martedì 4 gennaio 2011

Ad Assuntina brucia il culo


Assuntina Morresi scrive: “Brutto segnale, se a decidere sulle questioni eticamente sensibili – quelle della vita e della morte – sono i tribunali”. Si sta lamentando, sulla prima pagina di Avvenire, del fatto che “nei giorni scorsi il Tar della Lombardia ha dichiarato illegittime le linee guida regionali che precisavano alcune modalità di applicazione della legge 194”. In pratica, ad Assuntina brucia il culo: il cervellotico escamotage confezionato dai suoi amici ciellini per sabotare una legge dello Stato è stato dichiarato illegittimo dal giudice competente a esprimere parere dirimente. Le brucia il culo e lamenta: “Vuol dire che c’è un grave conflitto in corso, e che la politica deve intervenire con urgenza: solo chi rappresenta la volontà popolare infatti è legittimato a stabilire le regole del vivere comune, a maggior ragione su queste delicatissime tematiche”. E qui smetti di leggere.
Non s’era detto che nessuna maggioranza può mettere in discussione ciò che la superiore legge morale detta riguardo alla vita e alla morte? Non s’era detto – anzi, non s’era strepitato – che “sulla vita non si vota”? Possiamo forse dichiarare legittime tutte le decisioni che la volontà popolare prende sulle questioni eticamente sensibili? E se la volontà popolare sbaglia e non si esprime come si deve? Si tratta di tematiche che pongono in discussione principi non negoziabili, e allora di cosa discutiamo? Come ci azzardiamo a mettere ai voti cosa sia il bene e cosa il male, quando già tutto è scritto in una legge che sta prima e sopra l’uomo?
Domande retoriche: all’Assuntina è scappata una mostruosità. Tanto le brucia il culo che non si controlla e invoca ciò che, fuori dal contesto, sarebbe da stigmatizzare come errore che porta dritto all’indifferentismo etico che la dittatura della maggioranza... Brrr, non voglio neanche pensare ai rischi del mettere vita e morte della persona in mano alla volontà popolare. È che qui e ora la volontà popolare non esiterebbe a decidere come piace a lei, soprattutto se rappresentata da Roberto Formigoni. Non fosse così, strepiterebbe che vita e morte stanno solo in mano a Dio, e lì devono restare. Ma il culo le brucia e il bruciore la confonde.


C’è ancora molto da dire


I. C’è ancora molto da dire sulle violenze ai danni dei cristiani copti di Alessandra d’Egitto, sull’Anschluß di tutte le comunità cristiane non cattoliche e delle Chiese particolari locali che Benedetto XVI ha più che implicitamente dichiarato in Medio Oriente nel farsene rappresentante sul piano diplomatico, sulle reazioni del grande imam di Al Azhar che ha accusato il Papa di subdola ingerenza e di doppiopesismo ipocrita. Ho già detto delle questioni sollevate da queste prese di posizioni nel contesto di quella escalation di violenza che sta rimodellando entità e forma della presenza cristiana in terra musulmana; qui aggiungo, se non l’ho già fatto, che questo Capodanno è probabilmente destinato ad essere considerato un punto di snodo nella storia ultramillenaria delle relazioni tra mondo islamico e mondo cristiano, più della storica visita di Giovanni Paolo II alla Moschea di Damasco, più della storica lectio di Benedetto XVI a Ratisbona. Non credo di esagerare e con questo post cercherò di spiegare perché, dicendo da subito che qui, ad Alessandria d’Egitto, più che a Damasco in senso positivo e a Ratisbona in senso negativo, sono venute in superficie le questioni di “teologia politica” che sono in discussione nel mondo cristiano e in quello islamico a cavallo dei due millenni: seppur rapidamente dovremo citare il Concilio Vaticano II, il I Incontro interreligioso di Assisi del 1986 e la Dominus Iesus del 2000, arrivando a Damasco (2001) e a Ratisbona (2006), per averne chiaro lo sviluppo. Mi limiterò alle questioni di “teologia politica” in campo cristiano, anzi cattolico, ma quelle in campo islamico non saranno del tutto trascurate. Prima però sarà il caso di chiarire cosa intendo per “teologia politica” e lo farò servendomi, come ho già fatto, dell’impostazione data da Merio Scattola in Teologia politica (il Mulino, 2007).
“«Teologia politica» è un’espressione composta che può avere tre significati distinti, corrispondenti alle tre diverse relazioni possibili tra i due termini che la costituiscono. Se prevale in primo di essi, si genera una «politica della teologia» che rimane subordinata al dettame religioso e che, in determinati casi, aspira a realizzare una ierocrazia o una repubblica santa”.
Fermiamoci un istante: una «politica della teologia» è presente nel mondo islamico, ma non è assente in quello cristiano, dove la politica risulta non di rado subordinata a quel Bene sul quale il magistero cattolico dichiara piena e totale competenza, fino al punto da pretendere di far coincidere il Bene col Vero, la Carità con la Giustizia, sugli assunti di un dettame religioso che oggi si appella alla ragione non potendo più contare sulla forza. [Il concetto di laicità non ha senso nel mondo islamico, perché la società non può che costruirsi sul Libro: è l’ermeneutica del Libro che plasma la società e il legislatore è servo di Dio, senza che vi sia possibilità di contraddizione sul piano politico (almeno in via teorica) con l’essere suddito del Califfo. La storia dell’occidente cristiano, invece, si è consumata in un affinamento della teocrazia in egemonia culturale, che con la caduta dei suoi bastioni temporali ha portato alla crisi della sovranità sociale di Cristo, prima, e alla messa in discussione dell’autorità magisteriale. Tutto questo è stato possibile perché il Dio dei cristiani si è incarnato e ha accettato di addossarsi gli effetti del peccato originario per esigere gratitudine fino alla morte e fin dentro l’altra vita: era quanto implicava l’impossibilità di una coincidenza tra civitas Dei e civitas hominis, perfettamente realizzata invece della società musulmana eretta sul dettato coranico. Ma riprendiamo Scattola.]
“Se i due termini [«teologia» e «politica»] hanno forza uguale, avremo una riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico, cioè ordinante, implicato in ogni teologia”. Una diversa riflessione sul nucleo teologico della politica è evidente tra cristianesimo e islam, tuttavia è altrettanto evidente che mai come dal Concilio Vaticano II in poi c’è stato il tentativo, soprattutto da parte cattolica, di una riflessione comune finalizzata ad un asse di convergenza in opposizione alla “deriva secolaristica” indotta dalla modernità (o in essa coincidente). Potremmo dire che non s’era mai vista tanta attenzione all’islam da parte della Chiesa di Roma, e tuttavia assai ambigua sul piano teologico e su quello politico, dalla preghiera comune allo stesso Dio (ad Assisi e a Damasco), fino alla ricerca del “trialogo” tra i monoteismi, alla riaffermazione che extra ecclesiam è possibile solo l’errore (con la Dominus Iesus), fino alla configurazione di una inevitabile scontro di civiltà causato dalla irriducibilità della violenza intrinseca al Corano (a Ratisbona).
“Se infine – prosegue Scattola – predomina il secondo termine, viene prodotta una «teologia della politica», cioè una «teologia civile», alla quale si chiede di rafforzare il legame comunitario e l’ordinamento interno” (e io qui aggiungerei: anche di farsi ragione polemica offensivo-difensiva, con le reciproche accuse di usare Dio come strumento e fine di conquista: evangelizzazione e jihad, crociata e aspirazione al califfato mondiale, veluti si Deus daretur e Allah Akbar).
“In via approssimativa – conclude Scattola – si può dire che ai tre tipi di teologia politica corrispondono tre differenti estensioni del suo concetto, che infatti può essere inteso in senso ampio, in senso proprio e in senso speciale”. E qui – anche qui in via approssimativa – li abbiamo rappresentati per il cristianesimo e per l’islam.
Possiamo passare ad identificare “in senso proprio”, e per il solo campo cristiano, quel “nucleo teologico della politica” che porta il pensiero di Joseph Ratzinger a farsi causa di guai seri per mettere un freno all’indifferentismo sulla vera verità che sta soltanto nel Credo di Nicea. Dovremo parlare della Dominus Iesus.

