Stampa Vaticana ha diffuso riguardo alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli: mi arrendo, dev’essere così. Ma se presuntivi e consuntivi di Propaganda Fide erano correntemente approvati dalla Segreteria di Stato, se i “possibili errori di valutazione” di Sepe erano correntemente autorizzati da Sodano, vogliamo informarne la Procura di Perugia?

Vergogna, maniaci!


Tutti a star lì in attesa dell’uscita della Gazzetta Ufficiale per fottere Brancher sul tempo e sapere prima di lui che deleghe ha.

Una rotonda sul mare / 2



Domanda retorica per domanda retorica


Cominciamo col dire che Andrew Ronan – il prete pedofilo che ha potuto commettere abusi sessuali su minori in Irlanda, in Illinois e in Oregon grazie alla copertura offertagli dalla Chiesa che invece di denunciarlo alla giustizia civile si è limitata ogni volta a offrirgli nuove vittime in un’altra diocesi – cominciamo col dire, dicevo, che Andrew Ronan non è morto nel 1982, come riporta Il Foglio nel suo patetico editorialino di martedì 29 giugno (Prego, processate la Chiesa), ma nel 1992. In sé l’errore non sarebbe affatto grave, se non fosse che, facendolo morire nel 1982, Il Foglio può confezionare questo gioiellino: “Il prete è morto nel 1982, un anno prima che l’avvocato Anderson cominciasse la sua brillante carriera”, giacché è “a partire dal 1983 [che l’avvocato delle vittime di Andrew Ronan] ha costituito una formidabile macchina legale capace di agire in giudizio, con successi multimilionari nei risarcimenti, in danno della Chiesa di Roma”. Sembra niente, ma con questo piccolo trucchetto la battaglia legale di Anderson puzza almeno un poco di persecuzione a scopo di estorsione.
Armato della sua “formidabile macchina legale” (il lessico ci invita a immaginarcela arma micidiale puntata su uomini miti e inermi), l’avvocato già è il pezzo di merda che Il Foglio vuol farci credere: ci resta solo da decidere se a muovere in lui l’ossesso sia odio anticristiano o mera avidità.
In realtà, l’ossesso è mosso da altro: un ex prete cattolico abusò di una sua figlia, quando questa aveva 8 anni. Ma su questo Il Foglio tace, sarà per la sua rinomata delicatezza e discrezione nei confronti delle vittime degli abusi sessuali commessi da preti, quand’anche ex.

“I nove giudici della Corte suprema di Washington – piagnucola l’editorialino – hanno deciso di non esaminare il ricorso vaticano contro la pretesa di processare la chiesa per la «copertura» di casi di abuso carnale su minori”. E avranno avuto le loro ragioni, via, Il Foglio se ne faccia una.
“È possibile considerare la gestione dei trasferimenti di un prete, il governo paterno della sua anima, la dialettica di perdono e giustizia tra legge canonica e autorità civile, come un fastidio di cui sbarazzarsi?”. Macché, tutto il contrario: si tratta di lasciar giudicare a chi di dovere se questa “dialettica” non abbia generato un sistema di omertosa complicità e di cinico favoreggiamento. Ai tempi in cui Andrew Ronan veniva spostato da una riserva di caccia ad un’altra, erano vigenti le disposizioni contenute nella Crimen sollicitationis: prendiamola, leggiamola e vediamo se per caso non fosse la Chiesa di Roma, attraverso il braccio della sua Congregazione per la Dottrina della Fede, a pianificare il sistema, a ordinare il silenzio (pena la scomunica).
“Lo stato può punire un prete che compie un delitto contro i minori, anzi deve, ma può anche mettere sotto processo la Chiesa di Roma come fosse una cupola che protegge il malaffare?”. Perché bisogna dare per scontato che non possa esserlo? E se si scopre esserlo, perché non dovrebbe renderne conto? Nessuna presunzione di colpevolezza, ma nessun privilegio di immunità: ai giudici decidere, come hanno già deciso, per esempio in Texas. Mica siamo in Italia, dove i giudici sono tutti comunisti senzadio.

