giovedì 10 marzo 2011

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“La «nostra» società”


I bambini hanno necessariamente bisogno di una madre e di un padre per crescere bene? La loro psiche rivela disturbi particolari se vengono allevati da una coppia gay? Su Avvenire, lo scorso 16 febbrario, Giuseppe Anzani lo dava per scontato, ma l’Associazione Italiana di Psicologia è intervenuta a correggere quelle che ha definito “affermazioni che non trovano riscontro nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psico-sociale degli individui”, perché “il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non è tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno”.
Cose ormai risapute, ma chissà quante altre volte si dovrà ripeterle a chi difende, anche contro l’evidenza, questi e cento altri logori luoghi comuni. Poi, però, c’è il professor Francesco D’Agostino, che non nega l’evidenza, ma cerca di eluderla: il problema non sarebbe “psicologico, bensì antropologico”.
“Almeno in linea di principio – scrive – potremmo anche concordare [“«che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso» (come sostiene il comunicato degli psicologi)”]; ma ciò che dovrebbe piuttosto stare a cuore a tutti è riaffermare che ogni società, o almeno certamente la «nostra» società, si fonda su strutture familiari stabili e riconosciute, dotate di una potenziale e naturale fecondità, di un fondamento morale personale (il reciproco impegno dei coniugi) e di un riconoscimento giuridico pubblico (il matrimonio). […] Dovrebbe essere chiaro agli occhi di tutti che la cura e la protezione cui hanno diritto i bambini vanno ordinariamente garantite da una coppia genitoriale e da un «normale» contesto familiare e non da una mera «buona volontà» psicologica di adulti disposti generosamente a prendersi cura di loro” (Avvenire, 9.3.2011).
D’improvviso, il bambino ha smesso di stare al centro della questione: nel negare la sua adozione da parte di una coppia gay, il suo benessere sembrava fosse la cosa più importante, adesso non lo è più. Adesso al centro delle preoccupazioni è “la «nostra» società”, “il «normale» contesto familiare”, “l’esperienza storica e morale plurisecolare”. E qui ogni “ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psicosociale degli individui” diventa inutile: le tautologie di «nostro» e «normale» rendono insignificante ogni rilievo scientifico. Provate a cambiare i termini della questione e con questo tipo di argomentazione, contro ogni ragione, si può difendere ogni cosa: basta sia «normale» ed è «nostra», basta sia «nostra» ed è «normale».

mercoledì 9 marzo 2011

“Confidente e spia”


Luca ha visto alla tv (Blob – Raitre, 8.3.2011) un Ferrara d’annata nell’atto di dar fuoco al suo bollettino di pagamento dell’abbonamento Rai (Radio Londra – Canale 5, 14.2.1989) e si chiede se il Ferrara che a giorni esordirà su Raiuno con una rubrica quotidiana abbia avuto il buon gusto di rinnovarlo, e quando.
Luca non spreca alcuna indignazione sul gesto di 22 anni fa, perché sa che pretendere coerenza su un arco di tempo così lungo sarebbe troppo, ma si limita a chiedere se vi possa essere compatibilità tra il continuare a non pagare l’abbonamento Rai e lavorare per la Rai, pagato coi soldi della Rai, che poi sono i soldi di chi paga l’abbonamento Rai. In questo modo aggira ogni obiezione che potrebbe sollevarsi a una richiesta di coerenza, che è termine sfuggente e ambiguo col quale i cretini ritengono di poter crocifiggere un uomo alle opinioni che aveva ieri o l’altrieri, ma fa una richiesta di congruità logica. Infatti, per ciò che realmente conta sul piano di una retta argomentazione, “due affermazioni di una stessa persona in momenti diversi della sua vita possono essere presentate come incompatibili, se tutti gli enunciati di quella persona sono trattati come costituenti un unico sistema; se invece si tratta di diversi periodi della sua vita come non solidali tra loro, l’incompatibilità scompare” (Chaïm Perelman, Il dominio retorico, Einaudi 1981).

