martedì 21 dicembre 2010

Nichi Vendola non mi piace e non mi convince



“Il capitalismo ormai non è solo incompatibile
con la democrazia: è incompatibile con la vita”

Ho già detto che Nichi Vendola non mi piace e ho usato questa espressione perché mi sono limitato a usare categorie estetiche, parlando dell’irritazione che mi procurano il suo cristianesimo alla Jovanotti, il suo cattolicesimo da festa del santo protettore, il suo lessico psichedelico, il suo comunismo tutto letterario, il suo populismo sentimentale, la sua omosessualità ostentatamente sobria (e non è un ossimoro). Dopo due mesi il post continua ad essere commentato, per lo più da lettori ai quali invece Nichi Vendola piace, piace molto, piace al punto da rimproverarmi che non piaccia pure a me quanto piace a loro. Penso, dunque, che sia il caso di passare a un giudizio propriamente politico e approfitto dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia che oggi apre il Corriere della Sera (L’orecchino populista), perché mi torna utile a semplificare.
Dico subito che l’editoriale sembra assai benevolo, in alcuni punti addirittura lusinghiero. In pratica, Ernesto Galli della Loggia scrive che Nichi Vendola è il meglio che potesse capitare a una sinistra che, “con la fine dell’impianto ideologico che arriva all’Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca” e “con il declino dell’industrializzazione e dei suoi attori, con l’impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati”, era tenuta ad abbandonare “la «storia» come termine essenziale di riferimento” per “sostitu[irla] con la «vita»”: nessuno meglio di Nichi Vendola, che sostituisce l’ideologia con “immagini ed emozioni”, e che “non parla” ma “intesse delle «narrazioni»”, nelle quali “la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti”.
Sembrerebbe un giudizio positivo, se non fosse che per Ernesto Galli della Loggia, levato il portato ideologico, alla sinistra resta il suo moralismo (“dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche”) e la sua epica “etno-populistica”, che dal mito dell’eroe proletario – operaio, contadino, studente – è decaduto all’icona di “un modello divistico di tipo rockettaro-televisivo”: Nichi Vendola è quanto di meglio può incarnare questa evoluzione, ma si tratta di una dimensione politica che, “lungi dall’essere argomentazione razionale di problemi concreti e di soluzioni possibili, è soprattutto retorica e oratoria fusionale, identificazione emotiva tra chi «narra» e chi ascolta”. Affabulazione etico-estetica, dunque, e tutta autoreferenziale: al posto della politica c’è il “pathos della «vita»”, e Nichi Vendola ne è il miglior medium possibile.
Sembrava un giudizio positivo, ma è una sentenza di condanna senza appello: per la sinistra – e per Nichi Vendola. Condanna che io trovo condivisibile. Da liberale, non posso ritenere questa narrazione migliore di quella che Silvio Berlusconi è riuscita a incarnare per catalizzare il blocco sociale di questo centrodestra: tra queste consolatorie spiegazioni di quella chimera antropologica che sarebbe il carattere nazionale italiano – in oppositis speculis – c’è la giustificazione di una differenza che ci precluderebbe l’uso della testa, dandoci il primato del cuore e dello stomaco. Questo non mi piace, ma qui l’espressione esorbita dalle categorie estetiche: non mi convince che il destino patrio debba giocarsi in una eterna guerra civile tra furbi e fessi.

lunedì 20 dicembre 2010

Di Pietro è assai invecchiato in questi ultimi 17 anni...



... La Russa è più o meno lo stesso.

19:45 - CRONACA - 20 DIC 2010


Fresca di mezz’ora, una notizia che ne implica un’altra: se c’è riciclaggio, c’è un riciclatore. Se non è Gotti Tedeschi, chi può essere?

“Corrispondente responsabilità”


È tradizione ormai consolidata che il discorso tenuto dal Papa alla Curia in occasione dell’udienza per la presentazione degli auguri natalizi sia occasione per tirare le somme dell’anno che sta per chiudersi. Discorso che con Giovanni Paolo II raramente ha superato le 10.000 battute, ma che con Benedetto XVI non è mai stato inferiore alle 20.000, come a compensare con la prolissità l’inarrivabile dinamismo del suo predecessore. Quest’anno il discorso supera le 23.000 battute, delle quali un quarto è dedicato ai numerosi casi di abusi sessuali su minori commessi da preti che sono venuti a galla nel 2010, scoperchiando una fogna dalle dimensioni immense, e Sua Santità strappa un sorriso di tenerezza nel modo in cui approccia la questione: “Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettati” (trad.: “Tutta questa merda doveva venire a galla proprio quest’anno? Eccheccazzo!”).
Poco altro da segnalare, però è fatta un’importante ammissione: “Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità”. Ecco, con l’ammissione di una “corrispondente responsabilità”, che ci auguriamo non sfuggirà a chi cura gli interessi delle vittime, possiamo dire che questo discorso di fine anno non sia stato del tutto inutile.


Not necessarily




[...]



