lunedì 14 febbraio 2011

Sanjust



“Non siamo moralisti. Pinocchio è una delle
forme in cui si attua l’esattezza dell’errore”
Giorgio Manganelli (Paese Sera, 11.3.1978) 

A scanso di fraintendentimenti, premetto che quanto segue è solo una sintesi di quanto nell’ipotesi di un reato (abuso d’ufficio) che il Tribunale dei ministri non ha ritenuto dimostrabile nella condotta di Silvio Berlusconi. Non già la “vera storia”, dunque, ma solo il costrutto paranoico di un tizio che si è ritenuto abusato dal nostro Presidente del Consiglio, ma a torto. Estraggo questa “falsa storia” da un articolo di Peter Gomez e Marco Lillo (Decreto SanjustL’espresso, 10.7.2008), ma devo precisare che il testo originale non la dà per vera.
Faccio seguire brani da un articolo di Marco Travaglio (Caso Sanjust, Berlusconi esce indennel’Unità, 2.2.2009) che dà notizia dell’archiviazione. Qui chiamo l’attenzione del lettore sui virgolettati del dispositivo del Tribunale dei ministri.
Buona lettura, a dopo.

“Tutto inizia il 29 settembre 2003, quando il premier va in tv per illustrare il suo progetto di riforma delle pensioni. Ad annunciare il suo intervento è Virginia Sanjust, 26 anni, tre lingue parlate fluentemente, e alle spalle una famiglia di attrici (la madre è Antonellina Interlenghi) e di aristocratici romani. In quei mesi Virginia, che pure è separata, dorme spesso nella grande casa di Campo de’ Fiori che il marito [Federico Armati, dipendente del Sisde] ha preso in affitto dalla Banca di Roma e dove vive loro figlio. Berlusconi appena vede Virginia in tv le invia un mazzo gigante di gardenie e rose, accompagnato da un biglietto gentile: «Un debutto storico a reti unificate evviva e complimenti». Poi la invita a colazione a Palazzo Chigi. Dopo il pranzo con Letta e Tremonti, […] il discorso scivola su soldi e lavoro. Virginia ha qualche difficoltà economica, Berlusconi però la trova professionalmente capace e bellissima. Immediatamente le annuncia l’intenzione di farla entrare tra i portavoce di Palazzo Chigi. Convoca un segretario e fa prendere gli estremi del suo curriculum. Il decreto è pronto per la firma di Letta: «Il presidente del Consiglio dei ministri [...] vista l'esigenza di avvalersi della collaborazione della signora Virginia Sanjust di Teulada in qualità di esperto, nell’ambito dell’ufficio stampa [...] decreta: è conferito l’incarico di esperto per il periodo 20 ottobre-31 dicembre 2003. […]». […] Il premier accompagna il regalo pubblico con uno privato: un bracciale di brillanti di Damiani. I problemi nascono nel febbraio del 2004, quando Il Messaggero scrive: «Berlusconi ha proposto a Virginia di diventare la donna immagine di Forza Italia». Segue un’interrogazione parlamentare e una smentita. La notizia è imprecisa. Palazzo Chigi corre comunque ai ripari. Il decreto […] viene ritirato: un autista del Cavaliere si fa consegnare da Virginia la copia in suo possesso. L'annunciatrice, d’altro canto, non ne ha più bisogno. In Rai sta facendo carriera: è stata appena promossa a conduttrice del programma Oltremoda. E anche per lo 007 le cose si sono messe bene. Il 13 novembre 2003 il Sisde lo ha promosso. Virginia, in quei mesi, vive un mondo da favola: vede spesso Berlusconi, riceve regali su regali (a volte in denaro), e per contraccambiare prepara collezioni di cd musicali per lui. La ragazza però ha un problema: è affascinata dal mondo della new age, frequenta guru e comunità pseudo-religiose sparse tra Asia, America e Italia. […] Armati non vede di buon occhio la svolta mistica dell’ex moglie, è preoccupato per il suo stato di salute e per le troppe telefonate del Cavaliere. Nega il permesso al figlio di andare con la madre in una comunità piemontese. Nel braccio di ferro però c’è una novità: Armati è sempre stato la