Massimo Gramellini e Michele Serra hanno raccolto critiche severe fino al biasimo, da destra e da sinistra, per aver messo in discussione l’assunto egalitario che sta a fondamento della democrazia nel principio di universalità dell’elettorato attivo e di quello passivo.
Il primo, infatti, ha scritto che «la prevalenza del cretino, o comunque del mediocre, raggiunge la sua apoteosi in quella caricatura di democrazia che è diventata la nostra democrazia», perché «una parte non piccola degli elettori è così immatura da privilegiare i peggiori», sicché «per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto» (La Stampa, 3.11.2011).
In piena sintonia con Gramellini, Serra ha lamentato che «l’uomo della strada, con tutta la sua spensierata dabbenaggine, è arrivato al vertice»: «Pensavano – ha scritto – che la democrazia fosse una selezione dei migliori. Aperta a tutti, ma destinata a individuare i migliori. Il vecchio concetto di classe dirigente, insomma. Ritrovarsi rappresentati nel mondo da uno che pensa e parla come l’ultimo di noi è un bruciante fallimento. Votare per uno “come noi” significa sprecare il voto e sprecare la democrazia» (la Repubblica, 5.11.2011).
Entrambi hanno mostrato di aver ben presente l’obiezione che sarebbe stata mossa loro, ma si sono limitati a respingerla in modo goffo, comunque inefficace. Gramellini ha detto che la sua critica al suffragio universale era «aristocratica solo in apparenza», perché la sua proposta di «un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione» non mirava a un governo degli ottimi, ma solo dei migliori («megliocrazia»), come alternativa al «governo dei peggiori» (dei pessimi). Stesso espediente è stato usato da Serra per attenuare «migliore» da superlativo a comparativo: «Vogliamo votare per uno che sia migliore di noi». È evidente, tuttavia, che «uno migliore di» quanti hanno diritto di voto (previo superamento di un esame o meno) sia, di fatto, «il migliore di» tutti.
Di fatto, in Gramellini e Serra, è evidente il cedimento a una tentazione che accompagna la democrazia fin dalla sua nascita, e che è quella di ritenere che un sistema democratico possa funzionare «al meglio» (sennò – prima o poi – «al peggio») solo se informata da un principio che in ultima analisi è morale, perché rimanda a meriti che al loro grado di eccellenza sono sempre traducibili in virtù, anche quando non attengono alla sfera morale propriamente intesa. La democrazia funzionerebbe solo quando alcune virtù siano apprezzate da una larga maggioranza di elettori e incarnate da un largo numero di eletti: in pratica, quando gli elettori riconoscano negli eletti quel «bene» che in un monarca illuminato è riconosciuto dai suoi sudditi. Viva la volontà della maggioranza, ma a patto che essa sia capace di esprimere nei suoi rappresentanti il massimo grado di virtù al quale è necessario tendere.
Questa pretesa rivela lo stesso pessimismo sulla natura umana che è proprio dei moralisti inclini ad essere scettici della democrazia, ed è superfluo aggiungere che si inscrive nella stessa logica che porta gli ottimisti a ricercare il «bene» che sarebbe nel fondo della natura umana sradicando il male che lo corrompe. Si tratta, insomma, di una delle due facce della stessa idea di società come rappresentazione di un eterno conflitto morale tra «bene» e «male», categorie che inevitabilmente portano alla costruzione di un sistema dispotico, nel quale ai «buoni» è dato potere sui «cattivi». Suppongo sia altrettanto superfluo aggiungere che il piano morale sul quale si consuma questo conflitto non è mai così solido come vorrebbe chi ritiene che la natura umana sia immutabile nel tempo e nello spazio, e che il «bene comune» sia un valore definibile una volta per tutte.
Se non si abbandona il principio del «bene comune» (che è proprio di ogni sistema retto sull’assunto di una radice trascendente della natura umana) in favore di quello utilitaristico della «maggiore felicità per il maggior numero di individui» (Bentham) – se, cioè, non si sostituisce alla categoria del «bene» quella dell’«utile» – non se ne esce. Perché una democrazia funzioni non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia: è necessario che essi siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui. Non abbiamo bisogno di un monarca illuminato o di una oligarchia di anime belle, ma di una liberaldemocrazia che fondi su poche regole, ma severe, tutte riassumibili in una: ti è vietato imporre ad altri ciò che ritieni «bene» per te. Antidoto alla «peggiocrazia», ma anche alla tentazione di una soluzione aristocratica.
Entrambi hanno mostrato di aver ben presente l’obiezione che sarebbe stata mossa loro, ma si sono limitati a respingerla in modo goffo, comunque inefficace. Gramellini ha detto che la sua critica al suffragio universale era «aristocratica solo in apparenza», perché la sua proposta di «un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione» non mirava a un governo degli ottimi, ma solo dei migliori («megliocrazia»), come alternativa al «governo dei peggiori» (dei pessimi). Stesso espediente è stato usato da Serra per attenuare «migliore» da superlativo a comparativo: «Vogliamo votare per uno che sia migliore di noi». È evidente, tuttavia, che «uno migliore di» quanti hanno diritto di voto (previo superamento di un esame o meno) sia, di fatto, «il migliore di» tutti.
Di fatto, in Gramellini e Serra, è evidente il cedimento a una tentazione che accompagna la democrazia fin dalla sua nascita, e che è quella di ritenere che un sistema democratico possa funzionare «al meglio» (sennò – prima o poi – «al peggio») solo se informata da un principio che in ultima analisi è morale, perché rimanda a meriti che al loro grado di eccellenza sono sempre traducibili in virtù, anche quando non attengono alla sfera morale propriamente intesa. La democrazia funzionerebbe solo quando alcune virtù siano apprezzate da una larga maggioranza di elettori e incarnate da un largo numero di eletti: in pratica, quando gli elettori riconoscano negli eletti quel «bene» che in un monarca illuminato è riconosciuto dai suoi sudditi. Viva la volontà della maggioranza, ma a patto che essa sia capace di esprimere nei suoi rappresentanti il massimo grado di virtù al quale è necessario tendere.