E tuttavia Luca non tiene conto di una cosa: ciò che fa “unico sistema” in Ferrara – e che lo rende perfino coerente – è il suo continuum, prima sotto la protezione di Craxi e dopo sotto quella di Berlusconi, contra rem publicam, della quale la tv pubblica è espressione sotto il controllo parlamentare. Il continuum, in Ferrara, c’è ed contro le prerogative del Parlamento. Dagli schermi della Fininvest, grazie a Berlusconi e in favore di Craxi, la Rai era concorrente. Oggi tutto cambia, ma è tutto uguale: grazie a Berlusconi (proprietario di Mediaset, concorrente della Rai) e in favore dello stesso Berlusconi (presidente del Consiglio che mira a erodere le prerogative parlamentari in vista dell’esautorazione di fatto), la tv pubblica resta concorrente, ma stavolta può essere avversata dal di dentro. Il mancato rinnovo dell’abbonamento sarebbe congruo, compatibile e coerente.
Se fosse necessaria controprova, basta scorrere la prefazione di Radio Londra (Leonardo editore, 1991), il volume che raccoglie i suoi interventi televisivi: “Non sono un giornalista [...] Non amo, anzi detesto, il giornalismo come professione [...] La prima regola di questo mestiere è compromettersi [...] La lotta politica moderna si fa sui giornali e alla televisione [...] La bugia professionale è il comune collante deontologico [...] Il giornalista che piace a me è complice e traditore, gentiluomo e ladro, confidente e spia”.


Un’altra lezioncina


“Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l’articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: è l’arma del popolo sovrano, dell’esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d’origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo” (Le procure sotto tutelala Repubblica, 9.3.2011). Dopo quella del pastore Peter Ciaccio sul “puritanesimo” (youtube.com, 12.2.2001), questa di Barbara Spinelli sul “giacobinismo” è un’altra lezioncina che tornerebbe utile ai dipendenti di Silvio Berlusconi che sono addetti a stampa e a tv.
Il “puritano” non è chi affida al moralista il controllo dello Stato, ma è chi ritiene doverosa la tutela del decoro delle istituzioni da parte dei suoi rappresentanti, che appunto la rappresentano ma non la incarnano, e dunque devono al vestito che hanno addosso un’attenzione maggiore rispetto a quella verso quanto c’è dentro, perché poi il vestito deve essere restituito.
Il “giacobino” non è chi si oppone alla separazione delle carriere, ma chi la vuole, e “giacobinismo” non è mettere il potere politico sotto il tallone della magistratura, ma proprio tutto il contrario: potremmo dire che “giacobina” è proprio l’idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi”, potremmo dire che i veri “giacobini”, oggi, in Italia, siano i populisti del centrodestra che chiedono l’impunità dell’eletto e l’incontestabilità del suo legiferato sul piano della costituzionalità.
Eppure sono loro che accusano di “giacobinismo” chi invece chiede nell’equilibrio dei poteri la garanzia che la democrazia non degeneri plebeitarismo, le élites non si facciano oligarchia.


martedì 8 marzo 2011

“La vita è piena di sorprese”


Un Regalzi da incorniciare.

 

ottomarzo




L’implausibile


Non ho visto la puntata di Dr. House – Medical Division che ispira il post di Berlicche, ma credo sulla parola a quanto scrive: “Dal punto di vista medico il plot è così implausibile da affondare nel ridicolo”. È il motivo per il quale ho smesso di seguire la serie a metà della sua seconda stagione e non faccio fatica a immaginare che, ormai alla settima, gli autori possano aver toccato il fondo dell’inverosimile, infatti – è vero – “cure di staminali embrionali non ne esistono, figuriamoci una in grado di rimettere in piedi in un giorno”. Tutto il resto, però, mi pare regga.
Non è affatto inverosimile, innanzitutto, che un cattolico si faccia crocifiggere. Due anni fa, per esempio, solo nelle Filippine furono in 29. La Chiesa ufficialmente disapprova, è opportuno dirlo, ma l’usanza è radicata in parecchi paesi, soprattutto fra sudamericani e latinos, con qualche sporadico caso anche in Europa.
La fede di chi si fa crocifiggere sarà malata? Senza dubbio, ma è proprio questo il caso in Piccoli sacrifici (Italia 1, 4.3.2011), dove il crocifisso è latino e affetto da patologia neurologica (“sclerosi al cervello”, leggo): nulla di inverosimile, dunque. È inverosimile, invece, che Berlicche scriva: “La fede raffigurata nel telefilm è la sua caricatura: una convinzione cieca, senza argomentazioni”, perché la fede è questo, anche quando non è caricaturizzata: sennò come si argomenta, di grazia, la resurrezione di un morto, la verginità di una puerpera, la sua ascensione in cielo, ecc.? E tuttavia son dogmi, bisogna averne convinzione cieca, sennò non ci si può dire cattolici. E qui mi limito a dire che Berlicche dovrebbe sorvegliare di più il lessico.