Ma di tutte le domande retoriche che chiudono questo infelice pezzullo la più carina è l’ultima: “Come se la sua specifica moralità, la sua dottrina, la sua esperienza e la sua pastorale, confessione compresa, fossero a disposizione del braccio secolare della legge?”. Domanda retorica per domanda retorica: se producono crimine, perché no?

Stando al testo


La nota sulla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli diffusa ieri dalla Sala Stampa Vaticana viene letta un po’ da tutti come pressoché esplicita ammissione della Santa Sede che la gestione del cardinale Crescenzio Sepe non sarebbe stata in tutto accorta. Non è in discussione se lo sia stata o no, ma se nel testo vi sia questa ammissione. E io non ce la trovo.
Il passaggio che la conterrebbe sarebbe il seguente: “La Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli ricava le sue risorse principalmente dalla colletta della Giornata missionaria mondiale, interamente distribuita tramite le Pontificie Opere Missionarie nazionali, e, in secondo luogo, dai redditi del proprio patrimonio finanziario ed immobiliare. Il patrimonio si è formato nel corso dei decenni grazie a numerose donazioni di benefattori di ogni ceto, che hanno inteso lasciare parte dei loro beni a servizio della causa dell’evangelizzazione. La valorizzazione di tale patrimonio è naturalmente un compito impegnativo e complesso, che si deve avvalere della consulenza di persone esperte sotto diversi profili professionali e che, come tutte le operazioni finanziarie, può essere esposto anche ad errori di valutazione e alle fluttuazioni del mercato internazionale. Cionondimeno, a testimonianza dello sforzo per una corretta gestione amministrativa e della crescente generosità dei cattolici, tale patrimonio ha continuato ad incrementarsi”.
“Può essere esposto… cionondimeno…”: fin qui, stando al testo, la possibilità di errori non si sarebbe realizzata e se ne dà il merito a una “corretta gestione amministrativa”, la stessa che fu formalmente riconosciuta al cardinale Sepe al termine del suo mandato.
E dunque dove si leggerebbe l’ammissione che Sua Eminenza abbia commesso errori?

“La competenza spetta unicamente al Papa”


Una nota della Sala Stampa Vaticana rammenta che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”. L’occasione è data dal cazziatone pontificio a Schönborn (udienza del 28.6.2010), colpevole di aver mosso a Sodano, e pubblicamente (kathpress.co.at, 4.5.2010), l’accusa di aver coperto i crimini di alcuni preti pedofili austriaci, nel 1995, quando questi era Segretario di Stato, e di aver arrecato offesa alle vittime, lo scorso 4 aprile (messaggio d’augurio pasquale al papa), definendo “chiacchiericcio” la loro richiesta di giustizia.
Ai sensi del combinato disposto dei cann. 76, 113, 273, 275 (§ 1), 331, 333 (§ 2), 334, 336, 349, 352 (§ 1) del Codice di Diritto Canonico, il cazziatone ci stava tutto. Al limite, volendo proprio esagerare, ci stava pure qualcosina in più (can. 1389). Tenuto conto, poi, che a usare il termine “chiacchiericcio” era stato in precedenza lo stesso Benedetto XVI (omelia del 28.3.2010), diciamo che Schönborn se l’è andata proprio a cercare.
Alla fin fine, però, tutto questo è secondario: resta il principio che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa. Chissà se sarà richiamato una di queste volte che, a muovere le solite micidiali accuse di apostasia al cardinale Carlo Maria Martini e al cardinale Dionigi Tettamanzi, torni il vescovuzzo dell’ultima delle diocesi del Veneto, il solito pretonzolo di Comunione e liberazione o addirittura un comune baciapile laico. Che peraltro non si sono astenuti dall’accusare Schönborn di alto tradimento, fuor d’ogni loro competenza.

   

lunedì 28 giugno 2010

Il Vaticano può essere considerato civilmente responsabile delle azioni dei preti pedofili (al momento in Oregon)





Una rotonda sul mare / 1




’A Maronna c’accumpagna!


