“Portare le arance in galera a qualcuno” è un modo di dire, d’altra parte sono ormai decenni che i regolamenti carcerari lo vietano. Anche “lobbista di rango” dev’essere un modo di dire, perché Luigi Bisignani è solo un faccendiere che finora aveva avuto molto culo e una qualche indubbia qualità. Anche il suo potere è sempre stato molto sopravvalutato: negli ultimi vent’anni ha senza dubbio realizzato una solida e vasta rete di relazioni che si è estesa in molti ambienti (finanza, politica, informazione, magistratura), non di rado lambendone altri mal definibili, ma non è affatto – non lo è mai stato – più potente di Berlusconi, come quest’ultimo ebbe a dire qualche anno fa. È che la tentazione a immaginare che il potere sia incarnato da singoli individui, in un paese dove l’individuo è sempre e solo la funzione istantanea di un gruppo (famiglia, clan, cordata, ecc.), dà luogo ad artefatti di responsabilità e merito personale che stanno sempre tra il millantato credito e la leggenda. Saranno i magistrati a stabilire se Luigi Bisignani abbia cumulato reati penali in questi ultimi vent’anni, da quando fu provato che da direttore delle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi aveva violato la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, ma sarà molto difficile, anche se pare che sia disposto a collaborare con gli inquirenti che hanno chiesto e ottenuto la misura cautelare che è stata disposta nei suoi confronti e della quale – si badi bene – finora non è stata chiesta revoca dalla difesa. Probabilmente non si avrà mai conferma di quello Gianni Barbacetto e AlbertoStatera hanno scritto tra le righe dei tanti inoppugnabili riscontri da essi prodotti negli ultimi loro articoli per Il Fatto e la Repubblica, e la pagina di Wikipedia alla voce Luigi Bisignani è la miglior prova che a “Gigi il Federatore” può essere dedicata – con maggior profitto – l’attenzione che merita un epifenomeno: più che a un attore, siamo di fronte a una scena. Se la penultima parola spetterà ai giudici, non ci resta che osservare la scena e cercare di capire come Luigi Bisignani sia venuto a ritagliarsi la parte. In tal senso può servirci più sentirlo parlare che costruire ipotesi. E può servirci più seguire le sue tracce dall’entrata in scena che interrogarci sul ruolo interpretato negli ultimi decenni. È nella sua preistoria, nei primi passi mossi, che forse può venirci qualche indicazione sul mondo che gli si è andato a costruire intorno.
Cominciamo dal 26 marzo 1988, quando Lino Jannuzzi lo intervista per Radio Radicale sulla sua prima fatica letteraria (Il sigillo della porpora, Rusconi 1988). Ci parla di sé, ma non solo di sé. Perfino la trama della sua spy story è assai più reale delle supposizioni che oggi vengono imbastite sulla sua persona.
Notevole è il suo sottolineare la casualità dell’interessamento di Giulio Andreotti al suo romanzo, come se non avesse lavorato come capo ufficio stampa di un ministro del governo Andreotti, Gaetano Stammati.
Sei anni dopo, il 12 gennaio 1994, Luigi Bisignani è testimone indagato in reato connesso al processo Cusani (“affare Enimont”). Antonio Di Pietro lo interroga sul ruolo che egli avuto nell’apertura di un conto bancario presso lo Ior (Fondazione San Serafino) sul quale sono transitati più di 140 miliardi delle vecchie lire. Dai servizi che ha svolto in favore del gruppo Ferruzzi, per mandato di Cusani, Bisignani ha ricavato poco più di 4 miliardi (poi si scoprirà che ha anche fatto la cresta sui CCT che depositava allo Ior), ma veste un profilo basso, da postino che sa poco o niente. Tuttavia, in queste prime tre sezioni delle quattro relative a questa udienza, delinea il suo ruolo di tramite tra i reflui della maxitangente Enimont e lo Ior (più tardi Gianluigi Nuzzi ne tratterà in Vaticano SpA, Chiarelettere 2009), nonché tra la politica (Cirino Pomicino) e la finanza (Gardini).
En passant, deve essere sottolineata la grassa ignoranza di cose vaticane esibita da Di Pietro in questa circostanza. Per quanto riguarda Bisignani siamo ai limiti della reticenza: più tardi si saprà che lo Ior fungeva da deposito, tenendo per sé gli interessi (copertura: aiuto ai bambini leucemici), e questo Bisignani non poteva ignorarlo. Tuttavia, infarcendo la sua testimonianza di “credo”, “immagino”, “può darsi”, “non posso escluderlo”, banalizza il ruolo della banca vaticana e soprattutto il suo. Solo più tardi si saprà che Gardini ebbe a lamentarsi non poco di quanto fosse costato il servizio dello Ior tra commissioni e creste (più di 10 miliardi).
Notevole è la chiusa della testimonianza, relativa al compenso che Bisignani riceve per i suoi servizi:
È solo nell’udienza di tre settimane dopo, il 2 febbraio 1994, che nel confronto voluto da Di Pietro tra Bisignani e Sama per sostanziare esattamente il ruolo del primo, fin lì reso quasi evanescente dalle sue vaghezze, che tutto si chiarisce, almeno in parte. E qui fa la comparsa – per la prima volta, credo – quello che poi sarà il carattere più distintivo delle operazioni che a Bisignani vengono attribuite dalla stampa posteriore. Lungi dall’essere ciò che abitualmente viene inteso come potere, è il riconoscergli da parte dei soci in affare (dai complici, eventualmente) la capacità di gestire al meglio la zona grigia tra la responsabilità del capitale, inteso come valore nominalmente attribuibile ad un soggetto, e quanto ne deriva in utile alle figure che hanno mandato a gestirne l’azione. Qui Bisignani si dimostra tutt’altro che lobbista (tanto meno di rango, come vorrebbe Giuliano Ferrara), ma mero faccendiere che nasce e muore come parassita del sistema (qui del finanziamento illecito ai partiti politici).
Ferrara dà la definizione di “lobbista” a chi “ha una robusta rete di relazioni in ogni ambiente sociale e politico e imprenditoriale, combina rapporti d’affari, maneggia le informazioni economiche e politiche riservate, è un esperto conoscitore delle burocrazie e del management pubblico, briga per le nomine dei potenti di stato, garantisce tutti con la sua riservatezza” (Il Foglio, 17.6.2011). È un profilo che Bisignano non veste bene: fa finta che non siano i suoi abiti, tacitamente ricatta i suoi soci d’affari perché confermino la sua versione che in quegli abiti si trovi per caso. Sarà così per i prossimi vent’anni: nella parte finale del confronto tra Bisignani e Sama affiora un personaggio già inservibile alla Prima Repubblica e già indispensabile alla Seconda. Come abbiamo già sentito dalla sua voce, Bisignani rigetta il ruolo del lobbista e nega quello che Sama finisce per dover implicitamente svelare: quello del figlio di puttana.
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