Questa pretesa rivela lo stesso pessimismo sulla natura umana che è proprio dei moralisti inclini ad essere scettici della democrazia, ed è superfluo aggiungere che si inscrive nella stessa logica che porta gli ottimisti a ricercare il «bene» che sarebbe nel fondo della natura umana sradicando il male che lo corrompe. Si tratta, insomma, di una delle due facce della stessa idea di società come rappresentazione di un eterno conflitto morale tra «bene» e «male», categorie che inevitabilmente portano alla costruzione di un sistema dispotico, nel quale ai «buoni» è dato potere sui «cattivi». Suppongo sia altrettanto superfluo aggiungere che il piano morale sul quale si consuma questo conflitto non è mai così solido come vorrebbe chi ritiene che la natura umana sia immutabile nel tempo e nello spazio, e che il «bene comune» sia un valore definibile una volta per tutte.
Se non si abbandona il principio del «bene comune» (che è proprio di ogni sistema retto sull’assunto di una radice trascendente della natura umana) in favore di quello utilitaristico della «maggiore felicità per il maggior numero di individui» (Bentham) – se, cioè, non si sostituisce alla categoria del «bene» quella dell’«utile» – non se ne esce. Perché una democrazia funzioni non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia: è necessario che essi siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui. Non abbiamo bisogno di un monarca illuminato o di una oligarchia di anime belle, ma di una liberaldemocrazia che fondi su poche regole, ma severe, tutte riassumibili in una: ti è vietato imporre ad altri ciò che ritieni «bene» per te. Antidoto alla «peggiocrazia», ma anche alla tentazione di una soluzione aristocratica.
interessante, ma non tutti quelli che esprimono questo tipo di opinioni vogliono discriminare il diritto di voto sulla base di principi morali; anzi, è possibile discernere proprio sulla base del principio di utilità evocato da questo post. È utile il voto di un cittadino disinformato e indifferente, o è dannoso? Iniziamo ad essere in molti a pensare che sia dannoso. Tutti aristocratici? Tutti pessimisti sulla natura umana?
RispondiEliminaLa proposta di Gramellini di testare l'abilità al voto con un test di educazione civica e conoscenza della Costituzione non è subordinarla ad un pregiudizio morale, ma semplicemente assicurarsi che chi è chiamato ad esprimere la propria opinione sappia almeno per sommi capi quello di cui si sta parlando. Perché in assenza di questo quali altre motivazioni ci sono per votare? Ottusa partigianeria (che confina con la violenza ideologica) o perseguimento di scopi meschini ed individuali (il che confligge con lo scopo della democrazia).
@Giuda: Il perseguimento di scopi individuali confligge con la democrazia? Mi arrischio a dire che è l'esatto contrario, di più, che la democrazia è storicamente emersa per garantire al singolo il perseguimento dei suoi scopi individuali senza che venisse il micheleserra di turno a spiegargli qual era il suo bene, o quello collettivo che, come ogni totalitarista si affanna a spiegarci (per il nostro bene, ovvio), non coincide, giammai, con la somma dei nostri "meschini" scopi individuali.
RispondiElimina@ Giuda
RispondiEliminaIl suo argomento è valido solo nella convinzione di poter espungere dal genere umano l'ottusa partigianeria e il perseguimento di scopi meschini. Vaste programme, direi. Se mi è consentito attribuirgli una filosofia, direi sia quella del "pessimismo della ragione" e dell'"ottimismo della volontà": e ritorniamo al "pessimo" e all'"ottimo" che rimandano a un "bene" che è tutto da decidere. E da chi?
@ Francesco P.
RispondiEliminaPerfetto.
Ok, giusto, ma che cambia? Che le elezioni non le ha vinte il peggiore ma il più inutile, ossia quello che sta causando la maggiore infelicità per il maggior numero di persone? E che alle prossime elezioni avremo tanti inutili inetti fra cui scegliere quello che, secondo il nostro parere distorto, miope, malinformato, dovrebbe essere meno inutile fra i suoi pari?
RispondiEliminaAlla fonte di questi ragionamenti distorti che vengono richiamati nel post credo che vi sia, tra le altre cose, una diffusa ignoranza in Italia del concetto di democrazia in generale ed in particolare di tutto quello che è il contesto in cui è emersa e si è affermata la democrazia americana (tanto che negli anni di scuola tutti gli insegnanti e i libri di testo avevano finito per convincermi che la rivoluzione americana fosse una specie di plastico in scala ridotta della grandissima, inimitabile e irripetibile esperienza della rivoluzione francese).
RispondiEliminaDico questo perché i padri fondatori della Costituzione americana ritengo che furono i più chiari (o se non altro i primi) ad esprimere a chiare lettere il pensiero cardine secondo cui l'elemento di suffragio diffuso non è affatto la condizione necessaria e sufficiente perché un sistema possa dirsi democratico, ma è solo una delle varie condizioni necessarie. Dire "democrazia" non è sinonimo di "votano tutti", ma di "votano tutti essendo liberi e consapevoli", mentre in Italia ho spesso la sensazione che a tutti i livelli, anche tra chi si presume che abbia studiato, tenda a prevalere l'accezione semplificata e zoppa di democrazia.
Non si può prescindere da una corretta informazione sui fatti, né da una diffusione della cultura e della conoscenza, se si vuol parlare di democrazia. Dopo di che, i cittadini che permarranno nella loro chiusura avranno tutto il diritto di votare, come tutti gli altri.