Oggi la Sala Stampa Vaticana ha diffuso una nota ufficiale “a tutela della buona fama della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli [già Congregatio de Propaganda Fide] sporcata dagli affari di quando era suo prefetto il cardinale Crescenzio Sepe”, così Sandro Magister nell’introdurla.
Ora c’è da dire che la nota non fa alcun cenno critico alle passata gestione del cardinale Sepe, avendo a modello l’impianto del Profilo che il sito della Santa Sede dà alla Congregazione. Non è da escludere che, a tutela della sua immagine, la Sala Stampa Vaticana abbia voluto ribadirne i fini (“guidare e sostenere le giovani Chiese situate in territori di recente o scarsa evangelizzazione [...] coordina[re] la presenza e l’azione dei missionari nel mondo [...] sottopo[rre] al Santo Padre i candidati all’Episcopato [...] [curare] la formazione del clero locale, dei catechisti, degli operatori pastorali”), proprio per evitare che sia considerata come mera cassaforte di una discreta porzione dei beni immobiliari di proprietà ecclesiastica, come potrà erroneamente essere sembrato a chi è poco addentro alle cose vaticane, già impenetrabili per conto loro. Sì, vabbe’, ma “sporcata dagli affari di quando era suo prefetto il cardinale Crescenzio Sepe” – come si permette, il Magister?

Solo indagato, nemmeno rinviato a giudizio, men che meno condannato – come si permette, il Magister, di dare per assodato che Sua Eminenza trattasse affari sporchi? Ha sentito o non ha sentito, il Magister, quello che il cardinale Sepe ha detto lo scorso 21 giugno in conferenza stampa? “Tutto ho fatto, comunque, nella massima trasparenza, avendo i bilanci puntualmente approvati: ogni anno il preventivo e il consuntivo venivano inviati alla Prefettura per gli affari economici e alla Segreteria di Stato, che li hanno puntualmente approvati. Anzi, la stessa Segreteria di Stato in una delle ultime lettere inviatemi, a conclusione del mio mandato di Prefetto, volle esprimere apprezzameno e stima per la mia gestione amministrativa”. E chi l’ha smentito? Non la Segreteria di Stato, non la Prefettura per gli affari economici.
E allora come si permette, il Magister, in disprezzo della presunzione di innocenza di chi qui non è neanche imputato, di parlare di affari sporchi?

[Il presente post è stato copia-incollato e inviato come messaggio a Sua Eminenza (sono suo “amico” su Facebook) con la sola aggiunta in chiusa del presente invito: “Eminenza, difenda la sua reputazione dalle offese di questo irresponsabile calunniatore: lo quereli. ’A Maronna c’accumpagna!”]

Collezione primavera-estate 2010

“Il mistero della pera è stato svelato, non c’è più mistero, non c’è mai stato mistero”
Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi 2010 - pag. 262

“L’Italia non ha mai conosciuto la rivoluzione liberale e non la vuole. Tutti vogliono più Stato, più protezioni, più sussidi, più incentivi, e perciò più tasse. La classe politica, imprenditoriale e culturale italiana mostra […] che l’Italia è un Paese naturalmente di sinistra, non di destra, anche quando vuol essere governata dalla destra. Fra libertà e uguaglianza, fra autonomia individuale e giustizia sociale, sceglie sempre la seconda. Compreso il mondo cattolico […] È l’Italia di sempre, che andrà avanti come sempre, inutile piangerci su” (La Stampa, 27.6.2010).
D’istinto verrebbe da sottoscrivere la mesta riflessione di questo sedicente liberale che è il Marcello Pera della collezione primavera-estate 2010. Sedicente, ma qui mimeticamente ben riuscito, almeno ad una prima occhiata. In più, c’è quel “compreso il mondo cattolico” che dà alla mimesi liberale un drop perfetto, facendo ritenere superati i gravi infortuni estetici delle passate collezioni: quella autunno-inverno del 2004 (Senza radici) e quella autunno-inverno del 2008 (Perché dobbiamo dirci cristiani). Lì sfilarono modelli che accostavano il liberalismo al cattolicesimo con grande disinvoltura, oggi il Pera dice che l’accostamento stride. Non c’è relativismo peggiore di quello che impera nel mondo della moda.