Per non ripetermi, rimando a quanto ho già detto lanno scorso. Così, se non rispondo ai «Buon Natale» che verranno, non sembrerà scostumatezza.
 
 

Passa al cabaret

Luigi Ferrarella (1) e Michele Ainis (2) firmano due articoli che smerdano Maurizio Gasparri come merita. Massimo D’Alema (3) ci prova, ma si affida interamente a quel suo fare sprezzante che dà per superflua ogni argomentazione. Così, tutto sommato finisce per smerdarsi un poco pure lui, perché l’uomo politico, inteso come professionista della politica, è uno che deve produrre argomenti convincenti e qui D’Alema non ne produce: Gasparri sbaglia perché è Gasparri. D’Alema viene meno a un suo preciso dovere, quello di produrre argomenti convincenti perché la proposta di un avversario politico risulti insensata anche a chi non condivida il pregiudizio negativo sulla sua persona, e lo evade nell’intrattenimento dei fidelizzati.
Ritengo assai grave questa mancanza. Nello specifico penso che un professionista della politica avrebbe dovuto essere capace di sintetizzare gli argomenti di Ferrarella e di Ainis, spiegandoli in modo semplice e chiaro in non più di 45 secondi. Difficile? E allora rinuncia alla politica e passa al cabaret.

(1) “Prima il Guardasigilli mobilita gli ispettori quando non gli piacciono le sentenze, poi il titolare del Viminale immagina per i cortei un divieto come il Daspo agli ultrà, e ora il presidente dei senatori pdl rimpiange gli arresti preventivi Anni 70. Tra i danni collaterali delle gravi violenze del 14 dicembre nel centro di Roma, che non possono trovare giustificazioni e che meriteranno i rigori di legge a coloro che ne saranno accertati responsabili, il fine settimana appena trascorso segnala che una cortina fumogena di slogan sta annebbiando la percezione del principio di separazione tra poteri dello Stato. Un giorno il ministro della Giustizia Alfano, annunciando ispezioni ai giudici sgraditi, manifesta la propensione a voler decidere lui se una scarcerazione che non gli garba sia giusta o no. Un altro giorno il ministro dell’Interno Maroni accarezza l’idea di estendere i divieti Daspo dagli stadi di calcio alle piazze, e così di essere di fatto lui, tramite i Questori, a decidere chi non debba più partecipare a manifestazioni pubbliche. E ieri Gasparri chiude il trittico con il suo «qui ci vuole un 7 aprile, e mi riferisco al giorno del 1978 in cui furono arrestati tanti capi dell’estrema sinistra collusi con il terrorismo». Quest’ultimo vagheggiamento è arduo persino da prendere in considerazione, visto quanto lo vizia il concentrato di errori (era il 1979 e non 1978), confusioni di contesto (l’Autonomia Operaia negli anni delle Br), e scarsa memoria degli striminziti esiti giudiziari per molti dei 140 indagati. Per parte sua, il Guardasigilli sorvola sul fatto che, quand’anche siano erronei i presupposti della decisione dei giudici di confermare l’arresto dei 22 fermati dalla polizia ma di non trattenerli in carcere in vista del processo di giovedì, il rimedio previsto dalla legge non è l’ispezione ministeriale minacciata al Tribunale, ma l’appello della Procura contro le scarcerazioni innanzi al Tribunale del Riesame. Analogo stridore promette l’applicazione ai cortei dell’odierno «Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive» (Daspo) da uno a 5 anni per chi in passato abbia preso parte o inneggiato a episodi di violenza. A imporlo, infatti, non è un giudice ma il Questore, cioè una emanazione del potere esecutivo; e come presupposto non c’è bisogno di una sentenza ma basta anche solo una semplice denuncia di polizia. Il destinatario può solo sottoporne i profili amministrativi al Tar, mentre il giudice penale interviene solo qualora il Questore imponga anche l’obbligo di firma (ammesso dalla Consulta nel 2002 proprio perché sottoposto a controllo giurisdizionale). Sembra poi sfuggire, se trapiantata nelle piazze, la delicatezza delle conseguenze per chi, colpito da un divieto amministrativo del Questore sulla base solo di una denuncia, non facesse altro che partecipare lo stesso a una manifestazione: arresto in flagranza, processo per direttissima, condanna da 1 a 3 anni e multa da 10 mila a 40 mila euro. Per capire che sarebbe un pericoloso corto circuito, prima ancora di doversi aggrappare agli articoli 16 e 21 della Costituzione su libertà di circolazione e di espressione, forse può bastare il buon senso. Irrobustito da una gestione dell’ordine pubblico più accorta nell’isolare nei cortei i violenti. E presidiato da sentenze che dalla magistratura bisogna pretendere non «esemplari» , ma pignole e sollecite: come per gli scontri tra estrema destra e centri sociali di sinistra antagonista che l’11 marzo 2006 devastarono il centro di Milano, e che già nel 2008 videro diventare definitive in Cassazione sentenze capaci di distinguere 15 pesanti condanne (a 4 anni nonostante lo sconto di un terzo per il rito abbreviato) da 11 assoluzioni” (Poteri dello Stato. Il cortocircuitoCorriere della Sera, 20.12.2010).

