“Il capitalismo ormai non è solo incompatibile
con la democrazia: è incompatibile con la vita”
Ho già detto che Nichi Vendola non mi piace e ho usato questa espressione perché mi sono limitato a usare categorie estetiche, parlando dell’irritazione che mi procurano il suo cristianesimo alla Jovanotti, il suo cattolicesimo da festa del santo protettore, il suo lessico psichedelico, il suo comunismo tutto letterario, il suo populismo sentimentale, la sua omosessualità ostentatamente sobria (e non è un ossimoro). Dopo due mesi il post continua ad essere commentato, per lo più da lettori ai quali invece Nichi Vendola piace, piace molto, piace al punto da rimproverarmi che non piaccia pure a me quanto piace a loro. Penso, dunque, che sia il caso di passare a un giudizio propriamente politico e approfitto dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia che oggi apre il Corriere della Sera (L’orecchino populista), perché mi torna utile a semplificare.
Dico subito che l’editoriale sembra assai benevolo, in alcuni punti addirittura lusinghiero. In pratica, Ernesto Galli della Loggia scrive che Nichi Vendola è il meglio che potesse capitare a una sinistra che, “con la fine dell’impianto ideologico che arriva all’Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca” e “con il declino dell’industrializzazione e dei suoi attori, con l’impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati”, era tenuta ad abbandonare “la «storia» come termine essenziale di riferimento” per “sostitu[irla] con la «vita»”: nessuno meglio di Nichi Vendola, che sostituisce l’ideologia con “immagini ed emozioni”, e che “non parla” ma “intesse delle «narrazioni»”, nelle quali “la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti”.
Sembrerebbe un giudizio positivo, se non fosse che per Ernesto Galli della Loggia, levato il portato ideologico, alla sinistra resta il suo moralismo (“dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche”) e la sua epica “etno-populistica”, che dal mito dell’eroe proletario – operaio, contadino, studente – è decaduto all’icona di “un modello divistico di tipo rockettaro-televisivo”: Nichi Vendola è quanto di meglio può incarnare questa evoluzione, ma si tratta di una dimensione politica che, “lungi dall’essere argomentazione razionale di problemi concreti e di soluzioni possibili, è soprattutto retorica e oratoria fusionale, identificazione emotiva tra chi «narra» e chi ascolta”. Affabulazione etico-estetica, dunque, e tutta autoreferenziale: al posto della politica c’è il “pathos della «vita»”, e Nichi Vendola ne è il miglior medium possibile.
Sembrava un giudizio positivo, ma è una sentenza di condanna senza appello: per la sinistra – e per Nichi Vendola. Condanna che io trovo condivisibile. Da liberale, non posso ritenere questa narrazione migliore di quella che Silvio Berlusconi è riuscita a incarnare per catalizzare il blocco sociale di questo centrodestra: tra queste consolatorie spiegazioni di quella chimera antropologica che sarebbe il carattere nazionale italiano – in oppositis speculis – c’è la giustificazione di una differenza che ci precluderebbe l’uso della testa, dandoci il primato del cuore e dello stomaco. Questo non mi piace, ma qui l’espressione esorbita dalle categorie estetiche: non mi convince che il destino patrio debba giocarsi in una eterna guerra civile tra furbi e fessi.