Ho scritto che il discorso tenuto da Giorgio Napolitano al Parlamento lunedì 22 aprile aveva l’ineccepibilità dello strumento retorico teso a dissimulare l’esortazione all’unità delle opposte fazioni in seno al regime partitocratico in un appello alla concordia nazionale sulla base di un solido realismo. «Sostanzialmente – ho scritto – è stato un parlar da ipocrita di gran classe a ipocriti da quattro soldi». Ripensandoci, aggiungerei che è stata un’omelia, nel senso etimologico del termine: un omilein, un parlare all’omilos, a un’assemblea che occorre compattare – stringere insieme (omoy-eilein) – su un comune interesse. In pratica – e anche questo l’ho già scritto – si è trattato di un drammatico allarme alla casta, che il suo più autorevole membro le ha rivolto nell’esortazione a far fronte comune contro la minaccia che saliva dalla piazza.
Torno sul discorso di Giorgio Napolitano con questo specifico rilievo, perché fra i tanti che l’hanno elogiato c’è un Giuliano Ferrara che, al contrario, afferma: «Non era un’omelia», e tuttavia sostiene che ci ha visto dentro una lezione di «teologia politica» (Il Foglio, 26.4.2013). Contraddizione patente, perché su cosa fonda la «teologia politica» se non sull’assunto che un ordine politico debba necessariamente avere in radice un correlato trascendente? E quale trascendenza, per far presa sull’immanente, può fare a meno di un apparato sacerdotale? Quale verità che si intenda affermare antecedente e superiore all’uomo non ha bisogno di una casta che sappia confermarla nell’esercizio della persuasione omiletica? In altri termini: se quello di Giorgio Napolitano è stato – come afferma Giuliano Ferrara – «un brusco richiamo al principio di realtà», e se questo principio altro non è che la necessità di riaffermare una verità antecedente e superiore all’uomo, cos’è stato quel «richiamo» se non un tentativo di omoy-eilein i parlamentari in sua difesa? E quale sarebbe, nello specifico, la verità antecedente e superiore all’uomo che una volta tanto era stata messa in discussione dalla piazza?
Se dobbiamo rimanere incollati ai fatti, questa verità sta nella sostanziale irrilevanza della volontà popolare dinanzi alle esigenze di una oligarchia retoricamente dissimulata in democrazia. È fin troppo evidente, infatti, che col tradimento del programma elettorale l’eletto non è più espressione dell’elettorato. Nel caso del Pd, questo tradimento è manifesto: i suoi dirigenti avevano chiesto voti escludendo ogni eventualità di collaborazione col Pdl, e ora si apprestano a farlo, in piena adesione al disegno di Giorgio Napolitano, che c’è da supporre abbiano contribuito in maniera determinante a riconfermare alla Presidenza della Repubblica, perché l’accordo avesse sostegno qualificato e soprattutto preventivato. Rimangono rappresentanti di chi li ha votati, i parlamentari del Pd, o diventano di fatto, e in proporzione alla quota di rappresentanza da essi espressa, gli attori di un vero e proprio sequestro della volontà popolare? Quando lo fanno in obbedienza all’apparato burocratico di un partito che con gli elettori aveva preso impegno di farsi alternativo all’opposto schieramento, a quale verità obbediscono?
Non è complicato rispondere a queste domande, basta sollevare il velo dell’ipocrisia cui accennavo all’inizio. Sotto il magniloquente appello al bene comune troviamo una «teologia politica» che lo identifica in un progetto di società creaturalmente intesa: plasmata a immagine e somiglianza della superiore intelligenza di un’élite che del voto popolare ha bisogno solo come avallo della creatura al creatore. Possono verificarsi momenti di ribellione, ma è relativamente semplice neutralizzarli, facendo del bisogno di personificare l’unità dell’ordinamento giuridico, del potere legislativo e dell’azione di governo, ancorché collegialmente espressa, il prodotto di un’unica volontà preordinata e cogente, imperscrutabile alla creatura, ma di cui la casta sacerdotale è interprete. È la lezione di Hans Kelsen (L’illecito dello Stato, 1913; Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato, 1922; Dio e lo Stato, 1923): come la teologia vede in Dio l’essere perfettamente trascendente, così la dottrina dello Stato va a rappresentare la sovranità come principio assoluto. E qui occorre rammentare un’altra etimologia, quella di assoluto, che è quanto ab-solutus, sciolto da ogni vincolo (immanente). La volontà popolare diventa solo l’amen in fondo all’omelia.
Non vorrei che i riferimenti teologici abbiano a sviare il senso di ciò che è veramente «teologia politica». Qui, uniti nel vanificare le intenzioni dell’elettorato del Pd, troviamo Napolitano, i post comunisti del Pd e Ferrara. Tutta gente che in un tempo assai lontano aveva fede – e torna la terminologia teologica – nel fatto che la volontà popolare dovesse trovare necessaria espressione nella dittatura del proletariato, nell’azione di un partito fatto Principe machiavelliano.