II. Sfrondiamo, sfrondiamo quanto è possibile: “La missione universale della Chiesa nasce dal mandato di Gesù Cristo […] Al termine del secondo millennio cristiano, però, questa missione è ancora lontana dal suo compimento. È per questo più che mai attuale oggi il grido dell'apostolo Paolo sull'impegno missionario di ogni battezzato: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9,16). Ciò spiega la particolare attenzione che il Magistero ha dedicato a motivare e a sostenere la missione evangelizzatrice della Chiesa, soprattutto in rapporto alle tradizioni religiose del mondo. […] La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. […] La pratica del dialogo interreligioso non sostituisce, ma accompagna la «missio ad gentes»…”.
Qui dobbiamo fermarci: come possono stare insieme, senza contraddizione, la missio ad gentes e il sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che in molti punti differiscono da quanto la Chiesa crede e propone? Come si conciliano il mandato proselitario fino in capo al mondo, dunque anche in partibus infidelium, con la tolleranza dell’errore nel quale si ostinano gli infideles? C’è un punto in cui deve necessariamente cadere una delle due cose: o l’impegno missionario di ogni battezzato, che l’infedele sente come crociata (e il cristiano non cattolico come campagna papista), o il rispetto dell’altrui errore, che il battezzato sente come tradimento del mandato.
Ecco come è risolta la questione dalla Dominus Iesus: “Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso […] [sulla base di] alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata. […] Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo”. La questione è risolta col ribadire che “deve essere fermamente creduta la dottrina di fede […] refutando interpretazioni erronee e riduttive”. Ti rispetto, ma è fuori discussione che tu abbia torto e io ragione. Scusami, ma non posso lasciarti nell’errore, Gesù mi ha comandato di farti cambiare idea e battezzarti. Ripeti insieme a me: Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto”. E con ciò abbiamo chiarito fino a che punto sono nella possibilità di rispettarti. Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes. La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali [...] La Chiesa dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo”.
Potrebbe anche funzionare, tutt’è trovare in partibus infidelium degli infideles disposti a farti fare, tutt’è trovare musulmani che non siano saldi nella loro fede come tu lo sei nella tua e siano disposti a farti evangelizzare il loro pezzo di terra. Prova e metti in conto che il tuo “rispetto” per la loro fede possa non essere recepito come tale. Di poi, tenuto conto di quanto abbiamo detto sulla “teologia politica”, prova a spiegare bene a un musulmano che intendi per civitas Dei e per civitas hominis, e prova a convincerlo della bontà delle tue intenzioni prima di offrirgli il battesimo. Prendi la Dominus Iesus e leggigli lentamente, scandendo bene: “La missione della Chiesa è di annunciare il regno di Cristo e di Dio e di instaurarlo tra tutte le genti; di questo Regno essa costituisce sulla terra il germe e l’inizio. Da un lato, la Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell’unità del genere umano; essa è quindi segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e ad instaurarlo”.
C’è rischio di essere scambiato per un colonizzatore? Fagli capire che sei pronto al martirio. E metti in conto che anche loro non temano la morte. Buona evangelizzazione, ci risentiamo quando c’è da contare i morti.

III. Dal momento in cui Giovanni Paolo II lo fa prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ambiguo e scialbo professorino, che s’è fin lì fatto notare solo come acuto chiosatore di teologi che al suo confronto rimarranno sempre dei giganti, comincia a costruire una dottrina della teologia politica possibile alla Chiesa dinanzi alla modernità e alla minaccia che essa arreca ai sistemi dei saperi tradizionali. Ho usato il plurale, ma bisogna tener conto che per Ratzinger questi sono tutti in uno. Romano Guardini gli ha fatto capire che la Patristica è il laboratorio che ha prodotto teologia, ma anche progetto di società: una civitas hominis nella quale ogni sapere sia sorvegliato dalla fede e ogni agire sia dettato da un magistero. Non solo: i Padri hanno fornito i Dottori di uno strumento per legare Dio e società in reciproco rapporto di necessità. In modo molto ellittico potremmo dire che questo modello di teologia politica comincia a mostrare seria difficoltà quando la cifra monarchica di questa teologia politica perde sostegno storico con la caduta delle monarchie e l’avvento delle democrazie: solo in questo punto la dottrina cattolica perde l’aderenza sulla società che per secoli è stata cogente ed è qui che si crea una bolla, un embolo, che può ischemizzare un organo del “corpo mistico del Cristo vivente”, cioè della Chiesa.
Quid agendum? Trattare col mondo, facendo almeno finta di voler dialogare, o arroccarsi in una sterile testimonianza di fedeltà all’ortodossia, fidando nella semina del sangue martire? Perdere centralità per farsi più forti a latere o rimanere al centro per indebolirsi sempre più? Falso problema, per Joseph Ratzinger, che davanti al bivio fa una scelta triviale: “La forma istituzionale della Chiesa è parte essenziale della fede. Ma le istituzioni possono vivere solo se sostenute da convinzioni fondamentali comuni e se esiste un’evidenza. Il fatto che questa evidenza non sia pacifica è la vera ragione della crisi attuale della Chiesa. […] È per questa ragione che le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo se si legano a una lotta seria, convinta, per una nuova evidenza delle opzioni portanti della fede” (Joseph Ratzinger - 30giorni, II/2000). [Per dire: se Giuliano Ferrara avesse letto questa cosuccia nel 2000, non sarebbe diventato ratzingeriano, perché un ateo devoto non rientra nello schema ratzingeriano di teologia politica. In altri termini: il (veluti si Deus) daretur è solo un assaggino, poi viene il datur ed è scostumatezza rifiutare.]
La controversia tra tradizionalismo e progressismo in ambito ecclesiologico è sterile e insignificante perché lo è in ambito cristologico: a quel Cristo che arriva a noi da Nicea non può che corrispondere una categoria che supera tradizionalismo e progressismo. Questo Cristo si è incarnato in un processo geopolitico che ha reso la cristianità (e l’Europa, suo portato geografico) l’espressione del mandato apostolico, cioè di evangelizzazione, ma anche di inculturazione del cristianesimo, e quindi anche di missione extra-europea, di colonizzazione, di presa del possesso di roccaforti ed enclavi, di marcatura dei territori (il sangue dei martiri come l’urina dei cani) perché, a naso, quella cittadina in India, quel quartiere di Lagos, quella piazza di Alessandria d’Egitto siano cristiani per diritto del nome (il nome dei santi come stradario dell’ecumene). L’ambiguità di Ratzinger e il suo perenne osare e ritrarsi sono da riconsiderare in questo sistema di teologia politica. Per darne una visione il più possibile corretta occorre citare alcuni brani di una conferenza tenuta da Joseph Ratzinger ad Hong Kong nel 1993, che ha un incipit assai simile a quello della Dominus Iesus di 7 anni dopo.
“Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere”. E tuttavia Cristo è re di tutte le genti. “La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno”. E tuttavia è dichiarato l’obbligo di quel bisogno. “Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana”. E grazie al cazzo, potremmo dire, ma poi ci ricordiamo questo vorrebbe essere un post serio. Vabbe’, ormai è fatta, proseguiamo.
“Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica”. Mi pare già chiarissimo, ma se non lo fosse: “In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna. Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina”.
Avete già intuito dove si va a parare? Bravi, tra poco dirà che non si può dare piena libertà ai cristiani senza consentire loro di convertire. Non fossero molesti e arroganti, uno potrebbe pure consentire, ma avendo una fede e una cultura con analoga “missione mondiale” non finisce inevitabilmente a botte? Poco male: prenderle in missione matura meriti.
Teologia politica: “I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità”. Se la Verità è Una, non possiamo immaginare giusto il mondo che non la proclami e non la contempli. “Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di inculturazione, ma di incontro di culture o interculturalità […] Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono. Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede”. L’eccezione, naturalmente, conferma la regola.
“La fede cristiana è certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio. La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità. Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto”. Di sillogismo zoppo in sillogismo strabico, si arriva a legittimare il paradosso: il dialogo ha per fine la conversione, sennò è inutile, addirittura può risultare dannoso, perché contaminante.