Se in una data democrazia zoppicante si riscontra una diffusa ignoranza sui principi alla base del dritto, eccetera eccetera, l'unica medicina è l'avanzamento della cultura, della conoscenza e la stimolazione dello spirito critico in tutti (libera circolazione delle idee, libertà di espressione e libertà di stampa, promozione della conoscenza), e non certo la condanna di chi non ha avuto i mezzi per rendersi cittadino più arguto all'oblio definitivo ed irreversibile rispetto alla società di cui fa parte, verosimilmente insieme a tutti i suoi figli e discendenti. Una democrazia compiuta avrebbe già entro di sé tutti gli elementi atti a scongiurare una deriva autolesionista a lungo termine, perché è questo mi pare ciò di cui si parli in Italia oggi. Non c'è quindi bisogno quindi di eliminare la democrazia ma più semplicemente di introdurla realmente.
Postilla: la logica dell'approccio dei due scrittori fa comunque acqua, perché non c'è differenza tra dire "il governo deve essere imposto" e "può votare solo chi vota il governo che deve vincere".
Ma non dovrebbe essere compito della scuola (povera scuola, quante cose sul groppone!) quello di educare i cittadini così che con il diploma di maturità sia rilasciato nella società un cittadino (in)formato e consapevole? Gli strumenti per avere buoni cittadini ci sono, bisogna chiedersi perché non funzionano.
RispondiEliminaChiunque non si limiti solo ad aspirare a un sistema in cui prevalga "il meglio" per tutti, ma nutra addirittura fiducia nella sua automatica realizzazione, date certe premesse, dimostra di non conoscere affatto il funzionamento d'un sistema complesso (ad esempio, quello evolutivo), che si sviluppa secondo equilibri successivi di fasi caotiche, impossibili da prevedersi.
RispondiEliminaInoltre, poiché in un sistema complesso il tutto differisce comunque dalla semplice somma delle sue parti, neppure se fossero sempre e solo "i migliori" a condurre il gioco, ciò darebbe una qualche garanzia di buon risultato.
Sostituire la ricerca del bene con la ricerca dell'utile è molto interessante.
RispondiEliminaEffettivamente libera le nostre azioni dalla morale (non faccio ciò che è moralmente giusto, cioè il bene appunto) e ci permette di agire secondo il princinpio della «maggiore felicità per il maggior numero di individui».
Però, Malvino, convieni con me che anche l'utilitarismo è qualcosa di "soggettivo". Dirò di più, leggendo questo post si ha l'impressione che la morale esca dalla porta per entrare subito dalla finestra. Ed è un gran peccato viste le premesse.
Francès
@ Francesco
RispondiEliminaE' obiezione che fu sollevata a Bentham, ma controbiettò che il soggettivismo della morale pretende un riconoscimento di oggettività in forza di una indimostrata e peraltro indimostrabile trascendenza che la informerebbe, mentre il soggettivismo dell'utile di ciascuno deve giocoforza rinunciare a quella pretesa dovendo farsi tale per il maggior numero di individui. Non si segnalarono contestazioni efficaci, se non invocando quelle che Bentham dimostrò essere "fallacies of authority", tautologie sofistiche che chiamavano ad argomento il fatto che la politica avesse sempre avuto il "bene comune" come suo fine, senza peraltro realizzarlo mai se non in favore della classe sociale dominante sulle altre. Non invoco l'autorità di Bentham e penso che la questione resti aperta. Tu come la chiuderesti?
@ Malvino
RispondiEliminaFacciamo un passo indietro.
Per Bentham l'utile non è altro che la ricerca del piacere (o gioia o felicità che sia) per il maggior numero di individui possibile.
Fin qui, non ci piove.
Se poi vogliamo andare ancora più a fondo, Bentham ci spiega anche come questa ricerca del piacere abbia un presupposto quasi matematico: il cosiddetto calcolo (quantitativo) dei piaceri.
Da ciò si può più o meno facilmente dedurre che la teoria di Bentham, per quanto ad effetto, cada proprio sulla moralità (che era uno suoi principi fondamentali).
Brillante intuizione contestare l'idea di "bene comune", meno geniale la spiegazione del concetto di utilità.
Praticamente cambia la ricetta del biscotto, ma la formina (la morale!) rimane sempre la stessa. Capisci?
Se da un lato la ricerca dell'utile affascina, dall'altro delude perché non si approda mai a una "sicurezza scientifica": la morale, punto di forza dell'utilitarismo, può clamorosamente ribaltare la “positività” di un'azione. E così un'azione che sembra essere "utile" al maggior numero di individui possibile può finire per essere "conveniente" al maggior numero di individui possibile.
Un esempio classico e banale potrebbe essere una clamorosa decisione popolare di non pagare più le tasse. Se hai da obiettare che questa decisione è palesemente "deviante" (termine caro a Bentham!) e quindi non utile, ti pongo un altro esempio: l'aborto. Chi può contestarlo tout court? Ecco perché logica dell'utilitarismo vacilla pericolosamente: io posso votare l'aborto solo per trombare di più con la mia ragazza senza preservativo. Anche qui potresti obiettare che, in fin dei conti, si tratta di un piacere. Però siamo sicuri che non ci sia del marcio in questo ragionamento? Che utilità sociale ha la sommatoria di tanti egoismi personali?
Ma torniamo a noi.
Tu hai scritto che "non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia".
Bene, questa affermazione non mette in dubbio la concezione di base di Bentham? La morale è punto di forza o di debolezza?
E perché scrivi che "il soggettivismo dell'utile di ciascuno deve giocoforza rinunciare a quella pretesa dovendo farsi tale per il maggior numero di individui"? Mi pare che queste due forme di soggettivismo da te prese in considerazione abbiano qualcosa in comune...
In ultimo provo a rispondere alla tua (pesantissima) domanda.
Tremo un po’ nel dirlo. Dunque, io proporrei un metodo oggettivo e scientifico di valutazione. In altre parole, mi piacerebbe trovare un sistema in cui i presupposti utilitaristici di Bentham (sì, in fin dei conti potrebbero pure andar bene!) potessero reggere gli attacchi popperiani sulla tenuta scientifica. Insomma, un’idea astratta e molto vaga.
Ammetto che sono ben lontano da una soluzione concreta. E purtroppo non è così che si fa la storia.
Tu invece? Hai una proposta pratica più interessante?