Che c’è di inverosimile, poi, in un cattolico che preferisca morire piuttosto che salvarsi con mezzi moralmente illeciti? La Chiesa non fa sante le donne che rifiutano l’aborto anche sapendo che la gravidanza le ammazzerà? È proprio il caso del latino che rifiuta la cura di staminali embrionali prescritta da House. Che c’è di inverosimile? Che c’è di implausibile?
Ma non è tutto. Berlicche scrive che, per guarire lo sclerotico contro la sua volontà, House “lo inganna facendogli perdere la fiducia in Dio”. Questo è doppiamente odioso, convengo. Anzi, ritengo sia del tutto speculare all’arbitrio del medico cattolico che commetta analoga ingiustizia nei confronti del paziente senza speranze, che vorrebbe essere lasciato morire in pace piuttosto che essere fatto appendice di una macchina. Ma Berlicche non darebbe dell’assassino al medico che staccasse la spina? E allora perché trova odioso l’arbitrio di House? Probabilmente – vado a naso – la ragione sta solo nel fatto che qui lo scopo – lo stesso scopo – sia raggiunto facendo perdere la fede al paziente.
Insomma, parrebbe che per Berlicche ci sia paziente e paziente: se è credente, la terapia dovrà badare innanzitutto a non fargli perdere la fede, anche a costo di lasciarlo morire; se invece non è credente, la terapia dovrà assecondare la fede del medico, anche costo di tenere in vita il paziente contro la sua volontà.
Di più: il medico non credente dovrebbe comportarsi come un medico credente anche dinanzi a un paziente non credente, meglio se per legge. Berlicche non lo scrive, non in questo post. Quando affronterà la questione del ddl sul fine vita che è in discussione in Parlamento, vedrete, non mancherà. 



Il burlone ne starà preparando una. Delle sue.




Mica tutti i preti sono pedofili



[un grazie a distantisaluti.com]

Uno, cento, mille Machiavelli


Giuseppe Prezzolini trova un’immagine di grande efficacia in coda a Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino: dice che “leva lo sgabello sotto il sedere ai profeti disarmati”. Bene, non resta che concentrarci sullo sgabello: cos’è?

Luca era gay?

Lo scorso 30 novembre, a Orvieto, Luca Seidita si suicidava lasciando un biglietto sul quale c’era scritto: “Volevo diventare sacerdote. Tutta la mia vita è stata dedicata a questo. Mi è stato negato”. Il vescovo di Orvieto, monsignor Giovanni Scanavino, diceva: “Per lui questo diniego era stato un dramma assoluto”. Interrogato sul rifiuto opposto al giovane da Roma, il portavoce della Santa Sede non rispondeva: “Si tratta di un sacramento e la Santa Sede non può dare spiegazioni sul perché venga dato o non dato. Noi non diciamo niente e non abbiamo niente da dire”.
Vi avevo fatto cenno il 15 gennaio, qui, e la storia sembrava chiusa, ma ora si riapre. Anzi, si schiude interamente.

È notizia di ieri: a Orvieto arriva un altro vescovo e monsignor Scanavino viene rimosso. Si era permesso di contestare il no che aveva portato Seidita a disperazione, e questo naturalmente non era tollerabile. Viene fuori quello si poteva intuire senza grosso sforzo di immaginazione: da Orvieto qualcuno aveva scritto a Roma che il giovane era gay, e Roma s’era mossa. Ma Luca era gay? Pur avendolo d’accanto per cinque anni, monsignor Scanavino non se n’era mai accorto. Andando via, mugugna che la diocesi orvietana è “malata di cancro”.
Gli avevano chiesto di dimettersi, ma si era rifiutato. Poi arrivava una lettera che gli comunicava il rincrescimento di Sua Santità per la situazione che si era venuta a creare, con un ulteriore invito alla rinuncia della guida pastorale della diocesi, “per il bene maggiore dell’unità della Chiesa di Orvieto”. E un vescovo non può opporre un rifiuto al Papa, sennò può scordarsi la pensione, e monsignor Scanavino ha 71 anni.
Occorre ascoltarlo con attenzione...