IV. Sempre dalla conferenza di Hong Kong: “I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le loro endemiche filosofie della religione”. Inutile sottolineare che il cristianesimo sia una di queste: la più forte endemia subita dai popoli del Mediterraneo. “L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto”: non avrai altro Dio fuorché me e io sarò il tuo Dio, sicché l’errore sarà sempre e solo altrui, e ti autorizzerà su mio mandato a correggere quanti siano in errore; dove poi Dio non c’è (allontanato o ucciso), tu lo farai vivere tramite te e darai l’annuncio che è il solo, vero, buono e giusto Re. Ti è concesso non mostrarti troppo monarchico, via.
“La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma”: in meglio, naturalmente, se la conversione è al cristianesimo; in ottimo, se è al cattolicesimo. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,29), gli altri sono idoli: “Questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione. […] Nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella dualità delle nature. Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth”. Se non avviene anche l’inverso, non è Logos; e a Ratisbona aggiungerà che il Dio dell’islam “non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”, che dal Logos trae strumenti.
Ed è sulla base di questi assunti che dovrebbe aprirsi un dialogo con le altre fedi: ogni concessione in deroga allontanerebbe dal Logos. Dite se voi se questo Logos non debba a stare almeno un pochino sul cazzo ai musulmani, e al punto da farli diventare illogici, cioè irragionevoli. E lì si ha la prova del nove: Allah non è il vero Dio, perché ispira atti violenti a chi lo idolatra come vero Dio; quindi, i musulmani sono in errore; il loro Allah è un errore. Funziona? Può funzionare? Dando per scontato che l’incipit del vangelo di Giovanni sia da leggere come lo leggeva Agostino, sì, senza dubbio. E a Ratzinger tanto basta. Prego, cari figlioli musulmani, dialoghiamo, ma partiamo dal presupposto che il Logos assiste i nostri argomenti e i vostri siano irragionevoli. Vi va?
Questo modello di teologia politica agisce (come dicevamo nel primo paragrafo di questo post) come «politica della teologia» subordinata al dettame religioso, come criterio che informa la riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico che esso implica e come «teologia civile» chiamata a rafforzare il legame comunitario: la conversione informa il senso ampio, quello proprio e quello speciale dei termini che sono mobili da questa all’altra civitas. La salvezza si immanentizza, ma non si esaurisce nell’immanenza; la logica dell’uomo si fa specchio del trascendente, ma non ne racchiude (e come potrebbe?) la ragione: la fede sta lì per questo e sigilla il tutto. Non vi è venuta una gran voglia di dialogo? E allora siete bruti.
Già tutta in nuce nella conferenza di Honk Kong, la Dominus Iesus sembra tuttavia rivolta soprattutto ai fratelli maggiori (ebrei) e ai fratelli minori (cristiani riformati), tenendo un po’ da parte musulmani, indù, buddhisti, ecc. Arriva dopo Assisi (1986), ma poco prima di Damasco (2001), che precede Ratisbona (2006). Qualcuno penserà che dopo le aperture di Giovanni Paolo II, peraltro più formali che sostanziali, Benedetto XVI voglia farsi cappellano dello scontro di civiltà. Non è così e deluderà parecchi ingenui malintenzionati che vorrebbero ridurre la fede a storia, cultura e morale, che per Ratzinger sono un guscio vuoto senza che dentro Cristo vi si muova nella pienezza della sua pretesa, rappresentata dal magistero petrino. In questo senso, per esempio, molti atei devoti storceranno il muso sulla questione della Turchia nella Comunità europea, prima osteggiata dal cardinale Ratzinger e poi, almeno ufficialmente, non più osteggiata da Benedetto XVI; la lectio di Ratisbona ecciterà molti lepantisti, che poi saranno delusi dalle affannate rettifiche, precisazioni, limature, fino a vere e proprie scuse; e molti teocon, che avevano investito molto sulle possibili implicazioni politiche del termine composto “giudaico-cristiano”, rimarranno di sasso alle dichiarazioni di Benedetto XVI nel suo viaggio in Terrasanta; la batosta finale sarà nel riservare a questi entusiasti un “cortile dei gentili” come anticamera, in attesa della piena conversione.
Raccoglierà poco successo, l’idea di un’alleanza col mondo islamico contro la modernità: è da subito evidente che, stanti i prerequisiti di parte cristiana (ma anche di parte islamica) a un dialogo interreligioso che non si esaurisca nell’interculturale, è impossibile una base di accordo. Lo stesso Ratzinger è costretto ad ammetterlo, anche se in modo assai cauto, in Luce del mondo (LEV, 2010): “Sappiamo di essere impegnati oggi in una lotta comune. Abbiamo in comune, da un lato la difesa di grande valori religiosi – la fede in Dio e l’obbedienza a Dio [ma si tratta di un Dio diverso, di un diverso modo di intendere la fede, di una diversa forma di obbedienza: tutti ostacoli insormontabili per un dialogo che dovrebbe avere come fine ultimo la conversione dei musulmani al cristianesimo] – e dall’altro la necessità di trovare una giusta collocazione nella modernità. [Ci si annusa,] vengono affrontati i seguenti interrogativi: che cosa significa tolleranza? Qual è il rapporto fra tolleranza e verità?”. Ma nessuna delle due parti può concedere una tolleranza che accetti l’altrui verità come verità altra di un solo Vero: per cristiani e musulmani “il rapporto fra tolleranza e verità” non può essere che di conflitto (armato da parte dei musulmani più intolleranti). “A questo – prosegue – si collega anche la domanda se della tolleranza faccia anche parte il diritto a cambiare religione. Questo è un aspetto che gli interlocutori islamici riconoscono con difficoltà. Chi è giunto alla verità, si dice, non può più tornare indietro”. Ma non è così anche per un cristiano? Voilà, l’interlocuzione è bloccata in entrambi i sensi.
Ma c’è di più. A Peter Seewald che gli chiede: “Non è passato molto tempo da quando i Pontefici consideravano loro compito difendere l’Europa dall’islamizzazione: a questo riguardo il Vaticano ha cambiato totalmente politica?”, Benedetto XVI risponde: “No. Sono le situazioni storiche ad essere cambiate”. E tuttavia “importante è trovare ciò che abbiamo in comune”. Sia lecito considerare che è proprio ciò che hanno in comune i cristiani e i musulmani – la pretesa che la verità sia una e appartenga solo agli uni, tenendo gli altri nell’errore – a rendere impossibile il costruirci sopra una qualsiasi politica comune, per quanto episodica: la teologia politica non è sola politica, non può curare interessi comuni che non siano fondati su una comune verità, e infine Benedetto XVI è costretto ad ammettere che “non possiamo certo fonderci”. In realtà, ne avevamo avuto il sospetto.
[Vorrei qui citare un interessante intervento di Fabio Brotti: “Perché islam e cristianesimo possano convivere pacificamente occorrono delle condizioni precise. Penso che la storia lo dimostri in modo inconfutabile. La condizione prima è che la comunità cristiana o quella musulmana debbono rappresentare, nel territorio dato, una piccola minoranza. La condizione seconda è che in quel territorio esista un potere sovrano forte e deciso, e non democratico. In qualsiasi Stato debole o democrazia ove esistano una comunità musulmana forte e una comunità cristiana anch’essa forte, lo scontro interreligioso sarà sempre inevitabile. Non conosco alcun caso di convivenza pacifica tra due comunità altrettanto forti e dedite ad un intenso proselitismo. […] Ovunque […] differenti religioni siano convissute in pace, lo hanno sempre fatto sotto un potere formidabile” (Brotture, 4.1.2010). Manca solo un rilievo che forse è implicito in quel “formidabile”: ritengo che alla “piccola minoranza” debba essere concessa una tolleranza proporzionale alla sua insignificanza, ma il fatto è che anche piccole minoranze cristiane o islamiche intenderanno sempre la loro libertà come diritto di fare proselitismo. E quando questo miete frutti, per quanto esigui siano, la maggioranza li avvertirà come un pericolo.]
[segue]