Verrebbe da sottoscrivere, mettendoci un “bentornato, Marcello”. E però c’è un buco nella mimesi: l’antitesi posta tra autonomia individuale e giustizia sociale. Bene, c’è una giustizia sociale che non è antitetica all’autonomia individuale, un liberale lo dovrebbe sapere ed evitare di usare una categoria come “sinistra” per intendere “illiberale”, per spacciarci la sua brutta mimesi “liberale” come cosa di “destra”. La giustizia sociale di un liberale decente rigetta l’egalitarismo ma anche la rendita parassitaria dei privilegi che la destra allega ai tradizionali detentori di “valori non negoziabili”. La giustizia sociale di un liberale non esita a radere al suolo gli istituti delle tradizionali prepotenze di individuo su individuo.
Insomma, “bentornato” un cazzo. Rattoppiamo quel buco, ne riparliamo alla prossima sfilata.


«We’re less inhibited»


“«We’re less inhibited, not as cautious about talking about it as in the past» said Sandro Magister, a veteran Vatican journalist in Italy. «There’s been a kind of contagion from other countries» where it was openly discussed, he added” (The New York Times, 26.6.2010).
Era inibito, poverino. Aspettava di essere contagiato.

Io ho un’altra tesi, l’ho già esposta in forma di obiezione a quella di un altro vaticanista italiano, l’ennesimo inibito (“Il giornalista in Vaticano non deve mai venire meno alla legge dell’ospitalità: può scrivere la verità con garbo, usando l’espediente di far intendere invece che dire”).
Scrivevo: “Vale solo per i vaticanisti italiani, perché all’estero non è difficile trovarne di quelli che si pigliano la libertà di trattare il Vaticano come un sinologo può pigliarsi la libertà di trattare la Cina. Cagare nella Sala del Trono della Città Proibita, quello no, ma a un sinologo è lecito scrivere che in Cina c’è una schifosissima dittatura? Se è un sinologo cinese, la cosa non conviene. Bene, direi che i vaticanisti italiani sono sempre stati ospiti così garbati da diventare prima o poi tutti di casa, e della casa hanno pigliato le abitudini, perfino l’aspetto che hanno i servi dei padroni di casa, però dei servi di livello superiore, gente dalle unghie ben curate e dai polpastrelli mollicci. Come dire: sinologi cinesissimi, assai garbati verso la schifosisima dittatura cinese. A me – al lettore – non è che nascondano la verità, questo no, ma me la rifilano con un espediente, talvolta l’eufemismo, talvolta la reticenza, talvolta l’attenuazione, talvolta la metonimia... Se colgo l’allusione nella figura retorica, entro in vibrazione sincrona col vaticanista e allora riesco a coglierne il messaggio, forse. Sennò vuol dire che son zotico, la verità mi sfuggirà e di un vaticanista del genere mi farò l’idea sbagliata, quella di un ipocrita qualunque, cui conviene esserlo” (I vaticanisti vaticani - Malvino, 9.4.2009).
Che poi è l’idea che m’ero fatto di Sandro Magister.

Supplica



Quando avrai messo le mani su costui, o plebe di Piazzale Loreto, sii clemente: era disarmato già in partenza.

Bingo!


