mercoledì 21 luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Cordialmente, come si dice


Andrea Tornielli mi fa:

Gentile Luigi Castaldi, lei ha ogni diritto di «schifarmi». Forse però, per completezza, dovrebbe riferire che lei cita non un mio articolo sul Giornale, ma un breve trafiletto sul blog, dove io riprendevo la notizia.
Sono ovviamente pronto a discutere con lei di Pio XII «seriamente», avendo scritto quattro libri sull’argomento, l’ultimo dei quali (Pio XII, Mondadori 2007, 680 pagine, tradotto in Francia e recensito positivamente da molti vaticanisti stranieri, quelli che lei non «schifa», tanto per intenderci) è basato su molti documenti inediti che mostrano quale fosse la percezione che Pacelli aveva di Hitler e soprattutto in quali date precise egli l’abbia messa per iscritto.
Ma sono certissimo che lei, ovviamente, sappia già tutto...


Rispondo:

Gentile Andrea Tornielli, lei non entra nel merito della questione da me sollevata nel post “E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani”, che le dà occasione di risentirsi. Non espone argomenti avversi alla lettura che ritengo corretta della frase tratta dai diari del cardinale Celso Costantini, di cui lì si discute. Non mi contesta l’affermazione che Sua Santità l’abbia usata, peraltro citandola con apposita modifica, in patente soccorso della non lusinghiera fama di cui gode Pio XII presso gli ebrei. Non mette lingua neppure su quanto io affermo in ordine al nocciolo della questione: cosa sia da intendersi per “Anticristo” in quella frase, e cosa sia intendersi per “religione” nella parte appositamente tagliata da Benedetto XVI. In realtà, lei non sfiora neppure la tesi di fondo da me sostenuta, ma per tre quarti della sua pur breve letterina mi rimanda a quella opposta, che neanche a farlo apposta è quella sostenuta da qualsiasi vaticanista italiano che abbia intenzione di poter continuare a scrivere su un giornale italiano e da qualsiasi storico italiano di cose vaticane che ci tenga a poter aver accesso agli archivi. Non mi stupisco che sia anche la sua: ho letto i suoi libri e li ho trovati adeguatamente appiattiti agli interessi della Santa Sede.
Oltre ad aprirmi a ventaglio la coda dei suoi libri, lei si limita a riprendermi perché non ho specificato che lei ha avallato l’ennesimo, piccolo, miserabile trucchetto di Sua Santità sul suo blog, non su il Giornale. Non ho capito cosa cambi: non è sempre lei ad averlo avallato?
Un vaticanista serio non dovrebbe spiegarci i trucchetti? Quello che Benedetto XVI ha fatto usando la frase del cardinal Costantini, gentile Andrea Tornielli, lei non ce l’ha spiegato: né sul suo blog, né su il Giornale. E giacché me ne dà ogni diritto, le rinnovo il mio sentito.
Cordialmente, come si dice.

lunedì 19 luglio 2010

Una rotonda sul mare / 11



Migliorare la tosse, Martini!


“Buon giorno. Questa è «Stampa & Regime», la rassegna stampa di Radio Radicale. I giornali sono quelli di lunedì 19 luglio. Paolo Martini in studio, il direttore Bordin torna domani…”.

Non male, davvero non male la rassegna stampa di Martini, che a un certo punto butta lì pure due colpetti di tosse. Tuttavia è una tosse senz’anima, senza carattere, meccanica, totalmente inespressiva.

Solo un nodoso randello


Il 12 aprile di quest’anno la Santa Sede ha reso pubblico un Regolamento (Guida alla comprensione dei procedimenti adottati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei casi di abuso sessuale su minori) che all’inizio non s’era capito bene se fosse stato scritto nel 2001 o nel 2003 (così poi ha chiarito la Santa Sede), ma che in chiusa citava un Benedetto XVI che non si sarebbe avuto prima del 2005 (se almeno confezionassero con più cura i loro falsi, ci sentiremmo meno offesi).
Questo Regolamento aveva lo scopo di guidare i vescovi nell’applicazione di quanto la De delictis gravioribus (2001) veniva a correggere della Crimen sollicitationis (1922, 1962) per le prerogative che in tale ambito Giovanni Paolo II riconosceva alla Congregazione per la Dottrina della Fede col motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (2001).
Semplificando, potremmo dire: fino al 2001 è in vigore la Crimen sollicitationis, dal 2001 in poi è in vigore la De delictis gravioribus, che viene dotata di una Guida nel 2003 o – più verosimilmente, per quanto detto – dopo il 2005; ma non basta, perché nel 2010 – siamo al 15 luglio scorso – vengono rese pubbliche delle Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis».