Francès
PS: di Bentham apprezzo tantissimo le riflessioni sulle carceri e sul trattamento da riservare ai "prigionieri".
A me pare che anche sostituendo il concetto di bene con quello di utile, le provocazioni di Gramellini e Serra continuino a valere (le considero provocazioni perché inattuabili senza violare una pila di articoli costituzionali). Lasciamo pure fuori la morale e concentriamoci sull'utile: chi ci dice che il politico debba essere vincolato a creare le condizioni perché possano tendere al proprio utile "il maggior numero di individui"? E se costui indendesse l'utile per "il minor numero di cricche" ? Se l'elettore "peggiocrate" di Gramellini non ha gli strumenti o non sa capire che certe scelte non realizzano non solo il "bene" ma neppure l'utile (se non per i soliti) siamo di nuovo daccapo. E il discorso sul politico "migliore di me" lo interpreto banalmente come "più competente": in ultima analisi penso che all'aristocrazia dei genericamente "migliori" si possa sostituire quella dei più capaci: la tanto invocata meritocrazia che non mi pare abbia nulla di aristocratico, e soddisfa pure certi requisiti di misurabilità invocati da Francés. Ma qui ricasca l'asino: se chi deve misurare queste competenze (l'elettore) non lo sa fare o non è informato adeguatamente perché possa farlo, non se ne esce di nuovo. (Il fatto che regole elettorali porcata cerchino di impedirglielo esplicitamente significa che iil sistema è inemendabile). Infine, la morale: io non contesto la ministra che occupa lo scranno in virtù di certe prestazioni erotiche con il premier (caso di scuola, eh!, che mai potrebbe darsi in questo fantastico paese) per ragioni morali: ma perché far pompini non è requisito di idoneità per fare il ministro. Dunque utilitaristicamente quella persona non ha titoli per svolgere il compito assegnatole; perciò se occupa quel posto è per fare altro, certo non il "bene comune" e neppure preparare la felicità per il maggior numero, con buona pace e di Platone e Bentham.
RispondiEliminaEcco, se l'elettore X vota Y perché è gnocca o Z perché "è troppo ricco di suo per rubare", io continuo a considerarlo un cretino, nel senso del prof. Cipolla: uno che pur non portando benefici a se stesso riesce comunque a danneggiare gli altri. E certo strappargli la scheda elettorale è una misura illiberale; ma recargli in soccorso Bentham per permettergli di continuare ad essere idiota mi pare un riguardo eccessivo. Battute a parte, sempre stimolanti le discussioni ai post di Malvino.
Saluti
@ Francès
RispondiEliminaSollevi tre questioni che sono – in ordine – quella della difficoltà del “calcolo felicifico”, quella della differenza tra “utilitarismo dell’atto” e “utilitarismo della regola” e quella della “generalizzazione etica” della logica (uso la terminologia che si è venuta sviluppando attorno alla teoria dell’utilitarismo, in particolar modo grazie ai lavori di Sidgwick, Plamenatz, Narveson, ecc., ma che erano già configurati in Mill [Utilitarismo, 1863] e che permangono in Popper [La società aperta e i suoi nemici, 1945], in Burne [Bentham e il principio utilitaristico, 1949] e in Singer [Ruoli e principi morali, 1958]). L’obiezione di fondo che è sollevata in queste tre questioni è, tutto sommato, una sola, ed è la stessa che infatti sostiene gli argomenti che non hai fatto altro che riproporre nel tuo ultimo commento in forma senza dubbio più articolata rispetto al primo. L’obiezione di fondo assume come presupposto che la morale sia espressione di una “logica naturale”. Con o senza un Dio a dettare norme per questa logica, l’utilitarismo non sarebbe altro che una forma di moralismo o, viceversa, il buono non sarebbe altro che una fattispecie dell’utile. Se passa questo assunto, non si può che essere d’accordo con tutte le tue obiezioni, biscotto compreso. Il fatto è che “buono” e “utile” nascono da procedure argomentative differenti e mantengono caratteristiche diverse anche quando finiscono per somigliarsi, come in realtà accade negli esempi che di solito si costruiscono proprio sul filo dell’equipollenza tra ciò che morale e ciò che è utile.
Infatti tu dici: “La teoria di Bentham, per quanto ad effetto, cade proprio sulla moralità”. Ma questo accade appunto solo quando nell’utilitarismo non si fa distinzione tra regola e atto, e quando entrambi vengono considerati sotto il mero aspetto psicologico: è qui che la teoria di Bentham affascina, prima, e delude, poi. In altri termini (e usando uno degli esempi che fai): tu puoi votare in favore dell’aborto solo per trombare di più con la tua ragazza senza preservativo (atto), ma questo non può pregiudicare la decisione della tua ragazza di consentire ad abortire (regola), sicché ogni sostanza della questione è rimandata dalla morale (sacralità della vita) all’utile (autodeterminazione della donna). L’atto, come vedi, è condizionato dalla regola e gode di un’autonomia che non ha limiti posti dal “male” (in assoluto) ma dal “dannoso” per chi non sia disposto a sottoscrivere il tuo personale “calcolo felicifico”. Si tratta di un sistema logico, e non morale, entro il quale libertà e responsabilità non rispondono più alla logica cogente di una norma data prima e sopra di tutti, ma a quella di un calcolo che deve poter tornare – toh! – “utile” a ciascuno.
(segue)
RispondiEliminaE tuttavia – mi rendo conto – la questione non è chiusa. Però non può rimanere aperta sulla base del dubbio che avanzi: “Siamo sicuri che non ci sia del marcio in questo ragionamento?”. E infatti “marcio” somiglia più a “immorale” che a “inutile”. Quanto poi a quale utilità sociale abbia la sommatoria di tanti egoismi personali, la risposta sta nell’assunto della “maggiore felicità per il maggior numero”, il che onestamente non mi pare cosa… inutile.