parte forte della coppia (ha un lavoro da 4.500 euro al mese, una casa, una famiglia solida alle spalle, un padre magistrato) e ora si ritrova improvvisamente debole. La ruota gira: il 20 marzo 2006 lo 007 è trasferito dal Sisde alla Cassazione. Lo stipendio crolla a 1.700 euro al mese. Il 30 marzo 2006 deve prendere servizio alla Corte e usa i dieci giorni rimasti per reagire contro chi, forse a torto, ritiene sia il mandante del trasferimento. Il 21 e il 28 marzo incontra la moglie e le chiede di intervenire su Berlusconi perché, se non fosse rimasto ai servizi segreti, avrebbe presentato una denuncia contro di lui rivelando anche il rapporto tra il Cavaliere e la Sanjust. […] [Le dice:] «Tutto deve essere fatto entro giovedì 30 marzo perché altrimenti denuncio tutto». Berlusconi si rabbuia. […] A 24 ore dallo scadere dell’ultimatum la questione si sistema. «Nella mattinata del 29 marzo 2006 – scrive Armati – sono stato convocato dal capo del personale del Sisde il quale mi rendeva noto che era stata richiesta la mia professionalità al Cesis». […] Lo stipendio di Armati è salvo. L’onore di Berlusconi anche. […] I rapporti tra Berlusconi e Virginia Sanjust […] continuano almeno fino all’estate [2007]”.
“Silvio Berlusconi esce indenne da un altro processo: quello aperto a suo carico dal Tribunale dei ministri di Roma per «abuso d’ufficio e maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità» (cioè per mobbing) ai danni di un agente del Sisde, Federico Armati […] Il 26 gennaio i giudici […] hanno archiviato il caso, accogliendo le due richieste avanzate dal pm il 13 febbraio e il 6 novembre 2008. Il processo era proseguito nonostante la legge Alfano, che copre soltanto i reati contestati alle alte cariche dello Stato al di fuori dell’esercizio delle funzioni, ma non quelli «funzionali». E il Cavaliere era indagato, appunto, per aver abusato del suo potere in veste di capo del governo. Secondo i giudici, «la notizia di reato a carico del Presidente del Consiglio in carica all’epoca dei fatti, Berlusconi Silvio, deve ritenersi nel suo complesso infondata o comunque non supportata da idonei elementi atti a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio di merito, per cui ne va disposta l’archiviazione». La motivazione, logicamente faticosa e scritta in un italiano incerto, lardellato di errori grammaticali e sintattici, dichiara dimostrata soltanto la «stretta relazione intrecciata» dal Cavaliere con Virginia, peraltro ormai stranota da quando i giornali pubblicarono la denuncia di Armati. […] [Il dispositivo di archiviazione motivava in questo modo:] i trasferimenti di Armati furono siglati da Mori, Del Mese e Letta (peraltro «delegato dal premier»), e non da Berlusconi, anche se costoro erano «in linea puramente teorica influenzabili» dal Cavaliere. […] È vero che Berlusconi visti i suoi legami con la Sanjust, poteva aver interesse ad assecondarne i capricci; ma la nuova legge sull’abuso d’ufficio gli avrebbe imposto di astenersi dal decidere sull’ex marito della donna solo «in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto», appartenente alla sua «cerchia familiare, nella quale non può essere ricompresa anche la persona che, sebbene priva di legami parentali col pubblico ufficiale, abbia con quest’ultimo instaurato uno stretto legame». […] Ergo, il Tribunale dei ministri «dichiara non doversi promuovere l’azione penale nei confronti di Berlusconi Silvio»”.
Reati diversi – abuso d’ufficio nel caso Sanjust, concussione nel caso Ruby – ma stesso movente, stessa dinamica – almeno in ipotesi – nello scavalcare gli ostacoli per arrivare alla fica e nel riparare i guai fatti. Cosa vieta di ritenere che la filosofia assolutoria che ha trionfato nel caso Sanjust non possa trionfare anche nel caso Ruby?