Giuliano Ferrara firma un pezzullo loffio e piagnone sulla vicenda di Malines (Il Foglio, 28.6.2010), nel quale in sostanza lamenta “una vasta crociata «antipedofila» contro il clero cattolico” condotta col “metodo di una giustizia fanatizzata, di un ordito politico con pretese di giacobinismo intollerante”, di cui sarebbe prova il fatto che la Chiesa è chiamata a rispondere del suo clero in una fattispecie di “concorso esterno in reato di pedofilia”, in dispregio del principio della “responsabilità personale nel crimine”. Pare che gli sfugga che la responsabilità penale è personale anche per chi commette il reato di favoreggiamento e che la Chiesa non è chiamata in toto a rispondere degli abusi sessuali su minori commessi dai suoi preti, ma di complicità fatta sistema in un ordinamento interno che imponeva l’omertà ai suoi membri, nel mentre consentiva che i preti pedofili continuassero a commettere abusi sessuali su minori, di diocesi in diocesi. O forse non gli sfugge, ma cerca solo di imbrogliare le carte, come al solito. E tuttavia il pezzullo ha un rimprovero anche per la Chiesa: non ha fatto muro, s’è sbracata, non ha dato ascolto a Giuliano Ferrara, che consigliava “resistenza”. Il Papa è consigliato male, ma non si azzarda a dirlo esplicitamente.
Ci pensa il vaticanista de Il Foglio, che sul suo blog scrive: “In Belgio la Chiesa cattolica subisce affronti che denotano quanto la linea della trasparenza totale rispetto alla pedofilia nel clero più volte evocata dai collaboratori del Papa sia altamente problematica”. E così comprendiamo che la “resistenza” era da intendersi come rifiuto della “trasparenza totale”: la “trasparenza totale” si rivela “problematica”, come ogni volta in cui è conveniente coprire qualcosa. Bingo!

domenica 27 giugno 2010

Aksak Maboul



[...]


Gentile lettore, ti sei risparmiato quattro recensioni (Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005; Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse, Einaudi 2009; Paul Verhoeven, L’uomo Gesù, Marsilio 2010; Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocattoli, Einaudi 2010): 32.000 battute che la pen drive rifiuta di restituirmi e che io mi rifiuto di riscrivere. Però ti consiglio il Verhoeven e, soprattutto, il Bartezzaghi. Soprattutto il Bartezzaghi. 

Alla faccia dell’equipollenza


Francesco D’Agostino scrive: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva»…”. Non sbuffate, siate carini: sta riscaldando la solita minestrina, è vero, però adesso metterà quel tanto di piccante da renderla mangiabile: una correlazione farlocca.
E dunque: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva» e, per soprammercato, ce n’è una «pessima». Qualcosa del genere capita anche per un altro termine di estrema complessità e cioè «religione». C’è una religione «buona» […] c’è una religione «cattiva» […] e c’è (purtroppo) una religione «pessima»”.

Di qualsiasi cosa possiamo dire, se vogliamo, essercene una buona, una cattiva e una pessima: provate, funziona con tutto. Ma di là da questa comune (comunissima) qualità, laicità e religione sono equipollenti? Solo se rendiamo equipollente ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di laicità a ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di religione, e così con «cattivo» e per «pessimo». Ora, la correlazione suggeritaci dal D’Agostino dà per scontato che “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” (il buono che starebbe nella «buona» laicità) si possa definire equipollente alla “percezione che in tutti gli uomini c’è un autentico anelito all’infinito” (il buono che starebbe nella «buona» religione). Ma questo è corretto?

C’è equivalenza di valore tra un principio includente come “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” e quello escludente di chi dà per assodato che l’“anelito all’infinito” dimostri il trascendente? Sì, perché il D’Agostino dice che il «buono» che sta nella laicità dà due sole opzioni: “un Dio personale” o “un divino impersonale”. Né l’uno né l’altro? Vi fottete: senza una qualche divinità non siete «buoni» laici, tutt’al più dei laicacci o, “per soprammercato”, dei laici di merda.
Idem con la «cattiva» religione e la «cattiva» laicità, dove l’equipollenza è posta tra ciò che “guarda con disprezzo le confessioni di fede diverse dalla propria” e ciò che porta a “ritenere che tutte le religioni siano forme premoderne, infantili, mitologiche o comunque immature di pensiero”. Ma c’è equivalenza di valore tra il ritenere che tutte le religioni siano “forme immature di pensiero” e il ritenere che lo siano tutte tranne una (la propria)? Solo dando per assodato che il disprezzo per tutte le “forme immature di pensiero” abbia qualcosa in comune al disprezzo per “le confessioni di fede diverse dalla propria”.