(2) “Calma e gesso, per favore. Anche perché di scalmanati in abito gessato ce n’è fin troppi in giro. A cominciare dall’onorevole Gasparri, che invoca arresti preventivi, retate di massa, e in conclusione un nuovo 7 aprile. Insomma la ricetta del 1979, benché Gasparri abbia citato il 1978. E allora proviamo a dare i numeri, di questi tempi non saremo i primi a farlo. Proviamo a misurare sui numeri della Costituzione non tanto la sparata di Gasparri (qui è più facile: zero), quanto piuttosto l’idea di Mantovano e di Maroni, quella d’esportare ai manifestanti il Daspo che s’applica ai tifosi. Ossia il divieto comminato dal questore - e dunque senza una pronuncia giudiziaria - a carico di persone che si ritengono pericolose, impedendo loro d’entrare in uno stadio, o per l’appunto in una piazza gremita da cortei. Sulle prime, parrebbe una misura di buon senso. Se il Daspo ha funzionato per i disordini sportivi, perché non dovrebbe rivelarsi altrettanto efficace per i disordini politici? Peccato tuttavia che non abbia senso equiparare il diritto di tifare per la Lazio al diritto di manifestare contro la Gelmini. Peccato che ai costituenti interessasse la regolarità delle elezioni, non la regolarità dei campionati. Peccato infine che il libero esercizio del diritto di voto è possibile soltanto a condizione che il voto venga espresso in un clima democratico, con un’informazione pluralista, con un dissenso garantito in Parlamento e nelle piazze. Insomma i diritti non sono tutti uguali: taluni hanno dignità costituzionale, altri s’esercitano sotto l’ombrello della legge. E a loro volta i diritti costituzionali non pesano sempre in modo eguale: come diceva Bobbio, i diritti politici sono strumentali a tutti gli altri, e dunque li precedono, e dunque vantano uno statuto superiore. Significa che subiscono soltanto restrizioni circoscritte, tassative, temporalmente limitate. Altrimenti, se la sicurezza fosse un passe-partout per scardinarli, tanto varrebbe vietare le manifestazioni. Faremmo prima, e con un risultato garantito. Tuttavia non è possibile, vi s’oppongono per l’appunto i numeri della Costituzione. Articolo 16: chiunque può circolare in ogni contrada del nostro territorio, salvo i limiti che la legge disponga in nome della sicurezza. Ma guarda caso tali limiti non possono mai venire ispirati da ragioni politiche. Articolo 17: la libertà di riunirsi può essere negata per motivi («comprovati») di sicurezza pubblica, ma non ai singoli, bensì all’intero gruppo che chiede di manifestare. Articolo 27: la responsabilità penale è personale, e c’è inoltre una presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna. Vuol dire che non è reato partecipare a un corteo dove altri commettono reati, e vuol dire inoltre che i reati sono tali solo quando lo dichiara un giudice, e nessun altro giudice possa rovesciare il suo verdetto. Al limite, se proprio vogliamo un Daspo politico dopo quello sportivo, se ne potrà forse discutere per chi ha subito una condanna, quantomeno in primo grado. E c’è in ultimo un risvolto politico di queste chiacchiere imprudenti, ben più saliente del profilo giuridico. Perché nessuno ha mai evocato misure preventive di polizia dopo i fatti di Genova, dopo altri disordini che pure hanno scandito gli anni Zero? Che c’entra Roma del 2010 con Padova del 1979, dove i professori insegnavano con un coltello alla gola? Risposta: niente, non c’è niente in comune. C’è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare” (Ma i diritti non sono uguali per tuttiLa Stampa, 20.12.2010)

(3) “Non commento mai le dichiarazioni dell’onorevole Maurizio Gasparri” (Che tempo che faRaitre, 19.12.2010)


«A due a due»



Perché Gesù li mandò «a due a due»? Vi risparmio la cazzata che riesce a partorire il signorino che Avvenire ha promosso a editorialista, mi limito a segnalare la sua autorevolezza come esegeta biblico: non è nel Vangelo di Luca che Gesù manda i Dodici «a due a due», ma in quello di Marco (Mc 6, 7).