... per poi tornare a quanto scrivevo il 15 gennaio riguardo a quel “processo che non è solo formativo, ma trasformativo” di uomo in prete. Scrivevo che “in seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare”, ma qui se ne coglie qualcosa. Basti quanto Sua Eccellenza dice due o tre volte nel corso della conferenza stampa: “Il morto non c’è stato”. Naturalmente fa riferimento ai problemi che ha avuto con Roma, ma il morto, che invece qui c’è stato, eccome, è inspiegabilmente volatilizzato.
Dimenticavo. Rimane fuori dalla vicenda se Luca fosse davvero gay o no.

lunedì 7 marzo 2011

“Pericolo di vita”


“Si avverte con stupore che l’affermazione
viene formulata con parole che ne annullano l’intenzione,
mentre il lapsus mette a nudo l’interna insincerità.
Il lapsus verbale diventa qui […] un mezzo per tradire se stesso
[…] avente l’effetto sconvolgente di una rivelazione”

Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, 1904


Antonio Socci fa il suo “appello a tutti i parlamentari, di tutti gli schieramenti, al di là delle divisioni ideologiche, politiche o culturali [ad] approvare subito la legge sulla (cosiddetta) «Dichiarazione anticipata di trattamento» e approvarla così com’è [non foss’altro per quel suo] preziosissimo comma 6 dell’art. 4, che recita testualmente: «In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica»” (Libero, 5.3.2010); e l’ottimo Ivo Silvestro ci scova un lapsus: “pericolo di vita” in luogo di “pericolo di morte”. Lapsus tanto più interessante se si tiene conto che “testualmente” il comma 6 fa riferimento non a un “pericolo”, ma a un “pregiudizio della vita dell’incapace stesso”.
Non è difficile leggere la verità che il lapsus rivela: la vicenda di sua figlia Caterina, rianimata d’urgenza dopo un arresto cardiaco senza aver potuto evitare pesanti esiti neurologici, è vissuta nel dubbio – almeno nel dubbio, a voler essere cauti – che sia quel genere di vita ad essere il reale “pericolo”, non già la morte. Almeno inconsciamente, c’è uguale sentire tra Antonio Socci e Beppino Englaro: quel genere di vita è peggio della morte. Con una sola, grandissima differenza: Eluana lo pensava e aveva chiesto al padre di evitarlo, mentre è difficile pensare che per Caterina sia stato possibile disporre in tal senso.
Direi sia la prova provata che il testamento biologico è necessario: perché a chiunque sia data la possibilità di veder rispettare le proprie volontà, quando incapace. Così Eluana e Beppino Englaro non dovranno aspettare 17 anni anni per vederle realizzate, Caterina potrà lasciare che sia fatta la volontà di Dio e suo padre non sarà costretto a incorrere in lapsus imbarazzanti.

1956




L’alleanza terapeutica

 
Non potrei mai dare della testa di cazzo a un collega, perché violerei le norme della deontologia professionale. Mi astengo, dunque, da ogni giudizio su chi ha firmato il comunicato dell’Amci (Associazione medici cattolici italiani) in favore della legge sul fine vita, e mi limito a sollevare qualche perplessità.
In primo luogo: “Nella realtà concreta della professione medica – c’è scritto – è più presente il rischio dell’abbandono piuttosto che quello dell’accanimento terapeutico”. E allora che senso ha fare una legge? Hanno ragione quanti affermano che non serve?
Di poi: “Le Dat non possono costituire un testamento vincolante per il medico curante il quale, ben attento alla relazione umana che lo lega al suo paziente, avrà sempre a cuore di rispettare l’alleanza terapeutica, fondamento della professione medica, tenendo conto, nell’assunzione delle proprie inalienabili responsabilità, delle volontà espresse dal paziente o dal suo fiduciario”. Le quali, tuttavia, alla faccia dell’alleanza, possono essere ignorate quando il paziente o il suo fiduciario esprimessero la decisione di non volere un tubo nello stomaco o un ago in vena. Aghi e tubi non sono attrezzi terapeutici? Non è accanimento terapeutico imporli contro la volontà del paziente? L’alleanza terapeutica non dovrebbe avere come base minima una concordata condotta del terapeuta?
 
Qui mi fermo, sennò finisco per violare le norme della deontologia professionale.
 
 

La trattativa


A maggio e a luglio dell’anno prima c’erano state le stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Nel maggio del 1993, a Firenze, la mafia fa strage in Via dei Georgofili. Due mesi dopo, fa scoppiare bombe a Roma e a Milano. Gli attentati sono rivendicati, con la minaccia di fare centinaia di morti. Di lì a poco, il 31 ottobre, si scopre un furgone imbottito di esplosivo nei pressi dello stadio Olimpico, qualcosa non ha funzionato e non è esploso. È l’avventura terrorista dei corleonesi di Totò Riina.
Col 1° novembre, sempre del 1993, arriva la scadenza del 41bis per molti detenuti e il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, non lo rinnova a 140 di loro. Da quel momento in poi la mafia smette di piazzare bombe.