Devo al lettore un altro dato: Federico Armati non è stato denunciato da Silvio Berlusconi per calunnia dopo l’archiviazione della sua denuncia, né dalla Presidenza del Consiglio, e nemmeno il Tribunale dei ministri ha provveduto d’ufficio in tal senso. In palese evidenza di una notitia criminis – non è una domanda retorica – non era un atto dovuto? Per l’onore di Silvio Berlusconi e della Presidenza del Consiglio non è stato fatto alcunché da alcuno?

  

domenica 13 febbraio 2011

"Vogliamo il Berlusconi del 1994!"



Nel 1994 – come rammentava Emilio Fede (o:23-0:29) – Silvio Berlusconi vinceva anche “contro chi gli consigliava – in amicizia – di non fare questo passo”. Il riferimento dovrebbe essere a Gianni Letta e a Fedele Confalonieri, ma ci sarà chi gli consiglierà – in amicizia – di accontentarsi di fare il sindaco di Milano, ed è lo stesso che oggi urla: “Vogliamo il Berlusconi del 1994!”. “Spiacente – meriterebbe in risposta – ma io vinco solo quando non seguo i vostri consigli”.

sabato 12 febbraio 2011

In mutande ma vivi




La prossemica ci insegna


Potremmo ragionare del mutanda-party di Ferrara come evento politico, ma due autorevoli penne ci invitano a considerarlo come episodio di una anamnesi psicologica, pagina di un caso personale, eventualmente artistico, sennò clinico: “evento epico e ironico”, per Pietrangelo Buttafuoco (In ondaLa7, 12.2.2011), performance coatta a “fare quello scomodo che non siete voi che non mi invitate alle feste perché sono un bambino grasso, sono io che sono teppista e non voglio giocare con voi”, per Guia Soncini (guiasoncini.com, 12.2.2011). Due teste così belle – detto senza ironia – non possono che vedere giusto, tanto più che conoscono bene Ferrara per averlo avuto come direttore per diversi anni, e tuttavia sembrerebbero dare giudizio divergente. Solo in apparenza, perché dicono la stessa cosa. Dicono che la politica in Ferrara è solo epifenomeno di un carattere, inteso in senso casuistico o in senso apodittico, come malattia o come destino. Se è così, l’omone non sarebbe da discutere ma solo da riguardare. Bene, io penso che si tratti di visione riduttiva: la tipica visione del troppo-da-vicino.
La prossemica ci insegna che c’è una distanza intima (da 0 a 45 centimetri), che è quella tra congiunti; una personale (da 45 a 120 centimetri), che è quella tra amici; una sociale (fino ai 3 metri e mezzo), che è quella tra conoscenti che abbiano frequentazione abituale; ed una pubblica (oltre i 3 metri e mezzo), che è quella delle relazioni in cui è d’uso il lei. Ecco, io penso che di una persona si vedano molto bene alcune cose a una distanza personale, ma alcune sono sfocate rispetto a come appaiono a una distanza pubblica; e penso che Buttafuoco e Soncini soffrano di questo difetto di messa a fuoco. Vedono giusto: Ferrara è una figura tragica e un bambinone molto disturbato, ma è anche altro, e assai di più. Non è il pensatore che si ritiene, ma non è solo una maschera della nostra commedia dell’arte.
A distanza ottimale credo che si tratti – e col mutanda-party mi pare che si sia avuta ampia conferma – del migliore interprete del triste pessimismo del reazionario che è la causa del problema del quale vanta di essere l’unica soluzione: Ferrara è tutto nel suo rapporto verso il potere come violenza necessaria che fonda una ragione tautologica ed autoreferente, nel senso che è l’incarnazione del sofisma che regge la logica di quella ragione.


No education


“Il figlio del chitarrista dei Pink Floyd David Gilmour è stato incriminato per l’attacco alla Rolls Royce del principe Carlo durante le proteste degli studenti a Londra il 9 dicembre” (ansa, 11.2.2011).

Ellissi (andata e ritorno)


Avvenire ha mandato in pagina, venerdì 11 febbraio, ampi stralci della prolusione che monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, aveva tenuto a Messina, quattro giorni prima, in occasione della «Settimana Teologica 2011» della diocesi siciliana: 12.681 battute (spazi inclusi) su un totale di 35.126, con una operazione sul testo originale che, all’occhio ingenuo, può apparire delinquenziale. In pratica, i tagli stravolgono il senso della prolusione, ma l’ingenuità sta nel credere che ad Avvenire interessasse riportare in modo fedele quanto detto da Sua Eccellenza o, di più, che adesso Sua Eccellenza possa dirsene crucciato. Niente di tutto questo: monsignor Crociata non avrà nulla da ridire, anzi, non c’è dubbio che avrà approvato lo stravolgimento del testo, o addirittura lo avrà stravolto lui stesso, allo scopo. Non resta che spiegare com’è stata lavorata la prolusione e perché.

[No, aspettate, stavolta non vi frantumerò i coglioni e sarò leggero. Tanto leggero da volteggiare in un’ellittica.]

Fate finta che l’umana società sia lo scompartimento di un treno che deve andare da A a B in un x di tempo. Lo scompartimento è pieno, e c’è chi vorrebbe dormire, chi vorrebbe leggere, chi vorrebbe star lì sovrappensiero nei cazzi propri… Poi c’è quello che si sente in dovere di ravvivare l’ambiente parlando ad alta voce, cantando, chiamando al coro, pretendendo l’attenzione generale, per fare piena comunione.
Forse la sua cattiveria non è conscia, anzi, a chiedergli di non disturbare, s’immalinconisce, mette musetto, s’atteggia a vittima, t’accusa di volergli tappare la bocca, segno che odi il buonumore e la socievolezza, insomma – chiudiamo l’ellittica – sei laicista, nemico della libertà religiosa, intimamente asociala. Perché egotista. In quanto senzadio.

[Rifacciamo l’ellissi all’incontrario?]

Uno dei passi che Avvenire ha tagliato al testo originale di monsignor Crociata, che a mio modesto avviso è il cuore di tutta la prolusione perché dice della radice prima dell’appartenenza all’umana società (secondo Sua Eccellenza), è il seguente: “La fede, se non può risolversi totalmente in una appartenenza visibile ed esteriore, non può tuttavia neppure venire concepita come fatto meramente interiore e invisibile […] Un cristiano appartiene alla Chiesa in ragione della fede professata e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana ricevuti, con tutto quanto ciò include e comporta. Ma questo diventa possibile solo a motivo di una precedenza della stessa Chiesa, indice del fatto che essa non è il semplice frutto o la semplice somma dell’appartenenza dei singoli cristiani, ma è invece anzitutto il frutto dell’azione dello Spirito, che rende presente e operante Cristo. L’appartenenza è, perciò, possibile, solo in ragione degli elementi istituzionali della Chiesa che, lungi dal rappresentare l’antitesi dello Spirito (come si sarebbe un poco superficialmente inclini a pensare), rappresentano i mezzi attraverso cui lo Spirito Santo continua ad attuare la presenza di Cristo, che raccoglie i cristiani in unità e li rende appartenenti, appunto, alla sua Chiesa”.