Sì, ho detto che “non è necessario che gli eletti siano moralmente ineccepibili, anzi, questo può essere addirittura un pericolo per la stessa democrazia”, e lo ribadisco: se è la morale il requisito per scriminare l’efficacia dell’azione di governo, prima o poi sarà la morale a dettar legge e a prescrivere uniformità di costumi. È per questo che ho detto pure che “il soggettivismo dell’utile di ciascuno deve giocoforza rinunciare a quella pretesa dovendo farsi tale per il maggior numero di individui”: intendevo dire – se non era chiaro – che in ambito utilitaristico nessuna soggettività può avanzare la pretesa di oggettività che in ambito morale una soggettività avanza a priori.
E dunque, sì, possiamo prendere in considerazione “il metodo scientifico di valutazione” che proponi, ma dobbiamo togliergli quell’“oggettivo” che peraltro nessun scienziato sarebbe più disposto a sottoscrivere da quando la scienza ha minato il concetto classico di realtà, quello entro il quale Dio (sive Natura) avevano inscritto le norme di una logica tutta morale.
P.S. Ma guarda un po’. A me di Bentham quello che piace meno è proprio il suo Panopticon.
@ Tombeur De Livres
RispondiEliminaOgni provocazione deve avere un fine. Non riesco ad afferrare quello di Gramellini e di Serra. Nel primo caso, a superare un esame dovrebbe essere l’elettore; nel secondo, l’eletto. Chi dovrebbe esaminarli? A chi spetterebbe creare la commissione di esame? A chi toccherebbe stabilire i parametri sotto i quali sarebbe necessario bocciare? In qualsiasi modo si voglia porre queste domande, la risposta rimanda sempre ad una superiore autorità. Cosa la renderebbe tale? Un esame? Siamo punto e a capo. Un universale (o maggioritario) riconoscimento? Come stabiliamo chi sia idoneo o meno al voto per sancire questo riconoscimento? Non se ne esce: abbiamo bisogno che l’autorità si imponga come tale sulla base di una sua superiorità morale o di una sua forza affine alla violenza. Re o gran sacerdote, non se ne esce.
“Chi ci dice – chiedi – che il politico debba essere vincolato a creare le condizioni perché possano tendere al proprio utile «il maggior numero di individui»? E se costui indendesse l’utile per «il minor numero di cricche»?”. Mi pare che la domanda non abbia motivo di porsi: stiamo parlando di un sistema entro il quale all’eletto non è dato potere né eterno, né illimitato. Né Bentham, né gli altri utilitaristi si sono mai sognati di pensare a un sistema immobile o perfetto. E infatti il sistema di pesi e contrappesi che caratterizzano le costituzioni di ispirazione liberaldemocratica prendono più dalle teorie degli utilitaristi di scuola anglosassone che dai “romantici” di scuola francese o tedesca.
Infine: Bentham non viene in soccorso del “peggiocrate” mandato al potere dal “cretino”. Offre a tutti – indipendentemente dal giudizio sulle qualità intellettuali e morali di ciascuno, sulle quali sospende ogni giudizio – il principio che informa una liberaldemocrazia liberata dalle tentazioni oligarchiche.
La provocazione mi sembrava diretta al fatto che ormai troppi mancano di strumenti minimi per capire che utilitarismo non significa homo homini lupus. E se non ha senso pretendere un esame per gli aspiranti elettori, forse ne ha un po' di più chiedere che quell'esame venga fatto prima, sui banchi di scuola (santa ingenuità, me lo dico da solo)
RispondiEliminaI contrappesi sono una cosa bellissima, ma quando un'oligarchia (a proposito, sono forse meglio delle aristocrazie?) martella per anni considerandoli espressioni di una costituzione sovietica, mi pare che ci stiamo avvicinando ad erodere i fondamentali, e certi tipi di danno si mantengono per molto tempo. Io capisco che a sentir parlare di morale possano girare le scatole (sono fra quelli) e perciò ho suggerito che è preferibile parlare di governo dei più competenti anziché dei migliori. Affidarsi al fatto che il potere non è eterno e neppure illimitato mi sembra una consolazione magra: non è necessario un tempo o un potere infiniti per fare danni catastrofici, ma ammetto che questo è un eccesso di pessimismo della ragione. Il punto interessante mi pare l'ultima frase: che un principio astratto prescinda dalle qualità morali e intellettuali di ciascuno mi va bene, per l'appunto, in astratto. In pratica, meno. Per fare un esempio estremo è la stessa astrazione che in economia presuppone mani invisibili, informazioni perfette, razionalità assoluta. Poi in concreto quando questi requisiti mancano i mercati crollano e la mano invisibile ce la troviamo in quel posto. (A scanso di equivoci so che è un modello-giocattolo, ma è giusto per capirci) Ecco, credo che il mio modello di "cretino/peggiocrate" sia l'irruzione del reale nell'empireo della teoria. A questo punto vedo la provocazione in questi termini: ottimo che gli strumenti siano offerti a tutti, ma quel che succede quando molti di quei tutti non sanno che farsene, lo vediamo benissimo. Che fare ? Tutto qua.
Malvino, sei stato bravino a citarmi testi molto interessanti e che portano acqua al tuo mulino. Tuttavia risponderò colpo su colpo criticando ciò che hai scritto per render giustizia ai miei commenti passati.
RispondiEliminaNel post hai affermato che "è necessario che essi [gli eletti] siano in grado di costruire le opportunità perché si realizzino le condizioni dell’«utile» per il maggior numero di individui". Ti ricordo che Bernard Williams [Utilitarianism: For and Against, 1973, pp. 77-150] sostiene che con l'utilitarismo è possibile legittimare azioni “negative”: basta semplicemente non perdere di vista il benessere degli individui. Inoltre, Williams chiarisce che il concetto felicità è vago e indefinito (Malvino, rimembri ancora quel tempo…). Perdonami la battuta poco felice.