“Se ne può desumere che la trattativa/ricatto abbia avuto i suoi effetti tra luglio e novembre?”. La domanda è posta proprio da Conso, in apertura dell’audizione dell’11 novembre 2010 presso la Commissione parlamentare antimafia.
“Innanzitutto di fronte a me stesso – aggiunge – e di fronte alla verità, e alla storia, giacché il tema è tale da incidere sulla storia del paese, ho il dovere di ammettere che la questione ha proprio questa consistenza: perché non sono stati prorogati?”. E da subito chiarisce: “Posso garantire, posso garantirlo sotto ogni forma di giuramento, che da parte mia non c’è mai stato neanche un barlume di trattativa. Per principio non avrei mai trattato con nessuno degli appartenenti a questa parte anti-stato”.

Possiamo credergli solo se crediamo al suo giuramento? Conso sembra capire di chiedere troppo e concede: “L’apparenza potrebbe trarre in inganno: non si sono rinnovati quei provvedimenti restrittivi – si può argomentare – e così si è favorita questa parte”. E allora? Come possiamo evitare di farci ingannare dall’apparenza senza dover fidare solo sul suo onore? È semplice: abbiamo tutto ciò che Conso ha detto e scritto riguardo al 41bis prima di quel mancato rinnovo del 6 novembre 1993.
E cosa ne abbia sempre pensato, senza mai farne mistero, Conso lo rammenta agli auditori, ma prima fa presente che quel rinnovo non fosse un atto dovuto, ma del tutto discrezionale. E non si trattava di mandarli liberi, ma solo di sospendere una misura utile, sì, ma che Conso aveva sempre considerato, e continua a considerare, sul confine tra diritto e arbitrio, tra pena e tortura. E tuttavia utile, quando applicata con giudizio. Per esempio, nel gennaio del 1994, non esita a rinnovare il 41bis ad un altro pacchetto di detenuti.

Questo è quanto pensava, e continua a pensare, del 41bis. E non aveva notizia di richieste da parte dei corleonesi, tanto meno aveva contatti con intermediari: tutto fu deciso in piena autonomia, sulla base del suo personale convincimento che levare il “carcere duro” a quei 140 mafiosi di basso profilo fosse – insieme – cosa possibile senza essere dannosa e forse anche utile.
Questo può dirsi trattare? Così pare a quanti hanno prima coccolato e poi abbandonato la teoria della trattativa tra mafia e Berlusconi come contesto nel quale prende vita Forza Italia. Come se non fosse più possibile dopo le dichiarazioni di Conso, come se la decisione da lui presa nel novembre del 1993 fosse “la” trattativa, e ogni “altra” trattativa venga così ad essere esclusa. Con sommo imbarazzo della teoria.

Io credo a Conso. Intendeva mandare un segnale ai corleonesi dopo la cattura di Totò Riina: era un prezzo piccolo in cambio di un vantaggio che gli sembrò essere acquisito con la fine degli attentati. A torto o a ragione, chi può dire? Rinnovare o no il 41bis a quei mafiosi era in sua facoltà, la legge non glielo imponeva, né gli imponeva di consultare alcuno.
Siamo nella pienezza del diritto. Mancano addirittura i prerequisiti della trattativa. C’è un uso temperato della misura restrittiva. Ed è dichiarato il fine. Sulla bontà del mezzo spettava decidere al Guardasigilli. Dovrebbe essere la prova che i principi possono cimentarsi con la realtà senza uscirne troppo malconci. E invece, per chi voleva che Spatuzza avesse in pugno una verità piana, è un colpo micidiale. Da rimuovere.
È in questo deficit di fede nello stato di diritto che la sinistra giustizialista confessa il suo limite. Sarebbe stato utile correggere la teoria, si è limitata a ritirarla.

È così che si trattano i pontefici!