Sareste un poco superficialmente inclini a pensare che lo scazzacazzi nello scompartimento del treno sia uno scassacazzi e basta? Siete in errore. Egli incarna la quintessenza del Buonumore e la quintessenza della Socievolezza (e qui le maiuscole non sono a caso), e può scassarti il cazzo. Anzi, egli deve. Lo muove lo Spirito Santo, una della tre facce del Dio Trino.
E dunque in quanto Avvenire tace riguardo all’appartenenza (intesa come biglietto da A a B) c’è quello che ti tocca sorbire in un x di tempo. Che corrisponde pressappoco alla tua vita.
Dite voi se è comprensibile – non dico ragionevole, dico comprensibile – che ogni tanto ne buttino uno fuori dal finestrino.


venerdì 11 febbraio 2011

Proprio in mutande



*
“CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 11 febbraio 2011 (ZENIT.org).
Il portavoce della Santa Sede ha smentito l'ipotesi che Benedetto XVI
stia preparando un documento per limitare il rinnovamento liturgico
promosso dal Concilio Vaticano II”.

*


Aguzzate la vista



Sono bastate 48 ore e il mutanda-party ha perso due prestigiose mutande: Antonio Martino e Massimo Bordin.
Il primo, già da ieri, si tirava fuor d’imbarazzo con una educata letterina: “Caro Direttore, come sa un altro impegno mi impedisce di partecipare alla manifestazione da lei promossa…” (Il Foglio, 10.2.2011) e “impedisce” era in grassetto, per attenuare il colpo. Fatto sta che non si ha notizia di quale sia l’impegno – tace l’agenda sul blog di Antonio Martino, tace Google alla voce “Antonio Martino + 12.2.2011” – e complimenti al garbo da liberalone d’antan.
Discorso diverso per Massimo Bordin: “Oramai comprendiamo perfettamente la logica della cosa: diventa una manifestazione molto schierata e allora non c’è più quel dibattito che poteva esserci. Ci sarà una buona manifestazione di propaganda, adatta solo a chi è convinto che Berlusconi sia solo una vittima della magistratura” (Radio Radicale, 11.2.2011). Minor garbo, forse, ma grande chiarezza. Complimentoni.

Mutatis mutandis




giovedì 10 febbraio 2011

I diversivi


Per mercoledì era attesa la “rivoluzione liberale”, la “frustata all’economia”, il “piano di crescita”, tutta roba che Ferrara aveva costruito come diversivo per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal “culo flaccido” di Berlusconi. Martedì esprimevo qualche dubbio al riguardo e dicevo: “Se la rivoluzione è rimandata, è tutta colpa di Tremonti…”.
Beh, niente “frustata”, “rivoluzione” manco per il cazzo, la “crescita” non per ora: naturalmente, tutta colpa di Tremonti.


Poco male, era solo un diversivo e, d’altra parte, ne è subito pronto un altro: il mutanda-party.


Non è un caso se Berlusconi ha sempre rifiutato i consigli di Ferrara e ora gli sta affidando la cura della fatale contingenza: come inventore di diversivi, Ferrara è insuperabile.

“Il tuo metodo è sempre quello: buttare lì quello che può funzionare sul piano della comunicazione, e giocare sulla confusione. Del resto, cosa facevi a scuola? Eravamo al liceo «Lucrezio Caro» a Roma, nell’anno scolastico 1969/70. Tu facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento. Quando entrai in classe il primo giorno mi trovai di fronte 10 studenti con il distintivo di Mao. Erano del gruppo «Servire il popolo». Pensavo che da loro avrei potuto avere contestazioni, perciò concordai un programma di storia che li potesse interessare. Ma mi sbagliavo, durante l’anno questi «maoisti» si rivelarono studenti modello, mentre le difficoltà vennero da te, che eri della Fgci, se non sbaglio. Tutto per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione, paralizzare l’attività didattica. Avevi un amico del Fronte della gioventù e vi divertivate a lanciare richiami da un capo all’altro della classe: tu gridavi qualche slogan, e lui rispondeva «eia eia alalà». Ogni occasione era buona, per te, per dichiarare «corteo interno» e far uscire gli studenti dalla aule. Non hai mai studiato, per tutto l’anno, fidando su quel «capitale culturale» trasmessoti dalla famiglia. Caro Giuliano, eri così, e anche se hai cambiato campo, idee, collocazione politica, in realtà non sei cambiato. La differenza è che allora tutto era ancora possibile” (Maurizio Lichter, il manifesto, 29.1.2008).
Un buon impresario come Berlusconi sa riconoscere i talenti dei suoi dipendenti e valorizzarli secondo l’occasione.


Scrivi, Malvino ti risponde



Gabriele Filipelli, “trent’anni, media cultura, un orientamento politico liberale non immune dalle influenze di una famiglia cattolica di sinistra”, mi scrive una lunga lettera per dirmi della sua “perplessità” – ma in realtà mi pare che si tratti più di stupore misto a delusione – nell’avermi sorpreso “nel novero dei derisori dei «moralisti» [del Palasharp], ritenendo “commovente che queste persone trovino voglia, modo, coraggio di dimostrare il loro attaccamento alla cosa pubblica”. Non è tutto, perché aggiunge: “Oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema; se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto. Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita, non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. Lo ringrazio perché mi dà modo di precisare la mia opinione a riguardo.