Penso sia ragionevole dedurne che fino al 2001 la Chiesa di Roma ha avuto le idee salde e chiare sul come trattare i casi di abusi sessuali su minori da parte del suo clero, perché trattarli com’erano stati trattati fin lì non aveva dato problemi; dal 2001 in poi, chiamata a rendere conto del fatto che avesse trattato il problema cercando sempre e solo il proprio tornaconto, la Chiesa di Roma non trova pace e, pur di non dover rendere conto del passato ad altri che a se stessa, non smette di precisare, rettificare, modificare, come se il passato potesse essere cancellato dal presente.
Sappiamo quanto questo sia difficile: anche avendo a disposizione intere schiere di manipolatori della memoria, il passato emerge proprio dove non dovrebbe. Per esempio, quando le Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis» portano gli anni di prescrizione da 10 a 20 (art. 7, §1): tenuto conto della permanenza degli effetti che un abuso sessuale su minore comporta per la vittima lungo tutto il corso della sua vita, volendo davvero star dalla parte del debole (che pare essere nelle nuove intenzioni della Santa Sede), perché non risolversi a un semplicissimo “prescrizione mai”? E cosa è accaduto perché ciò che nel 2001 poteva andare in prescrizione dopo 10 anni adesso deve andarvi dopo 20? È cambiata la natura del crimine? Non risulta.

Risulta, invece, che nel Sacramentorum sanctitatis tutela c’è scritto: “Si deve rammentare che tale Istruzione [la Crimen sollicitationis] aveva forza di legge” (2001); e oggi una Introduzione storica a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede sostiene che quella Istruzione “non ha mai inteso rappresentare l’intera policy della Chiesa cattolica circa condotte sessuali improprie da parte del clero” (2010).
Con la prescrizione che da 10 sale a 20 anni (con ciò chiamando in causa la Chiesa di Roma per quanto le competeva prima del 2001), voilà, la Crimen sollicitationis non aveva forza di legge. Anzi, neppure dettava un indirizzo ai vari episcopati.
Solo un nodoso randello può essere un buon argomento su simili imbroglioni.

domenica 18 luglio 2010

Il "Martirio di San Lorenzo"



Qui sopra ho raccolto i dettagli di alcune opere di certa attribuzione al Caravaggio, tutti relativi al panneggio. Sottraendo il colore (A) e lo sfumato (B), è possibile considerarne gli sviluppi.


Si può fare analoga operazione col dettaglio del panneggio nel Martirio di San Lorenzo
  

che qualcuno ipotizza essere opera del Caravaggio, ma con tutta la buona volontà risulta difficile attribuirgli qualcosa del genere.


Lo sviluppo è rozzo e innaturale, ma soprattutto non ha alcunché di caravaggesco (e parliamo di una tela del periodo romano, quello della piena maturità e del pieno controllo del disegno e del colore). Può darsi che si tratti un “mutandone” aggiunto in epoca successiva, toccherà ai periti esprimersi, ma se quel telo sulle pudenda del santo è di chi ha dipinto il quadro, faccio personale fatica a crederlo uscito dal pennello del Caravaggio.
Rimane un’altra questione. Sintetizzerei così: il Martirio di San Lorenzo è “troppo” caravaggesco. Il santo ha lo stesso volto di uno dei personaggi (il terzo da sinistra) nel Concerto di giovani (1593), la sua espressione è in tutto simile a quella di Isacco del Sacrificio di Isacco (1598), la posa del braccio destro è perfetta copia del braccio destro di Oloferne in Giuditta e Oloferne (1599), ecc.
A naso, il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio.

Immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni


Gravius delictum è quello del chierico che acquisisca, detenga o divulghi imagina pornographica minorum infra aetatem quattuordecim annorum, però se turpe patrata. Insomma, bisogna dimostrare che il fine sia proprio la libidine, ma vallo dimostrare, e che il minore non abbia 14 anni + 1 giorno, ma vallo a escludere. Il punto di cui all’art. 6, §1, 2° delle Normae è solo una presa per il culo.


Patro


Voce attiva di patior (soffro, sopporto, subisco), patro può essere tradotto con compiere, eseguire, realizzare – più o meno come perpetro (voce attiva di perpetior) – ed è usato per lo più in formule di carattere legale (patro promissum, patro iusiurandum e simili), a rammentarci di quel magistrato (pater patrator) che ufficializzava gli impegni sottoscritti in un atto pubblico. Non stupisce, dunque, trovare patro in due punti delle Normae de gravioribus delictis. Tuttavia, in entrambi i casi, il verbo è usato per esprimere il compimento di delicta.

- Art. 6, §2: “Clericus qui delicta de quibus in §1 patraverit…” (“Il chierico che compie [abbia compiuto] i delitti di cui al §1…”). Qui, il patratum è qualcosa di illegale e il patrator perde senza dubbio la dignità del magistrato.
- Lo stesso in art. 6, §1, 2°: [Delicta graviora contra mores (…) sunt] comparatio vel detentio vel divulgatio imaginum pornographicarum minorum infra aetatem quattuordecim annorum quovis modo et quolibet instrumento a clerico turpe patrata” ([I delitti più gravi contro i costumi (…) sono] l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento”).

È chiaro che questo patrare mal si adatti a quello del pater patrator: dobbiamo cercare il verbo in altri contesti, possibilmente turpi. Arriviamo così al “coitum patrare” di alcune scritte murali di franco contenuto osceno (Ostia, I-II sec. d.C.). Pare, insomma, che il latino usato dalla Curia vada ispirandosi a modelli linguistici di infimo livello.

sabato 17 luglio 2010

Buone notizie sul fronte dell'ecumenismo


Vescovo luterano accusato di aver coperto abusi sessuali su minori. Cattolici e protestanti sempre più vicini.

L'evento


L’evento cosiddetto civile non è mai sufficientemente comprensibile dal suo interno, perché lì dentro se ne fraintende quasi sempre la causa e non si riesce quasi mai a calcolarne l’effetto. Lì dentro si può arrivare a comprendere che l’evento è in atto: donde venga, dove vada e cosa esattamente sia, no. Nemmeno è garantito che, al centro dell’evento, lo si comprenda di più che standone ai margini: al centro del fascio strizza, in periferia flette, ma il tutto potrebbe essere torsione, e il tutto non lo cogli dal di dentro, dove puoi cogliere solo tutti i gradi della flessione o dello strizzamento.
Insomma, per dirla alla carlona, se fossimo alla vigilia di una guerra civile, chi potrebbe dire di averlo compreso?

Quando sfoglio vecchie riviste, mi assale sempre lo stesso stupore: l’evento sta lì e nessuno lo vede per quello che è. La guerra civile, per esempio, non sembra mai tale. Francisco Franco, per esempio, anzi, no, lasciamo stare le vecchie riviste, veniamo a tempi più recenti: Thaksin Shinawatra. Era un anno prima che scoppiassero i sanguinosi scontri di questo maggio tra camicie rosse ed esercito:

“La Thailandia non riesce a liberarsi di Thaksin Shinawatra, anzi, pare che i suoi sostenitori siano in tanti e disposti a tutto pur di rimetterlo dov’era prima del settembre 2006. Lo dimostrano i disordini recentemente scoppiati a Bangkok e che hanno costretto il governo ad annullare un importante vertice dei paesi del Sudest asiatico programmato in questi giorni. Aveva vinto le elezioni nel febbraio 2005, Shinawatra, e con una vittoria schiacciante del suo partito, il Thai Rak Thai, sul maggiore partito di opposizione, il Phak Prachathipat. Erano corse voci di brogli, ma ciò che aveva dato la vittoria a Shinawatra – lamentavano i suoi avversari – era stata la martellante pubblicità elettorale sulle tv e i giornali di sua proprietà, sfruttando la crisi abbattutasi sul paese dopo lo tsunami nel dicembre 2004 e mischiando paternalismo e populismo in un sapiente mix assai gradito all’elettorato thailandese, soprattutto al ceto medio. Era così tornato al governo, dopo esserne stato tenuto lontano per cinque anni. Nel 2001, infatti, subito dopo aver vinto le elezioni politiche, era stato messo sotto accusa per eclatanti episodi di frode, evasione fiscale, corruzione e nepotismo, in franco conflitto d’interessi per la carica rivestita, e messo al bando dalla vita politica. Aveva meditato la rivincita e l’aveva avuta, anche in forza dell’essere l’uomo più ricco della Thailandia (media, banche, assicurazioni, perfino una squadra di calcio), ma i suoi avversari approfittarono che fosse in viaggio all’estero e con un colpo di mano lo rimossero e gli sciolsero il partito di cui era proprietario più che leader, costringendolo all’esilio. Lo si ama o lo si odia, Shinawatra, non si può far altro. Una cosa è certa: corretti o no che siano, i suoi metodi gli procurano un seguito di fedeli disposti ad affrontare lo scontro violento e a portare il paese alla paralisi socioeconomica, eventualmente anche alla guerra civile. Non si può far altro che aspettare che muoia, ma ha solo 60 anni. E poi, quando un paese vuole un Shinawatra, sa rimpiazzarlo. Il problema, presumibilmente, è la Thailandia”.

L’ho scritto pensando a Il caimano di Nanni Moretti: il regista aveva centrato l’evento thailandese.
Donde venga l’evento, vabbe’, ma dove andrebbe? Mi è capitato sotto gli occhi ieri sera: “Mentre le camicie rosse morivano in suo nome a Bangkok, Thaksin faceva shopping a Parigi. Un fotografo lo ha immortalato con le borse della spesa in mano sugli ChampsElysées. I morti nelle violenze di mercoledì sono stati 14” (l’Unità, 21.5.2010).

Un pizzino di Bertone



Gianni Maria Vian ci offre brani tratti dall’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d’Italia, Il Mulino 2010) con una affettuosa marchetta su L’Osservatore Romano (17.7.2010), e questo va bene, perché la marchetta è ubiquitaria, tutto il mondo è marchetta, la marchetta è l’anima del commercio, eccetera. Va bene pure Ernesto Galli della Loggia come autore, mancherebbe, abbiamo letto di tutto, anche di peggio. Quello che non va bene, e ci sconsiglia l’acquisto del libro, invece, è proprio il libro: miserie dello storicismo, però assai piccole.
“La marcia verso il potere del fascismo iniziò […] nella primavera del 1915. Fu allora che, per la prima volta, un certo mondo del sovversivismo italiano fatto di anarco-sindacalisti, repubblicani, intellettuali radicali, artisti più o meno déraciné, allacciò di fatto intensi rapporti di collaborazione con importanti settori dell’establishment (per esempio il Corriere della Sera di Luigi Albertini) e con i circoli governativi. I modi dell’urbanità e del galantomismo che fino a quel momento avevano dominato il campo che si chiamava «costituzionale» cominciarono a cedere il passo alla spregiudicatezza, all’uso pubblico dell’insinuazione e delle contumelie, alla convinzione terribile che il fine giustifica i mezzi. Una sbrigatività compiaciutamente plebea e una febbrile eccitazione intellettuale si fecero rapidamente largo in ambienti fin lì soliti ad apprezzare studio e ponderatezza”.
Capito quand’è che il Corriere della Sera perde l’aplomb e mi diventa un giornalaccio che rincorre la stampa giacobina, forcaiola e radical-chic? Capito, soprattutto, a che porta tutto questo? Rimettete il Corriere della Sera in mano a qualcuno di apprezzabile studio e ponderatezza, così romperete il legame tra importanti settori dell’establishment e un certo mondo del sovversivismo italiano. È un legame che genera eccitazione plebea, disordine e poi fascismo (non necessariamente nell’ordine). C’è qualcuno che vuol fare il direttore del Corriere della Sera a questo modo per evitarci derive autoritarie? Alzi la mano.