lunedì 3 gennaio 2011

Senza pudore, probabilmente nella convinzione di essere brillante





Signor sceicco


[Lo sceicco Ahmed El Tyeb, che è una delle più alte autorità dell’islam e da nove mesi ricopre la carica di grande imam di Al Azhar, ieri stava per essere linciato al Cairo da una folla di cristiani inferociti, intenzionati a vendicare le vittime dell’attentato terroristico che un gruppo vicino ad Al Qaida – al momento è l’ipotesi più verosimile – ha compiuto ad Alessandria d’Egitto, lo scorso 31 dicembre. Si è salvato per miracolo, pare, ed è questo che ieri mi faceva riflettere su quanto sia difficile per i cristiani mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori.
Scampato al linciaggio, Ahmed El Tyeb si è trovato sotto gli occhi un’agenzia con le parole pronunciate da Benedetto XVI poche ore prima, all’Angelus, e – saranno stati i nervi – gli sono sembrate un atto di ingerenza, almeno così ha detto. Da italiani abituati alle prolusioni del cardinal Ruini, ieri, e del cardinal Bagnasco, oggi, ci sarebbe d’obbligo un grande vaffanculo al grande imam: se due paroline di cordoglio sono ingerenza, come dovremmo definire i diktat della Cei? Tuttavia – vedrete il perché – merita un altro trattamento.]

Est modus in rebus, signor sceicco: abbia maggior cura dei termini che usa e scelga meglio i suoi argomenti. Lei ha chiesto: “Perché Benedetto XVI non ha chiesto la protezione dei musulmani quando venivano massacrati in Iraq?”. Perché non era ancora lui, il papa, e comunque il suo predecessore non restò zitto, né nel 1990, né nel 2003, mentre l’allora cardinale Ratzinger sosteneva che “non esistevano motivi sufficienti per scatenare una guerra contro l’Iraq” (30giorni, IV/2003).
Se non erro, signor sceicco, lei ha detto meno di un anno fa: “The Qur’an […] states unequivocally that if God has willed to bring just one religion, one creed, one color of skin, or one language, He would’ve done so, but in fact He has not willed it so; instead, He willed divergence to continue to the end of time. […] As consequence of the divergences that God has willed for mankind, religions and doctrines must also diverge and must remain divergent, until God inherits the earth and whatever is on it. Thus we can safely say that doctrinal divergence is both a Qur’anic and a universal truth. Indeed, no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself. If such be the case, then the relationship of the Muslim to the non-Muslim is one of seeking to know each other or to learn about each other”.
Questo le fa onore, sa? Lei è quello che qui da noi chiamiamo “musulmano moderato”. Con la sparata fatta ieri contro Benedetto XVI, però, lei corre il rischio di sembrare l’energumeno che non è, facendo apparire lui il mite che non è. Metta a confronto la sua tolleranza con la Dominus Iesus: perché passare dalla ragione al torto?

“Il perenne annuncio missionario della Chiesa – scriveva Ratzinger – viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso”, che è proprio quello al quale lei invece sembra accordare consenso sulla base di quei “presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che – per Ratzinger – ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata”. Non c’è paragone: lei è una personcina a modo e Ratzinger è un fottuto fanatico, perché invertire i ruoli?
Lei sostiene che “no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself”, e invece Ratzinger ha scritto che “le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità [alle quali] tuttavia non può essere attribuita l’origine divina e l’efficacia salvifica”, sicché “i seguaci delle altre religioni […] oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici”.
Rispetto a un integralista del genere, signor sceicco, lei ci fa una figura da galantuomo: perché buttare tutto al cesso? Solo perché quelle furie cristiane volevano ficcarle un crocifisso su per il culo? Via, si calmi.

Comicità protesica



La comicità basata sullo stravolgimento della lingua può essere occasionale (come era in Totò, per esempio, che di tanto in tanto storpiava un termine, per lo più colto, aulico o – già allora – desueto, per godere nel vederlo – e far godere nel mostrarlo – degradato in uno sgorbio buffo, talvolta mostruoso) oppure essere continuo (sull’errata pronuncia di un termine o su un suo doppio senso, sugli errori grammaticali e sintattici, sull’acciaccamento del lessico, vuoi alto, vuoi basso) e allora trae efficacia dall’invenzione di una specie di neolingua che in fretta diventa la cifra del comico, che così finisce per diventare strumento della sua stessa invenzione (se i testi sono i suoi).
Ne abbiamo visti tanti, di questo secondo tipo – fittissime sequenze di strafalcioni e fraintesi, di tempi e modi verbali pressoché anarchici e di doppiette anacoluto-pausa, di frasi dalla demenza surreale o di luoghi comuni stravolti (quasi sempre scivolando nella maniera) – e quasi tutti negli ultimi due o tre decenni: da Frassica a Bergonzoni, dai Fichi d’India ad Albanese, da Banfi a Zalone, molte neolingue, molto manierismo.
Questo tipo di comicità esige uno sforzo inversamente proporzionale al risultato: l’inaudito e l’estemporaneo hanno spesso efficacia dirompente, il meditato e il collaudato annoiano presto, quasi sempre (e perdono spontaneità, che poi è grave ipoteca su tutti i tipi di comicità).
[Sì, confesso che non mi piace affatto questo tipo di comicità. Mi pare troppo protesico e nelle protesi non scorre mai sangue.]