Il lavoro di informare


Enrico Negrotti incorre in molte imprecisioni nell’informare i lettori di Avvenire (19.12.2010 – pag. 14) circa le “nuove indicazioni per l’assistenza alla gravidanza fisiologica […] predisposte da un ampio gruppo di esperti sotto la responsabilità di Alfonso Mele (Istituto superiore di sanità, Iss) e coordinati da Vittorio Basevi (Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria – Ceveas – della Ausl di Modena) e Cristina Morciano (Iss)”. Si tratta delle 208 pagine della Linea Guida 20 che il Sistema nazionale per le linee guida ha pubblicato a novembre, dalle quali il Negrotti pesca a cazzo, commentando a cazzo.
“Gli esperti designati dal ministero della Salute indicano la necessità di ridurre la diagnostica invasiva (amniocentesi e villocentesi), ma allargando il percorso di ricerca di feti con sindrome di Down (Sd) anche alle donne sotto i 35 anni di età”. In realtà, gli esperti affermano che “la cariotipizzazione mediante prelievo di villi coriali o amniocentesi è l’indagine che, con certezza, consente di diagnosticare un feto affetto da sindrome di Down. Gli accertamenti ecografici e/o sierologici forniscono invece una stima del rischio. La cariotipizzazione e pertanto considerata l’indagine gold standard” (pag. 121): come se ne dedurrebbe “la necessità di ridurre la diagnostica invasiva” intuita dal Negrotti? Mistero. Tanto più che poche pagine dopo si legge che “il percorso per la diagnosi prenatale della sindrome di Down deve essere offerto a tutte le donne entro 13+6 settimane” (pag. 125); e una dozzina di pagine prima che “l’individuazione in una fase precoce della gravidanza di anomalie fetali consente alla donna di prepararsi psicologicamente alla nascita del bambino, di organizzare il parto in una struttura con rapido accesso nel periodo neonatale a prestazioni specialistiche o a cure palliative, di eseguire eventuali terapie intrauterine o di riflettere sulla decisione di interrompere la gravidanza” (pag. 111).
Interrompere la gravidanza non è esclusa dalle finalità dello screening diagnostico ed è messa fra “le decisioni che devono essere prese dalla donna” (pag. 111), sicché si raccomanda di evitare di “ritardare la diagnosi di anomalie fetali e di conseguenza non concedere alla donna l’opportunità di valutare le diverse opzioni” (pag. 118), “in modo che possa compiere una scelta riproduttiva consapevole (proseguire o meno la gravidanza)” (pag. 120). Dettagli che non sfuggono al Negrotti che infatti dà voce a un genetista dell’Università Cattolica e a un ginecologo del Policlinico «Gemelli» che da copione stigmatizzano la libertà di scelta della gravida. Il fatto è che la Linea Guida 20 avverte in apertura che le linee guida sono solo “raccomandazioni di comportamento” e che “possono [non debbono] essere utilizzate come strumento per…” (avantesto, I), e dunque non dispongono, ma propongono: i medici cattolici, volendo, potranno sconsigliare ogni diagnostica, anche tutte. Il Negrotti, invece, tende a mostrarsi ansioso come avesse sotto gli occhi vere e proprie vessazioni.
Non è tutto. L’articolo del Negrotti ha per titolo un proditorio “In gravidanza meno esami…”, che non corrisponde alla sostanza della Linea Guida 20, “… e più lavoro alle ostetriche”, che vi corrisponde ancor meno. In realtà, si raccomanda di razionalizzare gli esami diagnostici per classe di rischio e ci si limita a suggerire, come “raccomandazione alla ricerca”, di effettuare “studi clinici controllati per valutare l’efficacia dell’assistenza alla gravidanza fisiologica fornita da figure professionali diverse”.
E il lavoro del Negrotti è quello di informare.

domenica 19 dicembre 2010

Socialisti pre-craxiani e post-


“Non trovavo un posto dove Eluana potesse andare in pace – racconta Beppino Englaro – poi il mio Friuli mi ha dato una mano: i vecchi socialisti, Gabriele Renzulli, il senatore Ferruccio Saro, si sono prodigati” (Micromega, 2/2009). Si saranno prodigati perché ritenevano giusto che fosse rispettata la volontà di Eluana Englaro? In questo caso potremmo dire che ci sono ancora in giro dei socialisti pre-craxiani – calma, calma, mi spiego subito – di quelli come Loris Fortuna, laici, libertari, anticoncordatari.
Sui socialisti non si dovrà mai smettere di dire che Pietro Nenni votò contro l’art. 7 della Costituzione (Palmiro Togliatti a favore) e che Bettino Craxi firmò un Concordato di poco diverso da quello che firmò Benito Mussolini: voglio dire che, prima di Gennaro Acquaviva, di Luigi Covatta e soprattutto di Gianni Baget Bozzo, il Psi non era viziato ancora da quel pragmatismo che poi lo rese così sensibile ai bisogni del Vaticano, in primo luogo a quelli di natura economica. In campo laico – per ciò che “laico” può significare in questo caso – non è Giuliano Amato il primo a rimettere in discussione la legge 194? Il testo base era stato scritto da un socialista, Vincenzo Balzamo. E dunque, tornando a noi, Saro e Renzulli sono gli ultimi socialisti di un socialismo – adesso mi auguro sia chiaro cosa intenda dire – pre-craxiano?
Sul senatore Ferruccio Saro prenderemo informazioni, ma intanto possiamo dire di Gabriele Renzulli, d’intanto diventato direttore del Centro «La Quiete», proprio quello che ospitò Eluana Englaro perché fosse fatta infine la sua volontà. Lo leggiamo in un articolo (Avvenire, 19.12.2010 – pag. 7) che riporta quanto auspicato dall’arcivescovo di Udine, monsignor Andrea Bruno Mazzocato, al termine della Messa di Natale celebrata nella casa di cura diretta dal Renzulli: “Mi auguro che certi momenti drammatici d’ora in poi vengano risparmiati a Udine”, subitissimamente tranquillizzato dal Renzulli: “Questo è un luogo di fede, di speranza, di vita, dal primo all’ultimo istante”.
Si pone una delicata questione: in virtù di quale principio il Renzulli si era prodigato nel caso Englaro? Quello del favore personale dovuto a un compagno. E noi che pensavamo fosse un pre-craxiano.