Il fascismo è un evergreen, ma le cover vengono sempre peggio. Prendete Mussolini: “personalità” dalla “leadership carismatica”, “impasto di antico e di moderno”, “ad esempio, di passione per la velocità, per le automobili, per il volo, e insieme di valori maschilistico-familiari della più schietta tradizione italo-romagnola; di retorica carducciana rétro, a base di «colli fatali di Roma», ma anche di simpatia per il modernismo futuristico o per l’architettura razionalistica”. Oggi? Chi vi viene in mente, oggi, che possa fare il paio? L’impasto tra il pezzente mostruosamente arricchito e il narcisista prodigo di sentimento? Tra il vulcano artificiale e la tomba neo-egizia? Tra il “mi consenta” e il “ghe pensi mi”? O l’anello di congiunzione tra famiglia e cricca?
È chiaro che sto parlando di un libro che non ho letto, perciò nell’incipit ho usato il noi. Tuttavia sto parlando di ciò che sicuramente sta in questo libro di Galli della Loggia, che poi è quanto scelto da Vian per la réclame: il professore usa la storia come un piede di porco e Vian gli fa da palo, mi basta questo per decidere che non lo comprerò. Non è un libro di storia, è un pizzino di Bertone agli azionisti del Corriere della Sera.

venerdì 16 luglio 2010

Non ci siamo, non ci siamo ancora


La Crimen sollicitationis fu licenziata solo in latino dal Sant’Uffizio, sia nella prima edizione (1922) che nella seconda (1962), ma soprattutto era “servanda diligenter in archivo secreto curiae” “non pubblicanda nec ullis commentariis augenda”. Guai a farne sapere qualcosa ai laici, insomma, e infatti siamo venuti a sapere della sua esistenza solo nel 2001. La si citava nella De delictis gravioribus, licenziata proprio quell’anno dal Sant’Uffizio (intanto divenuto Congregazione per la Dottrina per la Fede), anche stavolta solo in latino, indirizzata esclusivamente agli “interesse habentes”.
Prima di ogni altra differenza con le Normae de gravioribus delictis, licenziate ieri, e col Regolamento del 2003 (reso pubblico solo nel marzo di quest’anno), c’è che stavolta dalla Santa Sede è licenziata versione anche in italiano. In più, le Normae sono strombazzate urbi et orbi, subito, mentre il Regolamento ha dovuto aspettare 7 anni e la Crimen sollicitationis ne ha dovuti aspettare 79. Potremmo dire che la riservatezza sulle circolari interne va drasticamente riducendosi, col tempo.
Rimane, invece, la consegna di quel segreto pontificio – qui, nelle Normae, all’art. 30, §1 – che da sempre è raccomandato sulle cause ecclesiastiche riguardanti chierici che hanno commesso abusi su minori, ma negli ultimi tempi con qualche pur vano sforzo di dimostrarlo a tutela della vittima, che nella Crimen sollicitationis e nella De delictis gravioribus neanche era dichiarato. Come dire che una certa filosofia di vita è conservata.

Tutti in queste ore stanno sottolineando le novità introdotte, che sarebbe ingeneroso negare, ma ingenuo credere possano risolvere il problema per come lo affrontano. Lo affrontano malissimo, come sempre è stato fatto, perché anche in queste Normae stuprare un bambino rimane “delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni” (art. 6, §1, 1°): il delitto non è “contro il minore”, ma “contro il sesto comandamento”; il chierico non lo commette “contro il minore”, ma “con” lui.
La parte lesa è il bambino solo in quanto occasione del delitto contro il Decalogo. Può sembrare niente, ma è tutto: è come chiedere perdono a Dio dei crimini commessi contro gli ebrei, ma non agli ebrei (e infatti così è stato nel 2000).
Nel fondo della sua filosofia di vita, il chierico continua a far fatica ad ammettere che debba dar conto al laico del danno che ha procurato al laico, ma pensa che, regolata la faccenda con Dio, il più è fatto. Diciamo che non ammette penitenza laica, se non come forma degradata della Penitenza.
Nel reato commesso da un chierico, Dio è chiamato a triangolare, cosa che risulta utile al chierico, perché ministro di Dio. È tutto un altro modo di accettare il giudizio, e però il solito, quello cui il chierico è convinto di aver diritto. Non ci siamo, non ci siamo ancora.