Zalone, per esempio, cioè Luca Medici. Per quanto ancora potrà continuare a strapparci quel sorriso che certifica la nostra compiaciuta soddisfazione nel trovarci culturalmente e moralmente superiori ai suoi coatti tanto sguaiati (però dalla disarmante innocenza animale)? Tra poco avranno dignità di citazione e ci supereranno in caratura iconica.
E per quanto tempo potrà riproporci – in parodia – la precipua fenomenologia del cantante imitato? Già Vendola si sforza di aderire il più possibile all’imitazione e tra poco l’imitatore si troverà senza più neolingua, scippatagli da Vendola: sarà vero teatro – o cabaret – dell’assenza, e Zalone sarà esiliato in qualche genere serio. Fine.

Due o tre cose


Quest’anno parleremo molto dell’Unità d’Italia, sicché da subito conviene dire due o tre cose che a mio parere non possono e non devono restare sottintese, come vorrebbe chi ha interesse a che siano deliberatamente eluse, per essere meglio rimosse o, peggio, mistificate. Vorrei legarle tutte in una – e vedrete che non è solo per comodità espositiva – nel pensiero di uno di quei tizi che fu fra i primi ai quali scappò detto un “noi italiani”. Più d’uno, in verità, perché parlo di Niccolò Machiavelli e dei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), dove l’Italia non è più solo mito, come in Dante o in Petrarca, ma storia e – più di tutto – questione politica. Qui, infatti, l’Italia è detta “provincia divisa”, e nella divisione è inteso un limite, posto a tutti e a ciascuno come impedimento a farsi nazione. È in questo limite che la nazione resta irrealizzata ed è oltre questo limite che invece supera – eccede – l’insieme di quanto è dato come etnico, geografico, linguistico, ecc. Possiamo dire che l’Italia si comincia a intravvedere quando infine – e finalmente – si postula il primato della politica sulla morale, e quello della volontà sul carattere. In Machiavelli la nazione non è destino, tantomeno è incarnazione di un narrato mitologico, forse non è nemmeno nostalgia dell’antica Roma come è parso a molti: l’italiano che non c’è – quello del quale Machiavelli lamenta la mancanza – non è l’erede dell’impero che fu smembrato dai barbari, ma è la prefigurazione del cittadino nel suo primordiale stadio di suddito. La polis è superata, la foederatio l’assorbe e la proietta in Stato.

So bene che per certi versi questa lettura di Machiavelli sembrerà “troppo moderna”, ben oltre la modernità che il suo pensiero ha contribuito a fondare. Tuttavia penso che su Machiavelli pesi un pregiudizio: si dice che nel suo pensiero non vi fosse posto per la morale, ma il fatto è che per “morale” si intende “morale cristiana”, mentre si trascura il fatto che una morale regge la sua costruzione, ed è quella precristiana (se si vuole, pagana). “La nostra religione [il cristianesimo] ha glorificato più uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra [se si vuole, il paganesimo] lo poneva nella grandezza d’animo e nella fortezza del corpo e in tutte le cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra [quella cristiana, da intendersi come “religione che ci ha reso tali qual siamo”] richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vedere, adunque, pare che abbia renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare vedendo come l’universalità degli uomini per andare in paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle”. Qualche dubbio su chi siano gli “uomini scelerati”? Un aiutino? Il termine si trova anche nei Ricordi di Guicciardini, col quale Machiavelli ebbe molto a conversare, e qui compare quando si parla della “caterva di scelerati preti”. Il cristianesimo e i suoi propagandisti – gli “scelerati preti” – come veri nemici della nascita di un’Italia unita.

Il mai dimostrato assunto che la grandezza degli italiani sia in relazione alla particolare coincidenza di Stato e Chiesa sulle vestigia dell’antica Roma è interamente ribaltato: “Poiché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno ripugnanza [cioè non possono essere contestate]. La prima è che per gli esempi rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione […] Abbiamo adunque colla Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obbligo di essere diventati senza religione e cattivi”. La religione della Chiesa romana come corruttrice dell’antica morale e come impedimento ad ogni nascere di religione civile. “Ma di obbligo ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa […] Non essendo adunque stata la Chiesa potente da occupare la Italia né avendo permeso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo ma è stata sotto più principi e signori dai quali è nata tanta disunione e debolezza che la si è condotta a essere preda, non solamente dei barbari possenti ma di qualunque l’assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri”. E qui, volendo, si possono saltare a pie’ pari tre secoli e mezzo, dal 1519 arrivare al 1861 o al 1870, e trattare dell’“obbligo” che infine si risolse con quel “metro cubo di letame” (come affettuosamente lo chiamava Garibaldi) che dai tempi di Machiavelli, e da molto tempo prima, sedeva sul Soglio Pontificio a tenere la “provincia divisa”.

domenica 2 gennaio 2011

Sto aspettando



Oh, ha citato il Sermone 34 del suo Agostino, uno dei suoi sermoni più belli... E poi ha detto che “la bella musica è in grado di esprimere qualcosa del mistero dell’amore di Dio per noi e del nostro per Lui”... Oh, sfavillante sineddoche. Ci conferma che Ratzinger è davvero uno coi coglioni: uno teologico, l’altro liturgico... Poi ha ricordato ai ragazzini che il loro canto è un servizio e ha paragonato il loro coro a quello degli angioletti in cielo: oh, quanto è sensibile, ’sto Papa, e quanto è delicato...

Sto aspettando che uno stronzo qualsiasi dei nostri vaticanisti – dei nostri lo sono quasi tutti, non aspetto invano – si strugga nel consueto esercizio di sdolcinato servilismo laudatorio, stavolta a commento del messaggio che Benedetto XVI ha rivolto alle voci bianche della Federazione Internazionale dei Pueri Cantores, giovedì scorso. Neanche il più lontano cenno al fatto che per secoli il Papato tenne bianche quelle voci con la castrazione, quanto scommettiamo?


Si potrebbe dire


Pare che il Riformista perda in un sol colpo la direzione di Polito e la proprietà di Angelucci. Non fosse già morto da un pezzo per colpa di entrambi, si potrebbe dire: che culo!


E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci


Il Motu proprio per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario del 30 dicembre è stato accolto per lo più con grande favore: si è parlato di “serietà e impegno” (La Stampa), di “trasparenza” (Corriere della Sera), di “Mani pulite in Vaticano” (il Giornale), e c’è chi ha scritto che ora “il Vaticano non è più un paradiso fiscale” (Il Sole-24 Ore), che “il Papa ha chiuso i cancelli del paradiso fiscale” (Libero) e che da oggi in poi “basta misteri” (Il Secolo XIX), il Papa impone norme antiriciclaggio” (Il Tempo). È davvero così? Basta leggere il documento per capire che in pratica non cambia niente e che è davvero esagerato parlare di “una rivoluzione” (Ansa). Tutto sta nel cogliere la differenza troppo spesso trascurata tra Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. In pratica, col Motu proprio, la Santa Sede si riserva il controllo delle operazioni finanziarie e monetarie dello Stato della Città del Vaticano, e si impegna a far propri i principi e gli strumenti giuridici dei quali la comunità internazionale si è già dotata da tempo. Sì, molto bene, ma in ultima analisi quale autorità sorveglierà sui sorveglianti? Quis custodiet ipsos custodes? Il Papa. E non potrebbe essere diversamente, perché è il Papa che assume nella sua persona il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. La legge CXXVII dello Stato della Città del Vaticano che il Papa firma il 30 dicembre, e alla quale fa richiamo nel Motu proprio, è una sua emanazione, come l’Autorità di Informazione Finanziaria contestualmente costituita lo è sul piano esecutivo, come gli organi deputati a esercitare una eventuale azione penale lo sono su quello giudiziario: il Papa si dà delle regole, si fornisce dello strumento per rispettarle e si riserva di darsi sanzione nel caso vengano violate. E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci, anche se è una evidente presa per il culo.

Dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede

Discutendo sui cattolici perseguitati in Cina, abbiamo messo in evidenza il fatto che “non sono fatti oggetto di persecuzione in quanto credenti, né in quanto cristiani, né in quanto seguaci della dottrina cattolica”, ma “perché riconoscono come loro vescovi solo quelli nominati da Roma, disconoscendo quelli nominati da Pechino” e abbiamo sollevato obiezione a Benedetto XVI che ha definito tutto ciò una “limitazione della libertà di religione e [addirittura] di coscienza”. Ci è d’obbligo, ora, parlare dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede. Non già di cattolici ai quali lo Stato scippa la libertà di avere vescovi d.o.c., imponendo loro il solo ma insopportabile giogo dell’obbedienza a una gerarchia diversa da quella vaticana, non apostolica ma di partito: parliamo di cristiani (anche non cattolici) perseguitati e uccisi per il solo fatto di essere cristiani, per lo più da musulmani.
È il caso dell’orribile strage di copti ortodossi in Egitto, ieri, e delle deprecabili violenze ai danni dei metodisti dell’Associazione cristiana in Nigeria e dei cristiani della Chiesa Caldea in Iraq, a Natale. [En passant, è da segnalare il fatto che non si tratta di cattolici apostolici romani, ma che il Papa ne lamenta la persecuzione come fosse ai danni di membri della comunità sulla quale vanta “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale” (Codice di Diritto Canonico, can. 331), includendovi dunque anche i cristiani che non riconoscono tale autorità nell’ambito della “Chiesa universale” come promanazione di Cristo. Si tratta di una forzatura ecumenica che si traduce in una ulteriore ma assai più sottile violenza ai danni dei cristiani non cattolici – o ai cattolici di rito non romano – perseguitati dai musulmani: annessi come martiri di una fede che per tanti aspetti (ecclesiologici, ma anche cristologici) non è da essi pienamente condivisa.]

Superfluo dire che l’uso della forza è una costante di tutti i conflitti interconfessionali ed è da condannare sempre: non potremmo soffermarci, come qui facciamo spesso, su quella che Karlheinz Deschner ha giustamente definito Kriminalgeschichte des Christentums senza essere sensibili in egual misura ai crimini commessi in nome dell’islam. Superfluo dirlo, ma diciamolo lo stesso, a scanso di ogni equivoco: bruciare un uomo – un cataro del XIII secolo, un templare del XIV secolo, un ebreo del XV secolo, un nolano del XVI secolo, una strega nel XVII secolo, ecc. – è cosa brutta e non si fa.
Le ragioni principali sono due. La prima, di natura religiosa, vieta all’uomo di compiere violenza sul suo simile, in quanto creatura di Dio; c’è tuttavia da segnalare che sul concetto di simile c’è (o c’è stata) sempre controversia in ogni confessione religiosa, con la tendenza a restringerlo all’ambito dei simili per fede. La seconda, di natura umanistica, allega alla vita umana un valore sacro (non necessariamente trascendente: il sacro può non essere riflesso del divino, ma del primato umano sul mondo) e che perciò può essere negato al simile che sia identificato come nemico dell’umanità; anche qui non è raro constatare controversia, però sul concetto di umanità.
Ci sarebbe una terza ragione, capace di sanare ogni controversia: per quanto possa essere diverso da me, per quanto diversa dalla mia possa essere la sua idea di umanità, nessun uomo può essere bruciato: né in nome di Dio, né in nome dell’umanità. Trattandosi di assoluti, Dio e umanità tendono infatti a eliminare i relativi e quasi sempre finiscono col non farsi scrupoli nel ricondurre il molteplice all’unità. Questa terza ragione rigetta il fondamento totalitario che è nelle altre due e trae argomento dal diritto intenso come convenzione tra diversi che si danno uguale regola, in libera e responsabile autodeterminazione. In virtù di tale ragione nessun Dio e nessuna idea di umanità possono porre una ipoteca sulla convenzione, che così non può essere data come universale né eterna, e perciò non può sacrificare l’individuo a un assoluto.

Anche qui dobbiamo sollevare obiezione a Benedetto XVI, che su questi ultimi episodi di violenze a danno di cristiani si è così espresso: “Assistiamo oggi a due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza” (Angelus, 1.1.2011).
L’obiezione è data dal fatto che solo nella sfera privata gli assoluti possono avere piena dignità: in quella pubblica hanno tendenza a generare conflitti che sono sempre violenti, anche quando non cruenti. A farne le spese sono sempre i più deboli e così è stato per un lungo tratto della storia del mondo cosiddetto cristiano. Non si è ancora spenta l’eco dei papi che condannarono chiunque rifiutasse la piena obbedienza alla loro autorità morale e sociale: sul piano storico è assai prematuro chiedere all’islam ciò che al cristianesimo è riuscito solo tardivamente e con grande difficoltà. Parrebbe, insomma, che a lamentare i morti di queste ultime settimane abbiano più titolo i cosiddetti laicisti che il Papa.
Si tratta di vittime cristiane, ma non solo: sembra che anche stavolta sia stato difficile mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori e che sia in Egitto che in Nigeria a violenza sia stata opposta violenza, anche se di minore entità per la considererevole sproporzione di forze in campo.


sabato 1 gennaio 2011

venerdì 31 dicembre 2010

[...]



Passeggere: Mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Venditore: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere: Ecco trenta soldi.
Venditore: Grazie, illustrissimo: a rivederla.

giovedì 30 dicembre 2010

Un altro giornale-partito





Boh


Aruba è un internet service provider che prende il nome dall’isola caraibica sulla quale è ambientato lo spot che pubblicizza i suoi prodotti. Non può esservi sfuggito: è quello che apre sul primo piano di una ragazza che dice: “Benvenuti in Aruba!”, poi lento zoom indietro a mostrare una serie di armadioni rack zeppi di server, piantati su una bianca spiaggia da sogno… Ecco, io continuo a non capacitarmi della scelta: la sabbia e la salsedine non dovrebbero essere micidiali insidie per quelle delicatissime apparecchiature? E tu, signor Aruba, dove vai a piazzarmi il gioiellino?

Dopocena


Ogni libertà – anche quella che l’individuo esercita sulla sua proprietà privata – deve darsi un limite nel rispetto dell’altrui libertà: nessuna teoria può dirsi liberale immaginando tali differenze tra individui da generare ingiustizia sociale. Non già perché l’ingiustizia sociale sia moralmente deplorevole, ma perché contraddice il fine ultimo di una società pienamente liberaldemocratica (dunque liberata da ogni condizionamento della morale) che è il massimo utile per il massimo numero di individui. E tuttavia, dinanzi a un vero e proprio ricatto come quello che la Fiat pone ai suoi dipendenti, quale soluzione può dirsi liberaldemocratica? Ritenere che gli operai debbano cedere al ricatto o farsi tentare dal filoperaismo di Gobetti? Andare oltre e dichiarare legittime, in casi come questi, le azioni di tipo luddistico?
Dice: le macchine sono mie e, se voglio, devo poterle trasferire a Cracovia o a Tirana? D’accordo, ma se io ti garantisco che prima te le distruggo, sei più liberaldemocratico tu o io?