Hai proseguito scrivendo che l'utilitarismo va interpretato come un "sistema logico, e non morale, entro il quale libertà e responsabilità non rispondono più alla logica cogente di una norma data prima e sopra di tutti, ma a quella di un calcolo che deve poter tornare utile a ciascuno". Alt! Amartya Sen [Utilitarismo e oltre, 2002] è convinto che quanto appena detto non garantisce che siano prese in considerazione le idee e le singole necessità di una collettività. In altre parole, l’utilitarismo nega che fra un individuo e l’altro ci possano essere delle, seppur minime, differenze. Come può un singolo calcolo “tornare utile a ciascuno”? Rincaro la dose, se quanto affermi è vero, ci dovrebbe essere una maggioranza totale (100% di voti per un provvedimento o comunque un risultato che si avvicini a un tale punteggio) per il semplice fatto che tutti sono d’accordo con ciò che è “utile”.
Hai poi precisato che la mia obiezione "assume come presupposto che la morale sia espressione di una logica naturale". Errore! Prima ho scritto che "si ha l'impressione che la morale esca dalla porta per entrare subito dalla finestra" e poi che nonostante cambi la ricetta del biscotto, la formina (cioè la morale!) rimane sempre la stessa. Ho detto che il problema è che la morale si cela dietro a un sottile ragionamento e non mi importa che sia dettato da un dio o da una credenza popolare. La morale permette di scegliere in base a una credenza pregressa e senza la benché minima possibilità di una valutazione vera e proprio del problema che si ha davanti.
Infine scrivi che "l’atto è condizionato dalla regola e gode di un’autonomia che non ha limiti posti dal male (in assoluto) ma dal dannoso per chi non sia disposto a sottoscrivere il tuo personale calcolo felicifico”. Dunque, il livello di astrazione di questa affermazione è tale da vanificare ogni possibile riscontro pratico. È facile giocare con le parole ("male (assoluto)" vs "dannoso"). Infatti, secondo quale criterio si distingue la categoria del "male" dalla categoria del "dannoso"? Attraverso ciò che è utile? Ribadisco, siamo sicuri che ciò che io penso che sia utile alla maggior parte delle persone valga per tutti gli altri elettori? Oppure dobbiamo ritornare a scegliere la migliore azione utile alla maggior parte delle persone?
Grazie per l'attenzione e complimenti ancora per la tua cultura. Discutere con te mi fa onore.
Francès
@ Tombeur De Livres
RispondiEliminaRiconosco in me stesso, e sono disposto a riconoscerle potenti, pulsioni simili a quelle di Gramellini e Serra. Ma le combatto, perché si tratta - appunto - di pulsioni.
@ Francès
RispondiEliminaCiti Williams e Amartya Sen, che riprendono vecchi argomenti contro l'utilitarismo, sui quali ho già controargomentato. Rimarrebbe l'affermazione che "l’utilitarismo nega che fra un individuo e l’altro ci possano essere delle, seppur minime, differenze": non mi pare che Amartya Sen scriva proprio questo, ma in ogni caso è affermazione erronea, perché l'utilitarismo parte proprio dalla premessa che gli individui possono arrivare ad essere radicalmente diversi gli uni dagli altri, e che è proprio questo a rendere necessario un sistema entro il quale queste differenze non generino ineguaglianza di diritti e dunque ingiustizia.
Poi scrivi che ho frainteso, e che non mi stai riproponendo Platone, perché concedi che "la morale permette di scegliere in base a una credenza pregressa e senza la benché minima possibilità di una valutazione vera e propria del problema che si ha davanti". Bene, suppongo che tu abbia un altro criterio da proporre, superiore al "buono" e all'"utile": di grazia, quale? Temo che tu non abbia una risposta pronta, perché nell'ultimo capoverso, dopo aver definito "astruso" ciò che è semplicemente un argomento controintuitivo, ribadisci l'insostituibilità del "buono" quando parli del"la migliore azione utile alla maggior parte delle persone". Ti faccio presente, infatti, che sei costretto a dare alla stessa "azione" due aggettivi come "(la) migliore" e "utile", insieme: non dici "la più utile", dici "la migliore azione utile". Mi pare che questo riveli il limite dell'obiezione che muovi all'utilitarismo, e che in buona sostanza hai esposto nei tuoi commenti: intuitivamente, che "l’atto sia condizionato dalla regola e goda di un’autonomia che non ha limiti posti dal male (in assoluto) ma dal dannoso per chi non sia disposto a sottoscrivere il tuo personale calcolo felicifico", ti pare "astruso". Eppure non è altro che la base sulla quale i differenti "calcoli feliciferi" vengono resi degni di pari diritto e soggetti a doveri uguali per tutti.
Credo che anche il post di Gramellini sia nato da una pulsione simile e per quello ho preferito considerarla una provocazione. (confessione per confessione in certi casi le mie pulsioni mi fanno considerare Pol Pot un moderato) Ultimissima nota, sulla quale penso ci troveremo d'accordo: la liberaldemocrazia ha gli strumenti per difendersi dai nemici, ma non dagli indifferenti: non esiste un reato di indifferenza ai principi costituzionali. Ma se non ci piace che sia il despota illuminato a farci dono di "buone leggi", dobbiamo assumercene tutti noi la responsabilità: with great power comes great responsibility dicono gli anglosassoni. Ma da noi tutti vogliono il primo senza la seconda. Tanto più si è indifferenti alla qualità degli eletti, tanto meno si cerca di partecipare alla democrazia, tanto più questa si degrada senza neanche bisogno di sovvertirla. Diventa governo degli oligoi in automatico, se la maggioranza lascia perdere perché schifata o indifferente, o incapace.E questo è dannoso per tutti. Lo abbiamo visto con i referendum: hai voglia a lamentare il fatto che in Italia non si possa nascere, morire o far figli se non come vuole il Vaticano se poi su certe questioni non si raggiunge manco il quorum al referendum. Perciò dico che la libertà di non decidere resta sì una libertà, ma non sempre è una buona libertà. In conclusione si può parlare di un "bene comune" davvero pragmatico e non metafisico: è la cornice di leggi, principi e contrappesi che valendo per tutti, permette a ciascuno di perseguire il proprio utile; ma se si esce da questa cornice o la si mette in discussione, o si lascia che il meccanismo si inceppi, vengono meno o sono ristrette le singole libertà.