Carinissima



giovedì 15 luglio 2010

Don't laugh at us, Argentina

Primo paese sudamericano a legalizzare i matrimoni gay.

Una rotonda sul mare / 10


[...]


Prendetevela con De Mita


Degli italiani eletti al Parlamento europeo è Magdi Cristiano Allam l’ultimo nella classifica delle presenze a Strasburgo (votewatch.eu, 24.6.2010 – via Internazionale, XVII/854, pag. 3), al 729° posto nella classifica generale dei 736, presente solo la metà delle volte che ci dovrebbe essere. Ruba buona parte del suo stipendio di parlamentare europeo? Tradisce la fiducia espressagli dagli elettori? Nulla di tutto questo, fatemi ergere a suo difensore.
L’avete già scordato il nome dato alla sua lista? Era Io amo l’Italia: in trasparenza si poteva leggere Odio allontanarmene. Insomma, già al momento della candidatura l’aveva fatto presente ai suoi elettori: nessun tradimento al patto di fiducia.
Anche sull’accusa di furto vi consiglierei cautela: solo in apparenza trascura il lavoro per il quale è pagato, perché in favore dell’Italia in Europa, e in favore dell’Europa in toto, anche un rosario a giorni alterni può fare assai di più che cento presenze in aula. Chi vi consente di escludere che i suoi elettori gradiscano?

Se proprio sentite il bisogno di indignarvi, prendetevela con gli altri assenteisti. Debora Serracchiani, per esempio? Sì, è assente una volta su tre e chissà come gireranno le palle ai suoi 144.558 elettori, ma lasciate in pace pure lei: è giustificata, scrive su Il Post, la cosa le piglierà un certo impegno.
Se proprio sentite il bisogno di indignarvi, prendetevela Ciriaco De Mita, assente a Strasburgo più o meno in egual misura. Ecco, prendetevela con De Mita, ché nessuno verrà a contestarvi l’indignazione.

mercoledì 14 luglio 2010

Istinto alla coazione identitaria?

Paul Bloom per The New York Times Magazine (in italiano sull’ultimo numero di Internazionale): “Molti studi hanno dimostrato che i bambini mantengono le loro preferenze all’interno del gruppo: quelli di tre mesi preferiscono i visi della razza che gli è più familiare a quelli delle altre. I bambini di undici mesi preferiscono le persone che condividono i loro gusti alimentari e si aspettano che siano più buone di quelle che hanno gusti diversi. Quelli di dodici mesi preferiscono imparare da qualcuno che parla la loro stessa lingua piuttosto che da qualcuno che parla una lingua straniera. E da altri studi è emerso che quando sono divisi in gruppi, anche in base a criteri arbitrari come il colore della maglietta, i bambini favoriscono il loro gruppo in tutti i loro atteggiamenti e comportamenti”.

Conformisti, gregari, tendenzialmente xenofobi e pure un po’ razzisti? Termini impropri, trattandosi di bambini: si può parlare di conformismo, di carattere gregario e di coazione identitaria quando i suddetti atteggiamenti e comportamenti si riscontrano in adulti che sono fissati o regrediti a quel livello di apprendimento, ma come considerarli tali nei bambini?
Bloom ritiene che non si debbano considerare come espressione di un elemento biologico innato, ma comunque “frutto della cultura”. Non lo scrive esplicitamente ma penso faccia riferimento a quelle precocissime acquisizioni che il bambino ricava dall’ambiente che lo circonda attraverso un adattamento mimetico, finalizzato ai benefici che si traggono da una risposta congrua alle aspettative che l’ambiente ripone nel soggetto: il pregiudizio che tanti fissati e regressi amano credere sia istintivo, e per ciò stesso “biologico”, in realtà si apprende.