Comincio col dire che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo. Prendo il Devoto-Oli per non lasciare spazio ad eventuali ambiguità nell’uso dei termini. La morale – leggo – sarebbe quanto “concernente il presupposto spirituale del comportamento dell’uomo, specialmente in rapporto con la scelta e il criterio di giudizio nei confronti dei due concetti antitetici di «bene» e di «male»”. I problemi nascono quando ciò che è «bene» per un individuo non lo è per un altro, e questo accade anche quando entrambi affermano che il presupposto sia spirituale, come nel caso di due individui che appartengano a differenti confessioni religiose. Le cose si complicano maledettamente quando un individuo nega ogni metafisica, e cioè ogni dimensione trascendente: «bene» e «male» perdono, in questo caso, il presupposto spirituale per assumere valenza di «utile» e «dannoso», anche qui lasciando spazio alla possibilità di assolutizzare il criterio di giudizio, col dichiarare «utile» o «dannoso» per tutti ciò che è ritenuto tale da un individuo. E tuttavia, almeno in questo caso, l’assolutizzazione del valore non ha pretese metafisiche: non fa richiamo ad una dimensione soprannaturale, ma anzi pretende di fondare la norma su una certezza che si fa forte di prove logiche, eminentemente materiali e immanenti, dunque non antecedenti o superiori all’uomo, né eterne. Qui la morale si riduce alla norma logicamente desumibile come «utile», e tuttavia rimane sempre aperta la questione del dimostrare che le prove logiche di quanto è ritenuto «utile» a se stesso da un individuo lo sia davvero per tutti.

Dicevo che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo, infatti il moralismo altro non è che la “tendenza ad attribuire prevalente o esclusiva importanza ad astratte considerazioni di ordine morale”. È chiaro, infatti, che se si nega ogni metafisica – questo è il mio caso – l’astrattezza delle prove in favore di una cogente coincidenza di «bene per tutti» con «utile per tutti» riduce morale e moralismo a due diverse espressioni dello stesso primato del trascendente sull’immanente.
Come se ne esce? Non voglio ripetere ciò che ho già detto mille volte su queste pagine: qui mi limito a dire che l’individuo non deve perseguire ciò che ritiene essere «il bene per tutti», ma «l’utile per il maggior numero di individui»; perché «il bene per tutti» non è mai dimostrabile di per se stesso se non ammettendo un principio trascendente, superiore e antecedente all’uomo, eterno, immutabile, incontestabile e mai negoziabile, sempre nelle mani di un’autorità che prima o poi arriva al punto di dover sospendere l’assunto democratico in favore di quello oligarchico di una aristocrazia dei saggi e/o dei puri; mentre «l’utile per il maggior numero di individui» è sempre dimostrabile sulla base dell’immanenza dei bisogni, e della dialettica tra libertà e responsabilità.
Non senza difficoltà siamo giunti a considerare che le tendenze all’assolutizzazione hanno carattere tendenzialmente omologante e oppressivo, e non senza grossi ostacoli residui riconosciamo nel metodo liberaldemocratico la via d’uscita dalla storia come luogo nel quale i relativi combattono per conquistare il primato di assoluto. «L’utile per il maggior numero di individui» dichiara lecita la dimensione privata della morale, ma la considera strumento di omologazione e oppressione quando questa pretende di farsi criterio per dichiararsi esclusivo strumento per raggiungere «il bene per tutti», nelle forme dell’ingiunzione o della persuasione che sono proprie delle multiformi espressioni dello Stato etico.
L’ho scritto mille volte, per lo più in polemica con quanti sostengono che le leggi di uno Stato debbano avere come stella polare il principio trascendente che informa il magistero della Chiesa: non c’è bisogno di un Dio per dichiarare inammissibili l’omicidio, il furto e la falsa testimonianza, ma se riteniamo necessario un Dio per dar forza a quel contratto sociale, in virtù del quale individui liberi e responsabili decidono a maggioranza di renderli degni di sanzione come reati, lasciamo la porta aperta a chi se ne dichiara rappresentante per mandato e/o interprete col fine, neanche tanto occultato, di farsi padrone dei nostri corpi e delle nostre menti.

Ora, veniamo a noi, ma non subito ai «moralisti» del Palasharp. Quattro bambini rom sono rimasti vittima di un rogo in un campo nomadi nella periferia di Roma e un «moralista» ha segnalato che un leghista non si è alzato in piedi quando è stato dedicato loro il rituale minuto di silenzio nel corso di una seduta del Consiglio regionale lombardo. Moralmente lo ritengo deplorevole, ma parlo della mia morale, che qui – incidentalmente – coincide con quella del «moralista». Sì, ma il leghista ha commesso un reato? No. E allora su quale piano è sanzionabile il suo gesto? Potremmo dire – e diciamolo – che il suo comportamento è sospetto di un portato razzista e xenofobo, ma ne abbiamo le prove certe? In assenza di prove certe sul punto, in assenza di una legge che punisca chi non si alza in piedi quando si dà il rituale minuto di silenzio, vogliamo un supplemento di legislazione che punisca il colpevole con la pubblica esecrazione? Cosa accade se assumiamo come necessario questo supplemento di legislazione sulla base dell’assunto morale che chiede un pubblico e generale riconoscimento di legge suppletiva? Quanti altri comportamenti che non configurano fattispecie penale arriveranno ad avere la loro sanzione sulla base di un assunto morale? In altri termini: che cazzo sto combinando nel pretendere che la mia morale – alla quale, sia chiaro, non rinuncerei mai – debba avere il pubblico riconoscimento di legge extrapenale (sovrapenale) valida per tutti? Sto ponendo le basi di uno Stato etico. Probabilmente avrà carattere persuasivo e non ingiuntivo, ma tenderà comunque a farsi norma avente come fine «il bene per tutti». Onestamente, ne ho bisogno? Voglio dire: non mi bastano leggi che puniscano il razzismo e la xenofobia delle forme che ne diano prova certa di reati? Stabilito per contratto sociale che «l’utile per il maggior numero di individui» debba giocoforza vietare quanto è espressione palese ed efficace di razzismo e xenofobia, a che mi serve entrare nel privato del razzista e dello xenofobo per proclamare il trionfo della morale che li condanna come vizi o peccati? Può servirmi a un solo scopo, ma al momento non riveliamolo.