Meotti ha ragione: la gran parte degli alti prelati in Terrasanta e dintorni rimproverano ai “sionisti” di “occupare” la Palestina e di fare “pulizia etnica”; il Sinodo speciale sul Medio Oriente dello scorso ottobre sembrava un meeting filopalestinese; i più importanti giornalisti cattolici diffamano Israele; La Civiltà Cattolica schizza fiele; e insomma pare che la Santa Sede preferisca stare dalla parte dei “devoti della morte” contro gli israeliani, dei quali dovrebbe essere invece “naturale alleata”. Non c’è una comune radice giudaico-cristiana? E allora è sacrosanto il richiamo alla coerenza che Meotti rivolge a Benedetto XVI: “Pope Benedict should now reverse the tragic wave against Israel and the Jews – which its enemies want to annihilate – with the same powerful determination with which he raises his voice in defense of the «nonnegotiable» principles concerning human life. Israel is also not negotiable”.
“Should”, mica “would”. “Now”, mica “sooner or later”. Schiena dritta, insomma, mica come quel semigenuflesso del signor direttore. Bravo Meotti, è così che si trattano i pontefici!

Sì, il richiamo è in inglese, perché è rivolto dalle pagine del Jerusalem Post. E qui viene spontaneo chiedersi: Lungotevere Raffaello Sanzio dista meno di due chilometri da Piazza San Pietro, perché andarglielo a consigliare da Gerusalemme, a più di 2.000 chilometri di distanza? Da così lontano, siamo sicuri che il Papa senta, si penta e cambi strategia in Medio Oriente?


ifeelcud.it


Non ho a disposizione i dati del 2010 e dunque prendo in considerazione quelli dell’anno precedente (fonte Cei). La somma totale raccolta grazie all’8xmille per l’anno 2009 è di 967.538.542 euro. L’88,1% è andato al sostentamento del clero (381.300.000), alla manutenzione ordinaria della sua macchina sul territorio (381.238.542) e al carburante per muoverla (90.000.000); il 7,8% ai poveri del Terzo Mondo; il 3,1% a quelli nostrani. È così da sempre. Da quando c’è l’8xmille – ormai è un quarto di secolo – il criterio di ripartizione è costante: mai più del 12% ai poveri, mai meno dell’83% ai preti.
Dati noti? Nel 2003 lo sapeva solo il 4,2% degli italiani, e non ho disposizione dati più recenti. Tuttavia nel 2008 è uscito La questua di Curzio Maltese e saranno diventati il 5, il 7, forse addirittura il 10%. Facciamo il 20%? Se fosse, avremmo ancora 4 italiani su 5 ingannati dai martellanti spot televisivi che la Cei imbottisce di bimbetti africani, barboni sdentati, emaciati strappati alla droga, puttane levate dalla strada, come se l’8xmille andasse solo a loro.
Non è il criterio di ripartizione ad esser degno di attenzione, non se si conosce un poco il clero: a ripartire diversamente, non sarebbe ancora lì. Se lo si conosce un poco, non è degno di attenzione neanche il suo cinismo: è da sempre che i bisognosi gli fanno da esca per prendere all’amo i caritatevoli. Nemmeno gli strumenti di questo cinismo sono degni di attenzione: se si conosce un poco il clero, si capisce che sono gli stessi di sempre, anche se adeguati ai tempi. È per questo che in questi sette anni – Malvino li compie proprio oggi – non ho mai sprecato troppo tempo su l’8xmille. Ma stavolta è diverso. Stavolta c’è da segnalare ifeelcud.it, che è qualcosa di più del solito spillar soldi ai fessi.

Ora anche i giovani possono fare tanto per sostenere l’8xmille, aiutando gli anziani a compilare e consegnare la scheda allegata ai loro modelli CUD, per esempio. Così i fondi dell’8xmille arriveranno ai tanti progetti che la Chiesa cattolica porta avanti in tutto il mondo, donando a chi ha più bisogno la speranza di una vita migliore”. Chi ha più bisogno? Vedi sopra: i poveri per l’11,9% e il clero per il restante 88,1%.
Si sa, l’Italia è patria della disoccupazione giovanile e i disoccupati non hanno un CUD da compilare: perché tenerli fuori dal circuito? D’altra parte, si sa, gli anziani sono anziani. La modulistica li rimbambisce, se già non sono rimbambiti. E poi, a una certa età, la vista è ballerina. Chi può essere sicuro, infine, che gli spot televisivi abbiano martellato a dovere? Ci vorrebbe un’idea, avrà pensato il solito creativo in tonaca, e gli è venuta: un concorso a premi.
“Bastano cinque mosse. Chiedi al tuo parroco di iscrivere la tua parrocchia al concorso ifeelCUD. È molto semplice, ed è ovviamente gratuito. Chiama i tuoi amici e crea la squadra, può partecipare chiunque abbia un’età compresa tra i 18 e i 35 anni. Abilitata la squadra sul sito, si può cominciare a fare sul serio, sta a voi trovare il modo di raccogliere più schede CUD possibile. Usate la simpatia, l’inventiva e il buon senso: chi si impegna di più vince! Portate le schede firmate per l’8xmille al centro Caf Acli più vicino, il concorso finisce il 30 aprile 2011. Più schede avrete consegnato più alte saranno le probabilità per te e la tua squadra di vincere un viaggio insieme a Madrid per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2011”. Due piccioni con una sola fava.