Tutti a casa



 

Consigli per gli acquisti



“Dateci più di quanto ci dà Berlusconi e ve lo togliamo dai coglioni”

Ieri, Avvenire apriva con un editoriale a firma di Francesco D’Agostino (La riscoperta dell’etica) che sembrava una risposta all’editoriale a firma di Paolo Flores d’Arcais che aveva aperto Il Fatto Quotidiano di due giorni prima (Se Bagnasco fa politica). Quanto scrive D’Agostino merita una attenta lettura perché, con l’appoggio che Cei e Segreteria di Stato Vaticano hanno di recente dato al governo, fa valva della stessa cozza; e al primo colpo d’occhio va rilevato che la valva politica è toccata a un cardinale, quella dottrinaria tocca a un laico.
È Angelo Bagnasco, infatti, ad aver sottolineato l’esigenza di continuità e stabilità nella difficile crisi di sistema che fa dell’Italia un malato terminale, e l’ha fatto con un pressing neanche troppo nascosto su Casini perché l’Udc dia a Berlusconi i numeri necessari per durare, con ciò assestando un micidiale colpo a quei cattolici che dal centrosinistra implorano da sempre un intervento delle gerarchie ecclesiastiche contro il “corruttore morale della società e della politica” (Rosy Bindi – Ballarò, 14.12.2010); tocca a D’Agostino, invece, spiegare a Flores d’Arcais perché “il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano [sia stato] così santificato dal presidente della Conferenza episcopale”, e facendo ricorso alla dottrina.
Sembra strano? Non lo è. Da tempo le gerarchie ecclesiastiche sono attori politici e hanno delegato ai loro laici di fiducia la parte più seccante e fastidiosa della politica, che è quella di trovare argomenti alti a comportamenti bassi. Tocca a Fisichella coprire Berlusconi quando bestemmia e s’accosta all’eucaristia da divorziato, a Bertone premere su Casini, a Bagnasco mandare a cagare i cattolici del Pd, mentre il Papa ricorda che i laicisti sono pericolosi come i fondamentalisti islamici e che levare i crocifissi dai luoghi pubblici è come sgozzare cristiani a Mossul; tocca a D’Agostino, invece, spremere bignamini di Catechismo e Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa per dimostrarci che l’etica pubblica è cosa diversa dal moralismo che pretenderebbe di farsi ragione cristiana contro il peccatore pubblico.

Flores d’Arcais aveva scritto: “In uno dei passi più noti del Vangelo (Lc 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo «voi non potete servire Dio e Mammona», e in Italia non c’è nessuno che – con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati – abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà”.
Proprio perché “crede profondamente nell’esistenza e soprattutto nella necessità dell’etica pubblica” D’Agostino sente “il dovere di dissociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’adeguata consapevolezza teoretica”, e indubbiamente Flores d’Arcais ha degradato la faccenda a mera questione di prassi. Non sia mai: “L’etica pubblica, infatti, è esigente. […] Chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale”.

Un vescovo di quelli ipertiroidei sarebbe stato assai più “politico” e avrebbe evitato ghirigori. Ma D’Agostino è più chierico di un chierico e non si abbassa al “disse la vacca al mulo”: chiede coerenza in forma di contropartita, sicché la sola presa di posizione contro il “corruttore morale della società e della politica” parrebbe compatibile solo in una dimensione da Stato etico. Non che a D’Agostino dispiacerebbe, figurarsi, ma piacerebbe a Flores d’Arcais?
Si tratterebbe di rivedere il confine tra morale e diritto, tra pubblico e privato, anzi, “si tratt[erebbe] di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo «pubblico». La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma «il potere», per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è «pubblico» a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione «etica pubblica» resterà vuota di senso”.
Un prete – un vero prete – non avrebbe potuto dirlo meglio, anzi, probabilmente sarebbe caduto in qualche grossolana volgarità del tipo: “Avete voluto Machiavelli? E adesso pedalate: dateci più di quanto ci dà Berlusconi – fateci essere arbitri del pubblico e del privato – e ve lo togliamo dai coglioni”.