Cambiamo scena, e parliamo di puttane. La prostituzione non è un reato, ma io la ritengo esecrabile. Non è un’ipotesi, dico proprio per davvero: non sono mai andato a puttane, non ho mai desiderato farlo, non sarei mai capace di prostituirmi né per diletto, né per bisogno, perché preferirei morire di fame (anche se è mi è facile dirlo, non essendomi mai trovato in tale condizione). Bene, ma questo mi dà il diritto di pretendere che puttana e puttaniere siano sanzionati da una legge dello Stato o dalla pubblica e generale sanzione morale? Insomma, chi cazzo sono io per poter pretendere che il contratto privato tra due individui adulti e consenzienti, che in questo caso prevede lo scambio di denaro e prestazioni sessuali, trovi una qualche punizione anche se in assenza di reati allegati? Posso arrivare a disprezzare Silvio Berlusconi, ma posso arrivare a pretendere che il mio disprezzo debba essere condiviso da tutti solo perché ritengo che la mia morale debba valere per tutti, sicché chi non disprezza Silvio Berlusconi in quanto puttaniere è in qualche modo suo complice? Come posso arrivare a questo senza riconoscere in me stesso una morale che pretende autorevolezza sull’altrui morale? E come non posso rabbrividire nel sorprendermi in queste velleità magisteriali che pretenderebbero il pubblico riconoscimento di un primato di autorità in campo morale?

Naturalmente, Silvio Berlusconi non è andato semplicemente a puttane. Pare che attorno alle sue esigenze sessuali si fosse consolidato un sistema di sfruttamento della prostituzione, che è reato, con casi di prostituzione minorile, che è un altro reato. In più – da cosa nasce cosa – questo avrebbe portato almeno a un episodio di concussione, che è un altro reato, e a un serio rischio per la sicurezza dello Stato, che è un altro reato. Infine – come non bastasse – ci sono molti indizi che lasciano ipotizzare altri reati: abuso di potere, disattenzione del decoro e della disciplina che sono onere dell’onore della carica rivestita, ecc. Da cittadino ho pieno diritto di esigere che ne renda conto in giudizio, ma come posso pretendere che sia universalmente considerato spregevole per il solo fatto di andare a puttane? E che valore posso dare ad una manifestazione pubblica che, oltre a supplementare il lavoro dei giudici per i reati che gli sono ascritti, oltre a rinfacciargli l’ipocrisia di un abito morale privato assai diverso da quello pubblico, ha come fine di giudicarlo e condannarlo in quanto puttaniere? Da cosa mi viene il diritto di giudicare e condannare ciò che non condivido e non approvo nel mio privato ambito morale come se fossi legittimato in ciò da una superiore certezza che trascende dal codice penale?

Gabriele Filipelli scrive – abbiamo visto – che “oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema”. Sono d’accordo, anche se tenderei a non considerarlo l’unico problema, ma solo l’epifenomeno di un degrado che è risultato di un forte ritardo sulla via di una compiuta liberaldemocrazia in Italia. E aggiunge che, “se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto”. Qui mi permetto di dissentire, e anche con forza, perché a lasciar fare ai moralisti (con o senza virgolette) lasciamo aperta la porta alla loro morale: anche chi la condivide non può pretendere sia fatta norma, per quanto ho detto sopra.
“Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita – conclude il mio lettore – non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. E qui non posso che tornare a quanto ho lasciato in sospeso: qual è lo scopo che sta nel trionfo di una morale su tutte le altre? L’omologazione e l’oppressione. Io le detesto. Un mondo di individui tutti uguali a me – e di me stesso ho in fondo grande stima – mi spaventa.

