Massimo Gramellini e Michele Serra hanno raccolto critiche severe fino al biasimo, da destra e da sinistra, per aver messo in discussione l’assunto egalitario che sta a fondamento della democrazia nel principio di universalità dell’elettorato attivo e di quello passivo.
Il primo, infatti, ha scritto che «la prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia», perché «una parte non piccola degli elettori è così immatura da privilegiare i peggiori», sicché «per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto» (La Stampa, 3.11.2011).
In piena sintonia con Gramellini, Serra ha lamentato che «l’uomo della strada, con tutta la sua spensierata dabbenaggine, è arrivato al vertice»: «Pensavano – ha scritto – che la democrazia fosse una selezione dei migliori. Aperta a tutti, ma destinata a individuare i migliori. Il vecchio concetto di classe dirigente, insomma. Ritrovarsi rappresentati nel mondo da uno che pensa e parla come l’ultimo di noi è un bruciante fallimento. Votare per uno “come noi” significa sprecare il voto e sprecare la democrazia» (la Repubblica, 5.11.2011).
Entrambi hanno mostrato di aver ben presente l’obiezione che sarebbe stata mossa loro, ma si sono limitati a respingerla in modo goffo, comunque inefficace. Gramellini ha detto che la sua critica al suffragio universale era «aristocratica solo in apparenza», perché la sua proposta di «un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione» non mirava a un governo degli ottimi, ma solo dei migliori («megliocrazia»), come alternativa al «governo dei peggiori» (dei pessimi). Stesso espediente è stato usato da Serra per attenuare «migliore» da superlativo a comparativo: «Vogliamo votare per uno che sia migliore di noi». È evidente, tuttavia, che «uno migliore di» quanti hanno diritto di voto (previo superamento di un esame o meno) sia, di fatto, «il migliore di» tutti.
Di fatto, in Gramellini e Serra, è evidente il cedimento a una tentazione che accompagna la democrazia fin dalla sua nascita, e che è quella di ritenere che un sistema democratico possa funzionare «al meglio» (sennò – prima o poi – «al peggio») solo se informata da un principio che in ultima analisi è morale, perché rimanda a meriti che al loro grado di eccellenza sono sempre traducibili in virtù, anche quando non attengono alla sfera morale propriamente intesa. La democrazia funzionerebbe solo quando alcune virtù siano apprezzate da una larga maggioranza di elettori e incarnate da un largo numero di eletti: in pratica, quando gli elettori riconoscano negli eletti quel «bene» che in un monarca illuminato è riconosciuto dai suoi sudditi. Viva la volontà della maggioranza, ma a patto che essa sia capace di esprimere nei suoi rappresentanti il massimo grado di virtù al quale è necessario tendere.
Questa pretesa rivela lo stesso pessimismo sulla natura umana che è proprio dei moralisti inclini ad essere scettici della democrazia, ed è superfluo aggiungere che si inscrive nella stessa logica che porta gli ottimisti a ricercare il «bene» che sarebbe nel fondo della natura umana sradicando il male che lo corrompe. Si tratta, insomma, di una delle due facce della stessa idea di società come rappresentazione di un eterno conflitto morale tra «bene» e «male», categorie che inevitabilmente portano alla costruzione di un sistema dispotico, nel quale ai «buoni» è dato potere sui «cattivi». Suppongo sia altrettanto superfluo aggiungere che il piano morale sul quale si consuma questo conflitto non è mai così solido come vorrebbe chi ritiene che la natura umana sia immutabile nel tempo e nello spazio, e che il «bene comune» sia un valore definibile una volta per tutte.
Se non si abbandona il principio del «bene comune» (che è proprio di ogni sistema retto sull’assunto di una radice trascendente della natura umana) in favore di quello utilitaristico della «maggiore felicità per il maggior numero di individui» (Bentham) – se, cioè, non si sostituisce alla categoria del «bene» quella dell’«utile» – non se ne esce. Perché una democrazia funzioni non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia: è necessario che essi siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui. Non abbiamo bisogno di un monarca illuminato o di una oligarchia di anime belle, ma di una liberaldemocrazia che fondi su poche regole, ma severe, tutte riassumibili in una: ti è vietato imporre ad altri ciò che ritieni «bene» per te. Antidoto alla «peggiocrazia», ma anche alla tentazione di una soluzione aristocratica.
Entrambi hanno mostrato di aver ben presente l’obiezione che sarebbe stata mossa loro, ma si sono limitati a respingerla in modo goffo, comunque inefficace. Gramellini ha detto che la sua critica al suffragio universale era «aristocratica solo in apparenza», perché la sua proposta di «un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione» non mirava a un governo degli ottimi, ma solo dei migliori («megliocrazia»), come alternativa al «governo dei peggiori» (dei pessimi). Stesso espediente è stato usato da Serra per attenuare «migliore» da superlativo a comparativo: «Vogliamo votare per uno che sia migliore di noi». È evidente, tuttavia, che «uno migliore di» quanti hanno diritto di voto (previo superamento di un esame o meno) sia, di fatto, «il migliore di» tutti.
Di fatto, in Gramellini e Serra, è evidente il cedimento a una tentazione che accompagna la democrazia fin dalla sua nascita, e che è quella di ritenere che un sistema democratico possa funzionare «al meglio» (sennò – prima o poi – «al peggio») solo se informata da un principio che in ultima analisi è morale, perché rimanda a meriti che al loro grado di eccellenza sono sempre traducibili in virtù, anche quando non attengono alla sfera morale propriamente intesa. La democrazia funzionerebbe solo quando alcune virtù siano apprezzate da una larga maggioranza di elettori e incarnate da un largo numero di eletti: in pratica, quando gli elettori riconoscano negli eletti quel «bene» che in un monarca illuminato è riconosciuto dai suoi sudditi. Viva la volontà della maggioranza, ma a patto che essa sia capace di esprimere nei suoi rappresentanti il massimo grado di virtù al quale è necessario tendere.
Questa pretesa rivela lo stesso pessimismo sulla natura umana che è proprio dei moralisti inclini ad essere scettici della democrazia, ed è superfluo aggiungere che si inscrive nella stessa logica che porta gli ottimisti a ricercare il «bene» che sarebbe nel fondo della natura umana sradicando il male che lo corrompe. Si tratta, insomma, di una delle due facce della stessa idea di società come rappresentazione di un eterno conflitto morale tra «bene» e «male», categorie che inevitabilmente portano alla costruzione di un sistema dispotico, nel quale ai «buoni» è dato potere sui «cattivi». Suppongo sia altrettanto superfluo aggiungere che il piano morale sul quale si consuma questo conflitto non è mai così solido come vorrebbe chi ritiene che la natura umana sia immutabile nel tempo e nello spazio, e che il «bene comune» sia un valore definibile una volta per tutte.
Se non si abbandona il principio del «bene comune» (che è proprio di ogni sistema retto sull’assunto di una radice trascendente della natura umana) in favore di quello utilitaristico della «maggiore felicità per il maggior numero di individui» (Bentham) – se, cioè, non si sostituisce alla categoria del «bene» quella dell’«utile» – non se ne esce. Perché una democrazia funzioni non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia: è necessario che essi siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui. Non abbiamo bisogno di un monarca illuminato o di una oligarchia di anime belle, ma di una liberaldemocrazia che fondi su poche regole, ma severe, tutte riassumibili in una: ti è vietato imporre ad altri ciò che ritieni «bene» per te. Antidoto alla «peggiocrazia», ma anche alla tentazione di una soluzione aristocratica.