lunedì 12 luglio 2010

Kleros

Nel mettere un po’ d’ordine sugli scaffali – impossibile, ma tentar non nuoce, anzi – mi sono reso conto che negli ultimi cinque anni sono stati pubblicati in Italia non meno di trenta volumi nei quali almeno un capitolo è dedicato a ciò che è “laico” e ho constatato che ogni autore ha considerato irrinunciabile un preliminare approccio etimologico su ciò che in principio era “laos”, per poi passare a considerare l’evoluzione del termine in relazione ai processi storici e ai contesti culturali, arrivando – senza eccezioni – a intrattenersi sul termine “laicismo”. Di là dai significati che ciascun autore arriva a dare a ciò che correttamente andrebbe da intendersi per “laico” – si va da chi non vede troppa differenza tra “laicità” e “laicismo” (e qui concordo), fino al paradosso del far di “laico” un sinonimo di “filoclericale” (e qui rido) – rilevo in tutti una mancanza di attenzione a ciò che è “clericale”: nessuno spiega l’etimo di “kleros”, nessuno s’intrattiene su ciò che si è inteso e si intende per “clero” e, quando si arriva a parlare di “clericalismo”, tutti danno per scontato che si tratti di una patologia della quale sarebbero affetti alcuni “laici” eccessivamente “filoclericali”. Penso dunque sia necessaria una riflessione analoga e parallela su ciò che troppo spesso – in realtà, sempre – si fa finta di non sapere.

“Kleros” viene da “kleroycheo”, che potremmo tradurre con “mi spetta per sorteggio” e che trae radice da “klao” (“spezzo”, “divido”, “spartisco”). Il termine nasce per la lottizzazione dei terreni, passando poi a indicare l’assegnazione degli migliori appezzamenti al ceto sacerdotale. Quando Tertulliano, intorno al 190, parla di “laici” e “chierici” è già chiara ogni cosa: il “clero” è quella casta che ha in sorte il diritto al boccone migliore, il “laico” prende quello che rimane e ringrazia. Prima di portare il suo pezzullo a pigliar farfalle, c’è chi scrive con buona sintesi: “Lo stato sacerdotale [è] lo stato di eccellenza del cristiano, del credente, anche quando non possa direttamente accedervi e deve rassegnarsi a essere un semplice laico […] Si dice, e credo sia vero, che si deve al cristianesimo la distinzione tra clero e laos-popolo, e dunque si porta a vanto del cristianesimo l’invenzione del laicato, della laicità. Penso sia un vanto ambiguo e ampiamente contestabile […] Lo stato laicale è il rango inferiore con il quale l’individuo sta nella chiesa. E tuttavia oggi, da tutte le parti, si invoca la crescita del dialogo tra credenti e laici, e se ne parla come di un dialogo tra pari” (Angiolo Bandinelli – Il Foglio, 8.7.2010).

Occorre ripigliare la Lettera dell’episcopato al clero del 25 marzo 1960, al punto nel quale il “laicismo” è definito come ribellione del buon “laico” allo stato di cose che prevede la sua subordinazione al “clero”: “Nell’edificazione della città terrestre [il laicista] intende prescindere completamente dai dettami della rivelazione cristiana, nega alla Chiesa una superiore missione spirituale orientatrice, illuminatrice, vivificatrice nell’ordine temporale”. Insomma, intende rimettere in discussione l’antica lottizzazione e gli antichi privilegi. “Praticamente si nega o si prescinde dal fatto storico della rivelazione”. Praticamente si nega la correttezza del sorteggio e il criterio dell’assegnazione dei privilegi. “Nella sua accezione più conseguente, [il laicismo] è una concezione della vita che è agli antipodi di quella cristiana”. Vorrebbe dire che non è possibile cristianesimo senza la subordinazione del popolo dei laici alla privilegiata casta dei chierici. E allora che c’è di scorretto nel sostenere che il cristianesimo è in radice incompatibile con la democrazia?

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