Ma è così? Non avevamo detto che un laico è già «cattivo» se nega il trascendente? Stiamo mica cercando di deformare le accezioni di laicità e di religione per adattarle a forza a ciò che per assodato diamo per «buono» e «cattivo» per l’una e per l’altra? Possibile che il D’Agostino ricorra a trucchetti del genere? Vediamo con la «pessima» religione e la «pessima» laicità.
La prima “ritiene che i credenti in altre religioni vadano perseguitati, convertiti coercitivamente o addirittura sterminati”, la seconda “ritiene doveroso perseguitare ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa”. Ce n’è di che considerare il cristianesimo una «pessima» religione fino a qualche secolo fa e la Dominus Iesus, che a giorni fa dieci anni, non troppo «buona», quasi «cattiva»: possibile che il D’Agostino voglia osare tanto?
Di più: c’è di che considerare «pessima» solo la laicità di quanti hanno perseguitato ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa (ce ne sono più?), ma già «cattiva» la laicità di chi nega il trascendente (e non sono pochi).

In definitiva, basta poco a un cristiano per essere «buono»: basta che rinneghi una dozzina di secoli. A un laico, invece, un po’ troppo: ammettere una dimensione trascendente, antecedente e superiore all’“arbitrio di chi detenga occasionalmente il potere (chiunque esso sia, un soggetto individuale o un soggetto collettivo, come nelle democrazie moderne)”. Il laico «buono», insomma, è quello che nega anche alla democrazia il diritto di toccare i cosiddetti “valori non negoziabili”, fra i quali occorrerà rammentare l’indissolubilità del matrimonio e l’indisponibilità del proprio corpo, a mo’ d’esempio.
Basta che un cattolico rinunci a sgozzare protestanti e a definire “perfidi” gli ebrei, e già è un «buon» cattolico. Per essere un «buon» laico ci vuole molto di più: praticamente pensarla come un cattolico su tutto ciò che un cattolico ritiene essere “bene comune di tutti”. Alla faccia dell’equipollenza.


Postilla
Avevo in mente un post di tutt’altro genere: “La lettura di Francesco D’Agostino [e qui ci avrei piazzato il link] mi eleva, nel senso che mi fa due palle enormi”. Stop. Però mi sembrava troppo ellittico, così mi sono dilungato. Chiedo scusa ai patiti della brevitas.

[...]

256 passanti

Robe che invocano la vendetta di Dio



La foto ritrae un vescovo all’uscita dall’arcivescovato di Malines nel quale è stato trattenuto per 0,001027397260 anni (9 ore) subendo un trattamento peggiore di quello che era riservato ai vescovi nei regimi comunisti, come dimostrano gli occhiali rotti, i vestiti laceri, le vaste ecchimosi e l’espressione stravolta.


“Il fascino del calcio”


Ciò che per Joseph Ratzinger (*) spiegherebbe “il fascino del calcio” vale per ogni gioco di squadra, anche assai meno popolare e, dunque, non spiega niente. Anche il curling “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere, con l’allenamento, la padronanza di sé”, anche nel curling “il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto”, anche col curling “la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione”, e tuttavia il calcio ha una platea che il curling non ha mai avuto.
Pagina infelice, riflessione superficiale, però di un qualche interesse se si tiene conto che è del 1985, l’anno del famigerato Sinodo straordinario dei vescovi, dal quale sarebbero venute le linee tattiche della reconquista cattolica. Se leggiamo ciò che Joseph Ratzinger scrive sul calcio come una meditazione su ciò che ha da essere valorizzato in una impresa che miri ad affascinare grandi masse, la pagina si fa più felice, la riflessione diventa meno superficiale e il calcio si rivela strumento di metafora: “Riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina...”. Affascinante.

(*) Joseph Ratzinger, Cercate le cose di lassù, Edizioni Paoline 1986 – riproposto da Avvenire, venerdì 25 giugno, col titolo Il campo insegni la disciplina.

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