martedì 8 febbraio 2011

Ordunque domani


Ordunque domani si fa la rivoluzione liberale – pardon, pardon, volevo dire liberista – domani il Consiglio dei Ministri dà la famosa “frustata” all’economia e dà il via alla famosa “crescita”: in pratica, domani Silvio Berlusconi scopre le carte che Giuliano Ferrara gli ha messo in mano una decina di giorni fa. Un bluff? Così mi sono azzardato a scrivere, ma domani vedremo, può darsi che dovrò andarmi a nascondere per la vergogna: abbattimento di Irpef, Iva e mille altri balzelli, liberalizzazioni a iosa, abolizione degli ordini professionali, insomma, la rivoluzione. E io a dubitarlo, che coglione.
Oppure no, può darsi che anche stavolta non se ne faccia niente, e va’ a capire se è mancata la voglia o la forza. Non dimentichiamo che i poteri forti sono ostili a Berlusconi e tramano da sempre per sabotargli la missione. Non dimentichiamo che le riforme a costo zero necessitano di intenso training autogeno e che c’è sempre un guastafeste a turbare la concentrazione. Come si fa a riformare lo stato – dite – se quelli dei centri sociali fanno baccano sotto casa? C’è da snervarsi. È ovvio che poi le rivoluzioni liberali vengono così così.
D’altra parte, il Cav. è uomo che vende immagini e, quando ti dà un fondale di cartapesta, devi essergli grato come se ti avesse dato proprio il cielo che ci è dipinto sopra, sennò sei ingrato e lo deprimi: dovesse limitarsi a un ritocchino dell’art. 41, butta un “wow!” e mostrati convinto che adesso il debito pubblico precipita, e la produzione schizza, e diventiamo competitivi al massimo, sorpassiamo al Germania e le facciamo ciao-ciao nello specchietto retrovisore.
Vedremo, vedremo, dovrebbe essere domani: alle 11, il Consiglio dei Ministri; per le 17, dovremmo avere le prime reazioni da Wall Street; alle 22, siamo in pieno boom. E tutto questo lo dovremo a una geniale idea di Ferrara, che l’ha passata a Berlusconi, e Berlusconi a Tremonti… Mettiamola così: se la rivoluzione è rimandata, è tutta colpa di Tremonti e di quelli dei centri sociali.



Leggerete su L'Osservatore Romano di domani, mercoledì 9 febbraio


“Nel 1857 Jean-François Millet dipinse L’Angelus. Vi sono rappresentati due agricoltori, un uomo e una donna, raccolti in preghiera perché è l’ora dell’antica orazione che ricorda il saluto dell’angelo a Maria; gli strumenti posati per terra indicano che per quel giorno il lavoro è finito ma anche che in quel momento sta avvenendo qualcosa che conviene celebrare con un atto di devozione. Infatti ai due contadini fa da sfondo una campagna al crepuscolo; tra poco la luce del sole si ritirerà da quei campi. Il quadro rappresenta allo stesso tempo il fatto naturale, un paesaggio campestre all’ora del tramonto, e quello culturale, due persone in atteggiamento di preghiera. Sembra che l’artista desideri enfatizzare la relazione tra i due fatti: la coppia che prega rivela la pratica di un’abitudine religiosa alla cui osservanza i due sono stati probabilmente iniziati sin dalla prima infanzia; ma anche quanto la condizione di chi lavora la terra favorisca la partecipazione a quell’evento quotidiano durante il quale scompare la luce rispetto a chi vive in città. Una ventina d’anni dopo, verso il 1875, l’illuminazione elettrica nelle città e poi nelle campagne causò un radicale cambiamento nella vita quotidiana del mondo occidentale. Nel mondo nuovo il senso del quadro di Millet rischiava di disperdersi. Le strade, le abitazioni, i luoghi pubblici furono a poco a poco illuminati dalla luce artificiale, e l’eterno ritirarsi di quella naturale non preannunziò più la consegna degli uomini allo sbigottimento e alla paura del buio. Per la prima volta nella storia uomini, donne e bambini a causa di questa scoperta scientifica sono stati inconsapevolmente portati a trascurare il fenomeno naturale durante il quale la luce si ritira e l’oscurità avanza, fenomeno che fino ad allora li aveva predisposti verso una forma di spiritualità spontanea. All’uomo improvvisamente moderno bastò girare un interruttore di porcellana perché quel timore e tremore che nasceva all’avanzare della notte si attenuasse. La permanenza della luce grazie all'elettricità lo rese meno smarrito. L’interruttore accendeva la luce elettrica ma spegneva contemporaneamente lo stato naturalmente religioso dell’uomo nel buio. Si affievoliva quell’andamento dell’anima che, al sopravvenire dell’oscurità e in mancanza della funzione distraente della vista, tendeva in passato a ricorrere all’ascolto della propria ricchezza interiore. Quante domande sul destino umano sono state pensate alla flebile e incerta luce di una candela, quanti viandanti, pastori e naviganti si sono rivolti in termini poetici ai raggi pur freddi della luna! L’ombra rendeva gli uomini sospettosi di essere preda facile di agguati, minacce, trabocchetti, e l’anima invocava spontaneamente l’aiuto e la misericordia dell’onnipotenza divina. Negli uffici illuminati a giorno dall’elettricità si continuano a battere i tasti dei computer mentre fuori il sole tramonta e gli spettatori nelle sale cinematografiche, inconsapevoli di aver mancato il vero spettacolo, ammirano un tramonto sullo schermo mentre fuori la luce del giorno si ritira misteriosamente. Fuori, strade, vetrine e ristoranti risplendono di luce elettrica incuranti del cielo stellato. Ora è sempre giorno…”.

Vi aspetterete da un momento all’altro la scomunica dell’Enel. Tranquilli, non ci si arriva.




Marco Pannella: “Tratto con Silvio, ma non mi vendo”.



E tu trovami una sola escort passata per Arcore che parlerebbe di vendita.

Pippo, che cazzo fai?