“l’hobby di dio”


Un commento anonimo a un post qui sotto mi ha dato molto da pensare. Ambiguo, laconico e fuori tema – “l’hobby di dio” (tutto in minuscolo, non una parola di più) – mi è parso poter essere puntuale, eloquente e pertinente, come una specie di insulto, in qualche modo meritato. L’avrei fatto scivolare via con noncuranza – mi sarei detto d’averlo frainteso – se non fosse che ieri sera ho dovuto compilare una lista di “opere che reputi necessarie per iniziare a studiare la Chiesa da un punto di vista storico-scientifico”, chiestami via email da un lettore, e mi sono reso conto di ciò che già sapevo, ma che è stato doloroso constatare: da due decenni e più, quasi tre, ho una lettura ossessivo-compulsiva, pressoché monotematica anche se il tema è infiltrato in ogni dove: insomma, coltivo una mania, mi diletto di un vizio: ho “l’hobby di dio”.
Fosse un mestiere, avrebbe senso anche da ateo, ma come dopolavoro che mi significa? Ho trovato una risposta, ma non avrebbe senso senza aver prima detto del commento di Berlicche a due articoli su La Stampa di ieri (Le amnesie dei cattolici in politica di Gian Enrico Rusconi e I cristiani e il peccato colonialista di Vittorio Emanuele Parsi): nell’obiezione a Berlicche c’è la risposta che mi sono dato. Sarò breve, nei limiti del possibile.

Parsi scrive: “Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, […] la religione cristiana viene […] strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico […] Una tale identificazione assoluta […] è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalistici e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato”. Io penso che qui Parsi volesse scrivere “geopoliticamente”, ma sia stato trattenuto da un pudore – diciamo – ruiniano.
Oltre: “L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni”. Qui Parsi non lo scrive, e chissà se lo pensa, ma lo dico io al posto suo, mettendomi nei suoi panni: “Tutto questo sbatterci per ricristianizzare l’Occidente e cosa ce ne viene in cambio? Che ci bruciano vivi in Asia e in Africa”. Parsi si limita a scrivere: “Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo e l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione”.

Questo articolo sembra ingenuo – ripeto: sembra – perché sembra ignorare che due religioni potenzialmente universali sono rivali di fatto, prim’ancora che nel portato culturale (cioè politico), in quello confessionale (cioè teologico). Non è ingenuità, quella di Parsi: in solido ai tentativi della Santa Sede di mediare con l’islam un’alleanza contro il secolarismo (cioè la modernità), lamenta l’incompenetrabilità degli incompenetrabili, in pratica Parsi e la sua Chiesa piangono perché non riescono a fottere. Un professorone del suo livello non può ignorare che, a cimentarli l’uno con l’altro, degli highlanders (cioè dei monoteismi) “there can be only one”: lamenta che al cristianesimo non sia data questa opportunità dove le sue radici sono “oggettivamente evidenti” e le sia preclusa dove non lo sono affatto, anzi, dove vi è traccia solo del portato geopolitico che si è espresso col colonialismo. A Parsi pare sfuggano le linee strategiche e tattiche dell’inculturazione cristiana nei paesi extra-europei. Non è ingenuità: è malafede.

Poco da dire su ciò che scrive Rusconi, tranne il fatto che come al solito è chiaro e onesto. Una sola cosa, che poi è quella ripresa da Berlicche: “una constatazione” che a Berlicche sembra “quasi un avvertimento”. Rusconi scrive – lo dico come l’ha letto Berlicche – che “se i cattolici vogliono contare in politica, il fatto religioso nella politica non deve entrarci”.
Questo entrarci – che in Italia, almeno dal 1985 in poi, ha avuto il segno del ruinismo, cioè della reconquista arcigna – è quello che è intollerabile, e si resiste come si può: qui, in Occidente, con la forza degli argomenti; con la violenza, dove gli argomenti supportano solo la stessa violenza che è in ogni monoteismo. Se qui in Occidente ci si limita alle “pallottole di carta” come le ha chiamate Ruini, irridendole, è solo perché si ha coscienza che di più non è lecito: alla violenza del monoteismo cristiano, che ormai si esprime solo nella pretesa di una morale universale, eterna, trascendente e non negoziabile, che in passato non si è mai fatto scrupolo di imporre con la forza temporale e che oggi non ha smesso di imporre con quanto gliene è residuato, si oppone la nuda ragione, depurata da ogni ipoteca che la fede pretenderebbe di imporle. Dove il rifiuto della pretesa cristiana non è depurato da ogni fede, ma anzi prende quella che ha a disposizione e la brandisce come un’arma, è difficile far differenza tra attacco e difesa: “there can be only one”, e tutto è lecito. E un ateo davvero non riesce a far differenza tra un Dio e un altro: tutti ugualmente sanguinari, o sgozzano tra urla e schizzi o vampirizzano dolcemente svenando. Sempre sangue umano è.

Poi ci sarebbe una questioncella: se e quanto il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico”. Ma qui sarebbero necessarie pagine e pagine. Poi ci sarebbe ancora da dire due parole sulla foto scelta da Berlicche per fortificarci nella certezza che in Pakistan e in India, in Iraq e in Egitto, in Sudan e in Nigeria, i cristiani vengano bruciati vivi: foto di carbonizzati, da fidarsi siano cristiani (neanche vado a controllare in rete, ci credo, ci credo). Qui è tutto più semplice: i cadaveri carbonizzati si somigliano un po’ tutti e basta far finta che quelli della foto siano tutti ebrei mandati al rogo dal XIV al XVII secolo (i musulmani lo fanno con quei 6 secoli di differenza che li fa più giovani dei cristiani), tranne quello in primo piano, che invece faccio finta sia Giordano Bruno – e capisco l’ardore teologico di tutti i monoteismi.
Che obietta, Berlicche, all’articolato de La Stampa? “Il cristianesimo, in quelle terre, è di gran lunga più antico delle ideologie di coloro che cercano di distruggerlo. Maometto, nella sua resistibile ascesa, di seguaci di Gesù che stavano lì prima di lui ne accoppò parecchi. […] È chiaro che questa storia del colonialismo è una scusa, un costrutto ideato da chi vuole vedere versato quel sangue per poi, nella migliore delle ipotesi, lavarsene le mani. Da chi maschera la ferocia dell’odio accusando la vittima di colpe immaginarie. E che è molto più presente qui, sui nostri media, che là, dove le stesse pietre parlano in modo diverso”.
Se e quanto – qui – il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico” è in bella evidenza: la teoria (costrutto culturale) che il Medioriente sia cristiano da ben prima di diventare musulmano (6 secoli) non è declinazione dell’assunto (messaggio teologico) che il tuo Dio sia antecedente a tutto? Ma gli dei precolombiani che Pizarro rimpiazzò con la Santa Trinità non le erano antecedenti? Non erano radicalmente autoctoni alle Americhe? Inti e Quilla possono dirsi di gran lunga più antichi dell’ideologia di Gesù e Maria che li ha distrutti per mano gesuita? E a cosa può servir loro, ora, che lo si riconosca?

Per chi è riuscito ad arrivare fino a qui, eccoci a spiegare questo mio “hobby di dio”. La mania che coltivo, il vizio col quale mi diletto, è questo Dio del cazzo che ormai sta tutto nella costruzione psicologica, culturale, politica – antropologica – che s’è eretta addosso e che ormai abita come fantasma. E dunque l’hobby è della storia, eventualmente dell’architettura.


lunedì 27 dicembre 2010

D’istinto


“Si tratta di polpette avvelenate che hanno come
obiettivo quello di intaccare la credibilità di Libero?”