Se così non fosse, dovremmo ritenere che nel bambino – in una matrice psichica umana ipotizzabile come primigenia e che nel bambino sarebbe ancora intatta – ci siano le “naturali” ragioni di razzismo, xenofobia, ecc. E tuttavia i bambini “preferiscono i visi della razza che gli è più familiare a quelli delle altre [e] le persone che condividono i loro gusti alimentari [e] favoriscono il loro gruppo in tutti i loro atteggiamenti e comportamenti”, non già perché nel bambino riposerebbe una “natura” incontaminata dalla “cultura”, ma perché in lui l’adattamento mimetico assume forma di atavismo. La tragedia è quando non si accorgono che sono diventati adulti.

Vertical

Vorrei riportare qui da un post di Luca Massaro (vi consiglio di leggerlo per intero) una delle cose più belle che mi sia mai capitato di leggere su un blog: “Quanto ci sia riuscito o ci stia riuscendo non lo so. So solo che per me è importante essere qui. Mi fa sentire bene. Vivo. Mi estende. L’io esteso. Disteso. Nel senso che mi distende essere un blogger, un umbratile hombre vertical”.
Se il sano impulso a bloggare sta in questo, e io lo credo, tutto il resto (blog collettivi, aggregatori, nanopublishing & affini) non sono blogging. Con un altro campo di estensione a disposizione (scrittori, giornalisti & affini) si sta a buon diritto in rete, mancherebbe. Ma non si fa blogging: si fa – legittimamente, sia chiaro – una cosa obliqua, mai veramente vertical, e mai abbastanza umbratile.

Clic




“La vita è uno stato mentale”
Georges Ivanovič Gurdjieff

Sul giornale di Giuliano Ferrara è pubblicato un ritratto di Massimo Bordin che non trascura un cenno al suo tabagismo e “all’antiproibizionismo che lo portò a far sentire in diretta il «clic» dell’accendino in piena campagna italiana sui divieti di fumo nei locali. Bordin disse qualcosa come: e io mi accendo una sigaretta” (Il Foglio, 14.7.2010). Bene, penso che questo dettaglio sia assai utile alla comprensione dell’uomo che troppo spesso, e anche stavolta – stavolta con Marianna Rizzini – è ridotto a stereotipo e frusta aneddotica.
Roba benevola, in genere, o almeno non troppo malevola (che già è molto), e così è pure per questo ritratto che Il Foglio ci offre di Bordin. Tuttavia credo che tutto il carico di Trotzki e Pannella non metta e non tolga uno iota a un uomo che: fuma; ritiene ingiusto l’assoluto divieto di fumo nei locali pubblici (perché, rammentiamolo, è di questo che si trattava); e accende lo stesso la sua sigaretta; e fuma; e si autodenuncia.
Sarò un inguaribile romantico, ma ritengo tutto questo bello e nobile, giusto e logico.

Agli antipodi di questo genere d’uomo c’è quello che: fuma (qui stiamo parlando di Ferrara); e ritiene ingiusto il divieto (si legga Il Foglio della prima settimana del gennaio 2005); ma, quando il divieto è fatto legge, dichiara solennemente che la legge va rispettata, anche se ingiusta, sempre, per una sua intrinseca rappresentazione del Potere (non ha importanza se di un Dio o di un Principe, tanto per uomini del genere fa lo stesso), e che, per quanto lo riguarda, ogni tanto un bel tabù non guasta: non fumerà mai più in locali pubblici – dichiara – a cominciare addirittura dalla sua redazione (“Qui sono spariti i portacenere, la legge è legge [...] Siamo in piena ed esemplare astinenza”Il Foglio, 12.1.2005); e poi fuma di nascosto, come un liceale al cesso.
Si ascoltino le trasmissioni a cura della redazione de Il Foglio ospitate da Radio Radicale nel corso della campagna referendaria sulla legge 40 (le trovate su radioradicale.it): dalla puntata del 12 maggio 2005 fino alla fine, Ferrara fa sentire innumerevoli volte il «clic» dell’accendino. E non erano passati neanche quattro mesi. E mai una volta qualcosa come: e io mi accendo una sigaretta.