Giuseppe Civati, detto Pippo, scrive: “Cesare Bossetti, consigliere della Lega di Varese e di Radio Padania (eletto senza preferenze nel famigerato listino di Formigoni), durante il minuto di silenzio per i quattro bambini rom morti a Roma (richiesto dal Pd e concesso dal presidente Davide Boni, leghista anche lui), non si è alzato in piedi”. Levato il di più: “Cesare Bossetti non si è alzato in piedi”.
Ora, sì, questo è molto brutto, ma penso non sia molto più bello richiamare attenzione sulla cosa con l’invito al biasimo, tanto più se sollecitato in modo un pochetto viscido: “Non ho niente da aggiungere, né da commentare”. Brutto anche questo, mi sa tanto di giudizio sommario con condanna alla gogna per indegnità morale.
Giudizio sommario perché il di più che ho levato alla frase tende a dare per certo che Cesare Bossetti non si sia alzato in piedi per significare strafottenza per le vittime, forse addirittura spregio, ovviamente su base razziale. Roba tipicamente leghista, che però non impedisce ad altri leghisti di alzarsi in piedi quando c’è il rituale minuto di silenzio in ossequio a vittime rom, e così è stato a Varese.
C’è da ritenere che il restare seduto possa in certi casi essere addirittura ostentato, con chiaro intento provocatorio, sicuramente offensivo, e così Pippo vuol darci per certo. Può darsi lo sia, ma Pippo non ci porta prove, e così cade in infortunio ideologico: lo stesso in cui cadde il Giornale quando pizzicò Alfonso Pecoraro Scanio in flagranza di risata ai funerali per i soldati morti a Nassiriya. Da antimilitarista – così lavorava la logica  la sua risata era un palese oltraggio ai nostri martiri. Può darsi lo fosse? Non lo sapremo mai, fatto sta che Alfonso Pecoraro Scanio smentì ogni intento offensivo, senza sentirsi in dovere di smentire il suo antimilitarismo.
Cosa consente a Pippo di essere sicuro che Cesare Bossetti non abbia modo di smentire un intento offensivo nel suo restare seduto? Non sappiamo, ma Pippo ci chiede di biasimarlo sulla fiducia. Poi, domani, Cesare Bossetti ci presenta un certificato medico (trocanterite bilaterale) e siamo costretti a sentirci più fessi di un lettore de il Giornale.

lunedì 7 febbraio 2011

Ipso facto



Era il 4 febbraio 1999 e il cardinale Joseph Ratzinger rivelava a la Repubblica di essere iscritto ad una associazione di donatori di organi. È di 48 ore fa, invece, la seguente dichiarazione del suo segretario personale, monsignor Georg Gaenswein: “Se è vero che il Papa possiede una carta di donazione di organi, è vero anche, contrariamente ad alcune affermazioni pubbliche, che con lelezione a capo della Chiesa Cattolica, ipso facto essa è diventata obsoleta”. Con tutta la buona volontà non si capisce donde lipso facto: non dal Catechismo, non dal Codice di Diritto Canonico. Verrebbe così da chiedersi in base a quale effetto lelezione al Soglio Pontificio costituisca impedimento alla donazione di organi da parte di chi da cardinale ne aveva la facoltà e ne dichiarava la volontà. Diventando papa, acquista potestà suprema, piena, immediata e universale su tutta la Chiesa e ipso facto perde diritto a un “atto spontaneo”


Ci manca pochissimo




“Capirci un cazzo a volte è un’arte”



Magistrale.

Fuffultare


Nichi Vendola rende noto il testo della lettera inviata a Sandra Bonfanti di Libertà e Giustizia in sostegno alle ragioni dei palasharpisti, e la lettera attacca così: “C’è bisogno di un sussulto…”, che si scrive “sussulto”, ma che qui non si può leggere altrimenti che “fuffulto”. Con quella sua invidiabile capacità di trovare otto sinonimi per ogni termine, per spararli in sequenza senza risparmiarcene mai uno (meglio di lui solo certi sommelier davanti a un rosso e Philippe Daverio davanti a una pala di scuola lombarda), Nichi Vendola non riesce a trovarne uno meno imbarazzante di “fuffulto” per significare il moto di indignazione che dovrebbe sollevare il paese. Come fu per Ignazio La Russa, quando prese a imitare l’imitazione che ne faceva Fiorello e per qualche tempo fece abuso di molti “digiamolo”, oggi ci tocca sorbirci l’imitazione dell’imitazione di Checco Zalone. Tutto per estorcerci un sorriso di tenerezza.


la Repubblica



Enrico Maria Porro s’è posto il meritorio intento di far chiarezza su una questione di una certa delicatezza: se citando il quotidiano di Largo Fochetti sia corretto scrivere “Repubblica” o “La Repubblica”. In realtà, per questa seconda opzione, dovrebbe valere la versione dell’articolo con la minuscola (“la Repubblica”), com’è in testata, ma pare questo sia un problema ormai superato, perché più fonti – anche molto autorevoli – accreditano la prima opzione: “Repubblica”, senza l’articolo.
Non c’è che da prenderne atto, ma così diventa indispensabile inoltrare alla proprietà del giornale la richiesta di cambiare la testata, perché fino a quando lì c’è scritto “la Repubblica” ogni altra versione è quanto meno arbitraria. Possibile, per carità, ma arbitraria. E impropria.