Postilla Luca Massaro mi segnala un articolo a firma di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 19.12.2010) del quale è utile riportare qui un passaggio: “Il primato della tattica del ventennio ruiniano della Cei ha ridotto l’educazione al confronto che aveva formato vescovi e laici perfino durante la guerra e ha trasferito sui movimenti il compito di rappresentare differenze di posizione e di appetiti: in compenso ha creato un reticolo di interessi fra esecutivo e istituzioni ecclesiastiche che ha alterato la linea scritta nel Concordato del 1984. […] Questo reticolo e la leggendaria abilità di Berlusconi nel creare bisogni nelle controparti l’ha fatto preferire agli altri e lo rende preferibile a «la chiesa» oggi che il governo potrebbe pretendere di attivare la legge elettorale per costruire la protesi parlamentare di cui ha bisogno. Dopo aver tenuta ferma la rotta sulla stella del Quirinale per molti mesi, «la chiesa» si ritrova così parte di una maggioranza che ricresce e dovendo pagare da subito un conto salato su quei terreni — le coscienze, l’annuncio, le anime, le esistenze, la verità — che sono la sua ragion d’essere. Qualche avvisaglia la si ha per ora nelle chiacchiere. Una figura di spicco dell’economia, poche settimane fa, diceva a un prelato italiano con inaspettata veemenza: «Io sono un laico e come tale sto sempre vicino alla Chiesa. Ma voi non vi vergognate dell’appoggio che date a Berlusconi?». E una feroce battuta di Francesco Cossiga (che pochi mesi prima di morire a un amico parlamentare dilaniato dai dubbi posti dal magistero sull’embrione diceva «e tu proponi di portare l’ 8 per mille a 8 e mezzo, e tutto s’aggiusta» ) dice quale sia il rischio che corre la Chiesa in questa situazione di stabile confusione. Rischi significativi di un disequilibrio al quale nessuno sembra poter o voler metter mano”.

sabato 18 dicembre 2010

Pagina bianca


[Come sempre, quando è di tanto che ci sarebbe da scrivere, si sta davanti alla pagina bianca senza sapere da cosa cominciare e non si scrive. È il cortocircuito della grafomania e al grafomane dà una sensazione assai sgradevole che in breve diventa intollerabile e spinge a soluzioni disperate come il tentare di mettere tutto assieme in poche righe. Naturalmente in quelle poche righe non c’è traccia leggibile dei temi che si voleva trattare, ma solo l’umore che muove la scrittura in mezzo ad essi. E di solito non è buonumore, tutt’al è più grasso sarcasmo, che non di rado cede al grottesco, perfino al macabro. Bisogna addirittura mettere nel conto l’eventualità di rinunciare anche a quelle poche righe e impacchettare il malumore in una citazione letteraria o musicale, che quasi sempre sembra eloquente solo a chi la sceglie. Dal troppo dover dire, e dal sentire di doverlo dire bene, si arriva al non dir niente o quasi: uno sberleffo, un’imprecazione, un lamento, anche mal riusciti, e l’unica costante è una lucida coscienza di impotenza. Non già a ordinare il mondo per mezzo della scrittura – immenso problema – ma anche solo a esprimerne compiutamente quel disordine che spinge a provarci, che arriva a prendere possesso degli individui e dei fatti dopo averli piegati fino a renderli intrattabili a ogni logica, dunque intrattabili agli strumenti dell’espressione. Si è sorpresi dall’inutilità del provarci: è un colpo che paralizza toccando il glomo più sensibile.
Oggi, per esempio, ci sarebbe da scrivere – e tanto – sugli spazi che la politica italiana – tutta, senza eccezioni – sta lasciando alla Santa Sede e alla Cei. È un indicatore – ritengo sia il più emblematico – dello sfacelo del paese e allora ci sarebbe da scrivere – e tanto – su ciò che l’ha posto in premessa. Già qui sta in agguato una prima vertigine: averne già scritto – e tanto – sicché siamo poi certi che repetita iuvant? E a chi? Si è ormai consolidata la convinzione – talvolta si è sorpresi a constatarla dove meno ti immagineresti di trovarla – che al paese non tocchi altro che il commissariamento ecclesiastico in una rinnovata sovrapposizione e coincidenza di Stato e Chiesa, come fu dal IX al XVIII secolo. Sudditi del mostro a due teste che ha sempre spezzato le ossa ad ogni illuso che sognasse per l’Italia un qualsiasi destino laico. Sarebbe meglio che qualsiasi parodia di Prometeo buttasse via il fegato in cirrosi: portare luce ai ciechi è inutile e rischioso. ]

Velázquez



[0:52] Sua Santità è in piedi e saluta gli acrobati, coprendone la vista al fido Georg, che per non perdersi tutto quel ben di Dio è costretto a sporgersi. Il suo sorriso è degno di un Velázquez.