RispondiEliminaSolo che detto così sa tanto di spocchiosa lezioncina radical chic. Se invece dalle pagine di un quotidiano moderato scrivo "io la gente che non capisce 'ste cose la metterei al muro", forse riesco a scuotere almeno i demotivati che sentono inutile ogni tentativo di parecipazione. In fondo La Stampa non è ancora il Giornale o Libero.
Fra l'altro, a leggere il tuo post di oggi, direi che il metodo Ekaterinburg per risolvere il conflitto di interessi (che spesso lampeggia nelle mie fantasie pulsionali con una dovizia di dettagli imbarazzante) sia uno sfogo (o una provocazione) salutare: mette in evidenza l'enormità del problema Berlusconi indipendentemente dal suo ruolo in politica. Non penso che lo sottoscriveresti, neppure se avessi omesso di definirlo esecrabile, ma certo non ti nascondi che a forza di scendere in basso prima o poi qualcuno certe pulsioni finisce con il metterle in pratica; e sarebbe bene non arrivarci, a quel punto.
Saluti
@Malvino
RispondiEliminaNon riprendono "vecchi argomenti", sono piuttosto i "primi argomenti" contro l'utilitarismo. Dai, non spariamo cazzate adesso.
Sen [Introduction: Utilitarianism and Beyond, in Utilitarianism and Beyond, 1982, pp.10-11] sostiene che l'utilitarismo tende a ridurre le persone come "localizzazioni delle loro utilità" senza interessarsi di altro. Da qui ciò che ti ho scritto io sul fatto che una persona può considerare utile ciò che
un'altra considera invece inutile e via dicendo(non voglio ripetermi).
Ripeto, fantastica speculazione, ma, mutatis mutandis, siamo al punto di partenza.
Ora, non vorrei banalizzare, ma le promesse di Berlusconi(per riprendere il tuo post di oggi) hanno fatto leva un po' sull'utilitarismo:
diciamo che l'ancora attuale Presindente del Consiglio ha portato alle estreme conseguenze (opportunismo e convenienza) le tesi che porti avanti.
Riguardo Platone, non so come hai dedotto ciò, ma ci sei quasi arrivato. Peccato che io ho letto Nieschtze e, tanto per citare un altro grande personaggio del '900, ascolto un tipo che canta:
"Ma i moralisti han chiuso i bar
e le morali han chiuso i vostri cuori
e spento i vostri ardori"
Poi, la mia osservazione sul"la migliore azione utile alla maggior parte delle persone" era infatti una critica nei tuoi confronti (ho usato di proposito
migliore e utile. Ti ho messo pure alla prova!).
Comunque, la riporto per passare a te la patata bollente visto che l'avevi girata (senza aver risposto) a me:
secondo quale criterio si distingue la categoria del "male" dalla categoria del "dannoso"?
Attraverso ciò che è utile? Ribadisco, siamo sicuri che ciò che io penso che sia utile alla maggior parte
delle persone valga per tutti gli altri elettori? Oppure dobbiamo ritornare a scegliere la migliore azione utile alla maggior parte
delle persone?
Francès
@ Tombeur De Livres
RispondiEliminaHo già scritto diverse volte sul tirannicidio e ritengo abbia giustificazione, sul piano del buono e su quell'utile. Ancor più spesso ho scritto del cosiddetto "carattere nazionale" e non sono stato affatto indulgente. In quanto al resto, ritengo che un sistema democratico che selezioni tra gli indidivui chi possa essere degno di voto e chi no, chi degno di essere eletto o no, venga meno del suo fondamento egalitario, e con ciò diventi altro. Continuo a sostenere che la categoria del "buono" non sia efficace a scongiurare questo rischio, mentre quella dell'"utile" vi pone un rimedio. Poi, sì, ammetto - come ho sempre ammesso ogni volta che su questo blog si è discusso di utilitarismo - che la differenza tra "buono" e "utile" è argomentata su elementi controintuitivi, e perciò non basta ripetere che il "buono" pretende di essere il massimo comun divisore, mentre l'"utile" si accontenta di essere il minimo comune multiplo.
@ Francès
Lei sbaglia: le obiezioni sollevate da Amartya Sen sono le stesse sollevate dagli autori che ho citato. Anzi, direi che Amartya Sen le argomenti in modo sbrigativo.
In quanto all'affermazione: "L'ancora attuale Presindente del Consiglio ha portato alle estreme conseguenze (opportunismo e convenienza) le tesi che porti avanti", ritengo sia talmente stupida da non meritare altro commento: è stupida. Tuttavia ha una sua logica, e fonda sulla sua refrattarietà a comprendere che il "bene comune" è sempre il bene di qualcuno "per" tutti, mentre all'"utile di ciascuno" è posto limite "da" ciascun altro.
Non darmi del "lei", non sono mica vecchio (almeno dal punto di vista anagrafico conto 26 primavere) né sono un professore o un trombone moralista.
RispondiEliminaQuanto al resto ribadisco che ti ho segnalato le "prime" all'utilitarismo perché è sottinteso che oggi è una concezione un tantino obsoleta se si escludono alcune teorie di Richard B. Brandt e simili.
Insomma, chi ha letto la nostra discussione volendolo ha modo di informarsi e questa è già una cosa.
Francès
Allora raccolgo l'invito di Francès. Ho seguito la discussione e ho tentato di farmi un'opinione sulla diatriba. Resto con i miei punti interrogativi da profano.