L’ipotesi che siano andati a raccontare balle a Belpietro per smerdargli la testata non si può escludere del tutto, almeno in via teorica, ma che c’è più da smerdare? Libero è già da tempo un giornale di merda, forse da sempre. L’ipotesi che le balle se le sia inventate lui, invece, è già più verosimile, ma solo se si accoglie quel pregiudizio che Belpietro non ha mai scoraggiato, ma anzi ha costruito e consolidato sulla sua persona e sul suo stile professionale. C’è una terza ipotesi, la più inquietante, che però nessuno ha finora preso in considerazione: l’editoriale di oggi è un depistaggio anticipato.
Un attentato a Fini sarebbe realmente in programma, e realmente potrebbe essere stato deciso da soggetti vicini a Berlusconi ma, col mettere in giro la voce che invece sarebbe una messa in scena organizzata dai finiani o dallo stesso Fini per trarne un qualche vantaggio alla vigilia delle elezioni politiche di primavera, si prepara il terreno a insinuare, a cose fatte, che Fini è morto perché qualcosa nella finzione è andato storto e il ferimento, che doveva essere lieve, è poi risultato letale.
Con l’editoriale di oggi, insomma, sarebbero poste in essere – insieme – un’intimidazione, se l’attentato non abbia ad esser messo in atto o sì per poi fallire, e una falsa pista, nel caso che si attui e ottenga l’esito voluto. In tal senso non è necessario che Belpietro stia giocando un ruolo attivo, anche se al momento è troppo presto per capirlo: è probabile, anzi, che davvero qualcuno gli abbia rivelato quanto oggi riferiva nel suo editoriale e che, pienamente consapevole o meno di farsi strumento del piano, si sia mosso a fare la sua parte, come al solito, d’istinto. L’istinto del servo che capisce al volo, senza che il padrone debba aprire bocca.

«Primogenito di molti fratelli»


Nell’omelia tenuta la notte di Natale – nel punto in cui ha spiegato come debba correttamente leggersi il «primogenito» che sta scritto in Lc 2,7 – Benedetto XVI ha dato prova esemplare di cosa sia quell’esegesi teologica che definì essenziale al Sinodo della Parola del 2008, quando richiamò “attenzione ai rischi di un’esegesi esclusivamente storico-critica” e ribadì che “non ha fondamento un’esegesi che non sia teologica”: “La conoscenza esegetica – disse – deve intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture”. In pratica, la Bibbia deve esser letta in modo da non entrare in contraddizione con la dottrina e, se la dottrina vuole che Gesù sia figlio unigenito di Maria (sennò cadrebbero due o tre dogmi), «primogenito» non può affatto significare che abbia avuto fratelli: “Luca qualifica il bambino come «primogenito». Nel linguaggio formatosi nella Sacra Scrittura dell’Antica Alleanza, «primogenito» non significa il primo di una serie di altri figli. La parola «primogenito» è un titolo d’onore, indipendentemente dalla questione se poi seguono altri fratelli e sorelle o no”. In pratica, bisogna chiudere un occhio su tutte le altre fonti – testamentarie (1) e non testamentarie (2) – che parlano estesamente di fratelli e sorelle di Gesù (3); e il termine «primogenito» dovrebbere essere inteso in questo senso: “Ci viene detto: Egli è il primogenito di molti fratelli. Sì, ora Egli è tuttavia il primo di una serie di fratelli, il primo, cioè, che inaugura per noi l’essere in comunione con Dio. Egli crea la vera fratellanza – non la fratellanza, deturpata dal peccato, di Caino ed Abele, di Romolo e Remo [sic!], ma la fratellanza nuova in cui siamo la famiglia stessa di Dio. Questa nuova famiglia di Dio inizia nel momento in cui Maria avvolge il «primogenito» in fasce e lo pone nella mangiatoia. Preghiamolo: Signore Gesù, tu che hai voluto nascere come primo di molti fratelli, donaci la vera fratellanza”. Se si rifiuta questa lettura dei vangeli, si incorrerebbe nei “rischi di un’esegesi esclusivamente storico-critica”; se la si accetta, tutto ok, si è letto come si deve. Non so a voi, a me viene da sorridere.
Tutto qui? Non tutto. Nel riportare sul suo sito il testo dell’omelia, Sandro Magister sceglie per titolo l’espressione «Primogenito di molti fratelli», facendo così propria, del tutto acriticamente, l’esegesi teologica rifilataci da Benedetto XVI, senza una sola nota in calce, come se la questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù non fosse altrimenti risolvibile che nel modo suggerito dal Papa. Qui il sorriso mi si trasforma in una smorfia amara.




(1) Il già citato Luca: “Maria diede alla luce il suo figlio primogenito” (Lc 2,7), che poco oltre scrive: “Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli annunciarono: «Tua madre e i tuoi fratelli son qui fuori e desiderano vederti»” (Lc 8, 19-20). Poi Marco, in due passaggi: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano»” (Mc 3, 31-32); “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” (Mc 6, 3). Altre due volte in Matteo: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre ed i tuoi fratelli che vogliono parlarti»” (Mt 7, 46-47); “Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?” (Mt 13, 55-56). E due volte in Giovanni: “Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e là si fermarono solo pochi giorni” (Gv 2, 12); “Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne; i suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e và nella Giudea…»” (Gv 7, 2). Poi, negli Atti degli Apostoli: “Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1, 14); e ancora in Paolo: “In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo attesto davanti a Dio che non mentisco” (Gal 1, 18-20). Per tacere dei vangeli apocrifi, naturalmente.
In realtà, anche in Matteo era presente un «primogenito» prima che fosse espunto, non più di una ottantina di anni fa. Nel Novum Testamentum Graece et Latine secundum Matthaeum si legge: “Non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum et vocavit nomen eius Iesum” (1, 25), che implica peraltro una conoscenza carnale di Maria da parte di Giuseppe dopo la nascita del primogenito. Orrore!  Ed ecco che nella editio princeps del 1971 tutto è sterilizzato in un tranquillizzante senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”.

(2) Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa, che per Benedetto XVI è da considerare “l’esponente più qualificato della cultura cristiana del suo tempo in contesti molto vari, dalla teologia all’esegesi, dalla storia all’erudizione” (Udienza, 13.7.2007), nella sua Historia Ecclesiae scrive: “Egli comparve a Giacomo, uno dei fratelli del Salvatore” (I, 12, 5); “In quel tempo Giacomo, fratello del Signore, figlio di Giuseppe…” (II, 1, 2); “Giacomo, fratello del Signore, succedette all’amministrazione della Chiesa insieme con gli apostoli” (II, 23, 4); “Giuda, che era fratello carnale del Salvatore...” (III, 19, 6);  “Della famiglia del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, suo fratello secondo la carne…” (III, 20, 1).

(3) Sul punto si è spesso opposta l’obiezione che ai tempi di Gesù, in Galilea, il termine fratello equivalesse a quello di cugino. Il fatto è che questo vale per l’aramaico, ma i vangeli sono scritti in greco e qui si parla di αδελφοι (fratelli), non di εξαδελφοι (cugini). C’è chi ha provato a sostenere che si trattasse di fratellastri, figli di Giuseppe nati da un precedente matrimonio con una Maria di Cleofa che però sarebbe ancora viva quando Giuseppe prende in moglie Maria, madre di Gesù. Giuseppe bigamo? Orrore! [Sulla questione si consiglia la lettura di David Donnini (Cristo, una vicenda storica da riscoprire, Erre Emme Edizioni 1994) e di Robert Eisenman (James, the brother of Jesus, Faber and Faber 1997).]