venerdì 17 dicembre 2010

Buon giorno


In un sistema morale che condanni l’aborto senza eccezioni e che sia pienamente recepito dalla legge – per esempio, quella irlandese – col divieto assoluto di aborto (anche quando la gravidanza metta in pericolo la salute psichica e fisica della gravida), non c’è possibilità di scelta: crepare pur di non dannarsi l’anima è imposto. Una donna ha ottenuto giustizia presso la Corte di Strasburgo e dovrà essere risarcita per il rischio che le era stato imposto dalla legge irlandese, che adesso è chiamata a emendarsi ammettendo eccezione a un principio fin qui dichiarato inderogabile. Due sole possibilità sono ammesse: uscire dall’Europa o adeguarsi; difendere l’assolutezza del principio o no. Superfluo dire che, quando un principio smette di essere assoluto, mette in discussione il sistema morale che lo dichiara tale: questa sentenza è dirompente.


giovedì 16 dicembre 2010

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Ripetutamente



Arriva una risposta ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche a Rosy Bindi, che l’altrieri invocava l’intervento dell’autorità morale della Chiesa contro il “corruttore morale della società e della politica” (Ballarò, 14.12.2010). La risposta che le davo io, ieri, non era affatto dura: “continueranno ad appoggiare Berlusconi fino a quando sarà in grado di dar loro quanto chiedono”, scrivevo, e mi trattenevo dal quel “povera stronza” che è esplicito, oggi, nella risposta del cardinale Angelo Bagnasco. “Ripetutamente – fa notare Sua Eminenza a fine messa – gli italiani si sono espressi con un desiderio di governabilità e questo desiderio, espresso in modo chiaro e democratico, deve essere da tutti rispettato e da tutti perseguito con buona volontà e onestà”.
Se non riuscite a leggere il “povera stronza” nella risposta di Bagnasco, vuol dire che non avete confidenza col lessico delle gerarchie ecclesiastiche. Berlusconi ha stravinto le elezioni politiche del 2008, quelle europee del 2009, quelle amministrative del 2010 e nonostante tutto (per tutto è da intendersi proprio tutto) i sondaggi lo danno vincente in caso di elezioni politiche anticipate: fino a quando avrà il consenso degli italiani che lo vogliono premier, lo sarà. Visto che da premier non ha mai fatto uno sgarbo al Vaticano, perché il Vaticano dovrebbe volerne un altro?
“Corruttore morale della società e della politica”? Qui il Bagnasco si rivela assai più acuto della Bindi: Berlusconi è un prodotto della società e della politica, non è che l’italiano medio, appena più disinibito, appena più sfrenato, appena più compiaciuto di sé, della razza di peccatori che trovano simbiosi parassitata e parassitante con lo statuto antropologico del cattolicesimo, e perché dovrebbe star sul cazzo alla Santa Sede? A qualche vescovo, può darsi, ma si tratta dei vescovi ai quali la Santa Sede darà rilevanza se Berlusconi cadrà, quando cadrà: oggi sono liberi di parlare, ma solo fino a un certo punto, giusto per illudere i poveri stronzi del centrosinistra che c’è pure una Chiesa democratica” progressista”, ma in pratica non contano un cazzo. Quello che conta – sempre – è trarre il massimo utile possibile dalle congiunture storiche: è così che si diventa eterni oltre quelle. Chi non riesce a capirlo si sforzi, chi non vuole capirlo si adegui. 

Il più forte dolore di Rosy Bindi


“Oggi gli abbiamo dato una botta di assestamento non indifferente” (Ballarò, 14.12.2010 – 06:58-07:02), ma dal contesto è evidente che intendesse dire: “Oggi gli abbiamo assestato una bella botta”. Il lapsus rivela che Rosy Bindi è pentita di aver presentato la mozione di sfiducia, perché il fatto che sia stata respinta rafforza Silvio Berlusconi, ma vuol convincerci (e forse convincersi) che la cosa gli abbia inferto un colpo non da poco. E infatti questo lapsus chiude un argomento ingannevolmente consolatorio: “Dal punto di vista contabile, Berlusconi per due voti ha incassato la fiducia: non c’è dubbio. Ciò non toglie che è evidente – e su “evidente” la lingua le si inceppa – che questo governo non ha più una maggioranza politica”.
L’inganno sta nella suggestione, offerta con tono perentorio, che sia stato il voto a portare il centrodestra dai 340 deputati che aveva all’inizio della legislatura (Pdl 272, Lega 60, Alleanza per il Sud 8) ai 314 dell’altrieri: non è così, perché il voto ha solo registrato l’irreversibilità del processo che ha preso il via da Bastia Umbra, e rivelandolo non letale per il governo. Rosy Bindi pare voler eludere l’evidenza: le mozioni di sfiducia del Pd e dell’Idv facevano affidamento sui voti dell’Udc e dei finiani, e questi ultimi si sono rivelati meno dei previsti.
In tal senso le obiezioni poste da Paolo Mieli rimangono inevase, come giustamente rileva una breve nota de Il Post, ma il fatto è che Rosy Bindi non rivela solo il vizio del politico che non sa fare i conti con la realtà – con la damnatio che ciò comporta – ma anche quello del politico di ispirazione cristiana: “Il mio dolore più forte – lo voglio dire ancora una volta, visto che sono anche cattolica e credente – è che [manca] un appoggio da parte di qualcuno che quando questo è il corruttore morale del paese…”. Rosy Bindi invoca l’aiuto delle gerarchie ecclesiastiche, stupita e addolorata del fatto che Cei e soprattutto Segreteria di Stato Vaticana continuino a tenere aperta una linea di credito al governo.
Doppio errore: l’interesse prioritario della Santa Sede e dei vescovi italiani non è la morale pubblica: le gerarchie ecclesiastiche continueranno ad appoggiare Berlusconi fino a quando questi sarà in grado di offrire loro quanto richiesto; il politico che pensa di poter contare su una authority morale sovrapolitica che abbia categorie antecedenti e superiori alle logiche dell’utile non può pretendere che il proprio utile sia nelle logiche di quella authority. È il drammatico paradosso di ogni politico cattolico: contare sull’appoggio della Chiesa come authority sovrapolitica e vederselo negato per la priorità della ragion politica.