RispondiEliminaIl primo, che andrebbe rivolto più decisamente a Luigi: io sono d'accordo sulla parte che mette in evidenza che operare una scelta per l'utile non chiami in causa la morale, in quel momento, e quindi è cosa ben distinta dallo scegliere il bene. Certamente l'utilitarismo non è una scelta morale che si reitera, e questa differenza è sostanziale e non di forma. Tuttavia a me sembra di tutta evidenza che, con la scelta dell'utile, la scelta morale sia stata fatta a monte, la cui necessità sintetizzerei nella domanda: perché l'utile e non l'inutile? La scelta dell'inutile, presumibilmente, ridurrebbe il quoziente di felicità globale, ma non ritengo che ci porterebbe all'estinzione. Potrei mettere una negazione innanzi ad ogni proprietà che è il risultato della scelta dell'utile e ripetere gli stessi argomenti, per ottenere il mondo dell'inutile. Razionalmente fila, e nella sua logica interna sarebbe indistinguibile dalla scelta dell'utile. Perché allora proponiamo quest'ultimo? In virtù di un ordine razionale? A me non pare.
Per entrare nel merito, io ho la sensazione (immagino rientri in obiezioni già affrontate) che un utilitarista puro dovrebbe considerare i diritti fondamentali emendabili, e con loro le forme costituzionali come fino ad oggi conosciute. Faccio due esempi: in mancanza di donatori volontari in numero sufficiente, sarebbe utile sorteggiare i sani che dovranno donare un rene. Quindi alla norma utilitaria della inviolabilità della libertà si dovrebbe aggiungere questa sottonorma utilitaria che la limita (in questo ed altri mille casi).
Oppure prendiamo a prestito il caso di Eluana: in un ipotetico mondo in cui tutta l'umanità avesse tratto una piccola felicità dal saperla nutrita artificialmente, e nessuno nel saperla lasciata al destino che si sarebbe scelta, sarebbe stato giusto tenerla in vita, visto che era ormai quasi certo che non le si sarebbe arrecato né felicità né infelicità in un modo, oppure nell'altro.
Si potrebbe obiettare che siamo noi oggi a avere bisogno, per essere felici, di sapere che le nostre volontà sarebbero eseguite. Ma io qui voglio escludere questa eventualità: Eluana era l'unica mai vissuta ad aver avuto questo desiderio. La conclusione che ne traggo è che per un utilitarista puro, e forse per Malvino, non si può affatto sostenere la necessità che un singolo individuo sia degno di avere questa opzione di scelta (non lascitaemi sopravvivere), è un fatto puramente contingente, a meno che questa sofferenza non sia condivisa da un numero sufficiente di individui tale da bilanciare l'infelicità (o mancata felicità) che questa nostra volontà genererebbe negli altri.
Mi pare però che l'argomento in quel contesto non fosse mai stato questo: non era un "siamo in numero sufficiente a volere che ci lascino in pace, e quindi Eluana deve essere inviolabilmente libera", ma "Eluana aveva questo diritto, perché era libera, punto e basta".
Dovrò prima o poi dedicare un lungo post all'utilitarismo, è evidente.
RispondiEliminaL'ho messo quasi in premessa, che probabilmente non ne so abbastanza e questo è l'unico mio limite. Però credo che la prima domanda possa essere più generale e meno tecnica, e spero che avrò risposta presto almeno lì. Se vuoi, la confronto con la scelta di progredire nella scienza: nessuno ha il dubbio che il metodo scientifico non abbia nulla di morale entro sé, per cui il metodo di preparazione di una soluzione non è giustificato dalla stessa istanza che prescrive la preghiera in ginocchio. Ma "perché dedicarsi alla scienza?" potrebbe essere domanda in odore di morale, perché potrei anche scegliere di non farlo. Ok, tu forse mi dirai che è utile. Non vorrei però che il discorso portasse all'infinita regressione.
RispondiElimina@ paolo de gregorio
RispondiEliminaal di là del mero nozionismo, vorrei farti una domanda: sei interessato a questo dibattito perché lo ritieni "utile" o un "bene" per la società (e/o per te)? Non rivolgo la stessa domanda a Malvino perché so già che mi deriderebbe.
@ malvino
il tuo blog è interessante perché tu quotidianamente ne hai per tutti e lo fai mettendo in gioco direttamente la "teoria".
Semmai dovessi scrivere un post sull'utilitarismo, gradirei che ad ogni tua speculazione filosofica ci sia un concreto riscontro pratico. Per il resto, come ho già fatto, proverò a ribattere fin dove posso. Non è una resa, anzi!
Comunque, adesso riporto questo dibattito sul mio blog e la domanda che ho rivolto a Paolo la giro a tutti i miei (pochi) lettori.
Francès
Malvino, sull'utile ci troviamo d'accordo, e pure con i punti di tangenza e similitudine col "bene" che a volte portano a confondere i due concetti, soprattutto anche per l'uso che se ne fa nel linguaggio comume. E siamo pure d'accordo sul fatto che un sistema che pretenda di decidere a priori chi può eleggere e chi può essere eletto cessi di essere democratico. Però dipende: proprio per l'utile (o per il bene, fate voi) dell'economia europea Italia e Grecia sono finite commissariate o quasi, e grazie anche al fatto (non l'unico, ovvio) che cattivi elettori hanno scelto pessimi eletti. Dunque se non decidiamo noi (noi "popolo sovrano", non "noi Illuminati Possessori della Verità") chi è migliore a governarci o impariamo a farlo usando finalmente la testa e non la pancia, lo faranno gli altri, e anche in questo caso la democrazia cessa di essere tale almeno in senso liberale. E dunque alla fin fine mi pare abbastanza dimostrato che i "peggiocrati" fanno danni a tutti quanti, democrazia compresa; alla peggio finiscono per perderla.
RispondiEliminaCome ridurre il danno della "prevalenza del cretino" di cui parlava Gramellini (espressione ripresa da Fruttero e Lucentini): that is the question. E la soluzione al momento l'hanno trovata Merkel & Sarkozy. Non so se è oligarchica o aristocratica, so che non è una nostra soluzione. Non sto dicendo che è cattiva o che non abbia ragione d'essere (ce l'ha eccome), dico che somiglia molto alla soluzione del "micheleserra di turno" contestata da Francesco P. solo che questi sono più difficili da ignorare.
Saluti