Nel dettaglio: “Per dare a tutti le stesse probabilità di vittoria, indipendentemente dalla popolazione della parrocchia, il calcolo del punteggio verrà ottenuto dividendo il numero di modelli CUD validi consegnati al CAF Acli per il numero di abitanti della parrocchia, e moltiplicando per 100. Esempio: una parrocchia di 3.000 abitanti che riesce a raccogliere e consegnare al CAF Acli 180 modelli CUD, guadagnerà 600 punti (180/3.000 = 0,06 x 10.000 = 600 punti). A questo punteggio andranno poi aggiunti gli eventuali bonus ottenuti”.
Già, ci sono pure i bonus. “Realizza un filmato di 3 minuti con un tema a scelta fra la storia della comunità parrocchiale, del paese, del santo patrono. Potrai aumentare il punteggio della tua squadra del 10%. Realizza un filmato sulla canzone «Si può dare di più», che potrà essere in dialetto o perché no, anche un videoclip! Potrai aumentare il punteggio CUD di un ulteriore 10%. Una giuria sceglierà il filmato più interessante ed emozionante. Il video vincitore aumenterà il punteggio della propria parrocchia del 20%”. E così per l’anno prossimo risparmiamo pure sugli spot. Le tv già concedono lo spazio pubblicitario a prezzo di favore, ma così si abbattono anche le spese di produzione.
Ed è questo che merita attenzione: l’eccezionale capacità di spremere quanto più possibile da chi può e da chi non potrebbe.

[grazie a Denis per la segnalazione]

sabato 5 marzo 2011

ecc.


Il prossimo 9 marzo, inizio di Quaresima, Benedetto XVI sarà nella Basilica di Santa Sabina all’Aventino e presiederà il rito dell’imposizione delle ceneri, che dal VI secolo è occasione di pubblico pentimento che la Chiesa offre ai peccatori, ecc.
Con l’iniziativa del Tribunale di Milano, che gli impone un’altra linea, ci siamo persi la scena di Silvio Berlusconi inginocchiato davanti al Papa, Lele Mora a destra, Emilio Fede a sinistra, Nicole Minetti dietro, a offrire il capo, mento sul petto, ecc.
Sul piano mediatico sarebbe stato evento storico, mannaggia quel rinvio a giudizio. I riflettori avrebbero puntato quel pizzico di cenere sul catramino, la commozione avrebbe fatto il resto squagliando il fard, ecc.
Momento topico al Memento mori: una toccatina di palle immortalata dalle telecamere. E lì polemiche, anche aspre, ecc.
Poi finalmente il Fisichella a spiegare: non era gesto scaramantico ma istintiva reazione a una fitta di rimorso, il contesto la legittimava, ecc.


