L’evento cosiddetto civile non è mai sufficientemente comprensibile dal suo interno, perché lì dentro se ne fraintende quasi sempre la causa e non si riesce quasi mai a calcolarne l’effetto. Lì dentro si può arrivare a comprendere che l’evento è in atto: donde venga, dove vada e cosa esattamente sia, no. Nemmeno è garantito che, al centro dell’evento, lo si comprenda di più che standone ai margini: al centro del fascio strizza, in periferia flette, ma il tutto potrebbe essere torsione, e il tutto non lo cogli dal di dentro, dove puoi cogliere solo tutti i gradi della flessione o dello strizzamento.
Insomma, per dirla alla carlona, se fossimo alla vigilia di una guerra civile, chi potrebbe dire di averlo compreso?
Quando sfoglio vecchie riviste, mi assale sempre lo stesso stupore: l’evento sta lì e nessuno lo vede per quello che è. La guerra civile, per esempio, non sembra mai tale. Francisco Franco, per esempio, anzi, no, lasciamo stare le vecchie riviste, veniamo a tempi più recenti: Thaksin Shinawatra. Era un anno prima che scoppiassero i sanguinosi scontri di questo maggio tra camicie rosse ed esercito:
“La Thailandia non riesce a liberarsi di Thaksin Shinawatra, anzi, pare che i suoi sostenitori siano in tanti e disposti a tutto pur di rimetterlo dov’era prima del settembre 2006. Lo dimostrano i disordini recentemente scoppiati a Bangkok e che hanno costretto il governo ad annullare un importante vertice dei paesi del Sudest asiatico programmato in questi giorni. Aveva vinto le elezioni nel febbraio 2005, Shinawatra, e con una vittoria schiacciante del suo partito, il Thai Rak Thai, sul maggiore partito di opposizione, il Phak Prachathipat. Erano corse voci di brogli, ma ciò che aveva dato la vittoria a Shinawatra – lamentavano i suoi avversari – era stata la martellante pubblicità elettorale sulle tv e i giornali di sua proprietà, sfruttando la crisi abbattutasi sul paese dopo lo tsunami nel dicembre 2004 e mischiando paternalismo e populismo in un sapiente mix assai gradito all’elettorato thailandese, soprattutto al ceto medio. Era così tornato al governo, dopo esserne stato tenuto lontano per cinque anni. Nel 2001, infatti, subito dopo aver vinto le elezioni politiche, era stato messo sotto accusa per eclatanti episodi di frode, evasione fiscale, corruzione e nepotismo, in franco conflitto d’interessi per la carica rivestita, e messo al bando dalla vita politica. Aveva meditato la rivincita e l’aveva avuta, anche in forza dell’essere l’uomo più ricco della Thailandia (media, banche, assicurazioni, perfino una squadra di calcio), ma i suoi avversari approfittarono che fosse in viaggio all’estero e con un colpo di mano lo rimossero e gli sciolsero il partito di cui era proprietario più che leader, costringendolo all’esilio. Lo si ama o lo si odia, Shinawatra, non si può far altro. Una cosa è certa: corretti o no che siano, i suoi metodi gli procurano un seguito di fedeli disposti ad affrontare lo scontro violento e a portare il paese alla paralisi socioeconomica, eventualmente anche alla guerra civile. Non si può far altro che aspettare che muoia, ma ha solo 60 anni. E poi, quando un paese vuole un Shinawatra, sa rimpiazzarlo. Il problema, presumibilmente, è la Thailandia”.
L’ho scritto pensando a Il caimano di Nanni Moretti: il regista aveva centrato l’evento thailandese.
Donde venga l’evento, vabbe’, ma dove andrebbe? Mi è capitato sotto gli occhi ieri sera: “Mentre le camicie rosse morivano in suo nome a Bangkok, Thaksin faceva shopping a Parigi. Un fotografo lo ha immortalato con le borse della spesa in mano sugli ChampsElysées. I morti nelle violenze di mercoledì sono stati 14” (l’Unità, 21.5.2010).
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