mercoledì 15 dicembre 2010

Il rientro è tipico


Quando un prete è accusato di aver abusato di un ragazzino, bisogna tener conto che quasi sempre non è vero: si tratta di una calunnia per diffamare il clero cattolico e attaccare la Chiesa, in odio al cristianesimo. Quando è vero, è ugualmente falso, perché chi abusa di un ragazzino è persona così abietta da non essere degno di essere prete, quindi in pratica non lo è. Anzi, da poco – meglio tardi che mai – a un prete che abbia abusato di un ragazzino, ma non sia stato capace di infrattarsi nella misericordiosa omertà dei suoi superiori, la Chiesa grida ufficialmente: “Tana!” e lo riduce allo stato laicale.
D’altro canto, per ridurre allo stato laicale un prete accusato di un abuso su minore bisogna provare l’abuso, e bisogna provarlo, com’è giusto, contro ogni tentazione colpevolista che si affidi interamente alle affermazioni del minore, che per definizione è immaturo e quindi sempre un po’ psicolabile, quando non è manovrato da un avvocato avido e un giornalista ateo. Poi ci sono i casi in cui il minore non merita alcun credito perché proprio quanto afferma esclude esservi stato abuso. Sarà stato un abusino, forse, ma vogliamo ingigantirlo al fine, neanche troppo nascosto, di delegittimare il prete come educatore e la Chiesa come educatrice? Per una dozzina di nerbate sul culetto – il giovane si ostinava a steccare Bach – vogliamo mettere in galera il direttore del coro? Vogliamo mettere in galera il parroco colpevole d’aver dato al chierichetto un bacio appena un po’ più appiccicoso di quello che gli avrebbe dato la zia? Ma vogliamo scherzare?
Poi ci sono i casi in cui l’accusa del minore è tanto inverosimile che neanche vale la pena di accertare se corrisponde al vero, perché c’è il rischio che l’indagine stressi il prete fino al suicidio, e questo non è bello. Infine, ci sono casi molto particolari, atipici, e solo impropriamente rientrano nella categoria degli abusi su minori da parte di un prete.
In quello che ci sta sotto gli occhi oggi, per esempio, l’accusato è prete, ma non lo era quando avrebbe commesso l’abuso. Di più, a quei tempi era minore pure lui, come la presunta vittima. Tutto sarebbe accaduto nella St. Paul’s Church di Jersey City, dove Keith Brennan sarebbe stato ripetutamente abusato da Keith Pecklers, quando avevano rispettivamente 14 e 17 anni. A far del caso una questione che riguarda comunque la Chiesa, tuttavia, non è solo il fatto che tutto sarebbe accaduto – se è accaduto – sotto gli occhi irresponsabilmente distratti di un prete che avrebbe dovuto accorgersene ed impedirlo, come spetta di dovere a qualsiasi adulto al quale siano stati affidati dei minori: qui, il prete che avrebbe dovuto farlo, tal Thomas Stanford, quando è stato informato dal Brennan, l’ha stuprato a sua volta e ha coperto il Pecklers.
Così coperto, il Pecklers si incamminò speditamente in carriera, prendendo la tonaca da gesuita e diventando in breve un apprezzato docente di Liturgia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e il Pontificio Istituto Liturgico «Sant’Anselmo». Autore di una decina di volumi, padre Pecklers è considerato un’autorità nel suo campo e c’è chi lo mette fra i frondisti che hanno storto il muso al Summorum Pontificum, il motu proprio che ridà lustro al messale di Pio V, dandogli patente di “progressista”.
Padre Pecklers non nega l’addebito di Brennan, ma si limita a farci notare che era troppo giovane per poter commettere gli abusi che gli sono addebitati. Rientriamo nell’ordine dell’assunto posto in incipit (quando un prete è accusato di aver abusato di un ragazzino, quasi sempre non è vero): il caso è atipico, ma il rientro è tipico. E qui viene meno l’assurda distinzione tra “tradizionalista” e “progressista” sulla quale molti laici si ostinano: nel cuore delle questioni centrali dell’esser prete, un prete è un prete.