venerdì 4 marzo 2011

Un goccio di morfina e un bacio al crocifisso


L’esame del progetto di legge che dovrebbe “impedire il ripetersi di casi come quelli di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro” – così nelle dichiarazioni dei fautori e dei sostenitori – slitta ad aprile. C’è ancora tempo, insomma, perché i contrari all’autodeterminazione dell’individuo continuino ad interrogarsi e a dividersi, come di fatto è già, tra chi ritiene che la legge sia indispensabile (a fare barricate su ogni caso Welby ed ogni caso Englaro a venire, la magistratura le spazzerebbe via, come ha già fatto) e chi pensa che sia “meglio nessuna legge che questa legge” (una bocciatura della Corte Costituzionale o un’abrogazione referendaria potrebbero spianare la via all’eutanasia, per abbrivio).
Ferma restando la comune convinzione che la vita non appartenga all’individuo, ora discutono sul piano della bassa convenienza se sia meglio collezionare tante piccole sconfitte o rischiarne una sola, ma bella grossa. Ed è spaccatura. Per esempio: Avvenire vuole la legge, Il Foglio dice che è meglio di no. E fin dentro il governo: Roccella sì, Bondi no.
I contrari all’autodeterminazione, ma contrari pure a una legge che la neghi esplicitamente, trovano sponda insperata nei favorevoli all’autodeterminazione che, per diversa premura, pensano che sia “meglio nessuna legge che questa legge”: Stefano Rodotà, Ignazio Marino, Roberto Saviano, ecc. Anche questa, come le altre parti in causa, ha le sue buone ragioni: più nessun giudice a Berlino, con una legge come quella.
Come vedete, tutti mostrano coerenza. I preti vogliono che la vita sia dichiarata indisponibile da una legge che recepisca il magistero morale della Chiesa: coerenti nel premere per avere, nero su bianco, quello che Silvio Berlusconi ha promesso meno di due settimane fa.
I loro compagni di merenda, atei ma devoti, sono mossi da sano senso pratico e un certo naso: si accontentano di rompere il cazzo, ora a un Welby e ora a un’Englaro; e sono anche disposti a rassegnarsi del vederli trovare un giudice a Berlino, prima o poi; ma, a monito e deterrenza, mirano almeno a ribadire che ci sono cose che si possono fare, ma illegalmente, e dunque con discrezione, per non dare il cattivo esempio ai poveri di spirito. Nessuna contraddizione: è l’altra faccia del Catechismo, quella che torna comodo a chi divide gli uomini in pastori e pecore, nella certezza di avere nell’ovile dignità di cane.
Coerenti pure Rodotà, Marino, Saviano, ecc. Se il progetto di legge è accantonato, rimane uno spiraglio. Per quanto stretto sia, meglio che niente.

Tutti hanno ragione, e allora c’è bisogno di qualcuno che si pigli il carico di aver torto, e me lo piglio io. Io ritengo che la cosa migliore sia che la legge passi, che la Corte Costituzionale non la bocci e a un eventuale referendum non si raggiunga il quorum: ritengo che la cosa migliore sia che gli italiani abbiano quello che in fondo meritano. Essendo in favore del testamento biologico al 67,4% e non riuscendo a esprimersi così in Parlamento. Devono continuare a implorare un goccio di morfina in cambio di un bacio al crocifisso. Sennò non imparano.


Suore stuprate da preti


“Vatican confirms report of sexual abuse and rape of nuns by priests in 23 countries” è notizia vecchia di dieci anni, ma ritorna come nuova in queste ore, naturalmente assai strillata. Temo che si tratti di un banale errore e credo di sapere come possa essersi verificato. La scorsa settimana, il 25 febbraio, Richard Dawkins ha ripreso sul suo blog l’articolo di Frances Kennedy per The Indipendent del 21 marzo 2001, ma senza aggiungervi commento e, anche se ha correttamente linkato l’articolo, tutti devono aver pensato che si trattasse di attualità. È errato anche che la notizia sia stata data la scorsa settimana dal National Catholic Report, che invece si limitò solo a riprenderla, a suo tempo, il 6 aprile 2001, insieme alle rivelazioni di una delle vittime.
Tutto il resto è vero, naturalmente: suore stuprate da preti per anni, qualcuna costretta ad abortire, tutte costrette a tacere sotto minaccia, fino allo scoppio del bubbone, con le rivelazioni di una di loro; vero anche che nel 2001 la Congregazione per il Clero ammise i fatti. Ma – appunto – dieci anni fa.

[L’11 gennaio 2004 uscì su il Riformista un mio articolo a commento del messaggio che Giovanni Paolo II aveva inviato ad un simposio internazionale sul tema “Dignità e diritti della persona con handicap mentale” a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel quale affermava che anche i soggetti con handicap mentale avessero diritto di amare e di essere amati e “bisogno di tenerezza, di vicinanza, di intimità”. Mi chiedevo come si sarebbe potuto evitare che ci fossero gravidanze e provocatoriamente scrivevo: “Si intende formulare una deroga al divieto di quella contraccezione alla quale la Chiesa si ostina ad essere contraria tranne che per le suore missionarie in terra d’Africa?”. Questo sembrò offensivo ad un lettore che mi scrisse per chiedermi donde avessi tratto informazione. Mi limitai a inviargli il link dell’articolo di Frances Kennedy, accompagnandolo con la testimonianza resami da due suore: mia zia e una sua consorella.]