giovedì 13 giugno 2013

«Ce ne andremo»

Il caso esplose per un’affermazione fatta da @ferrarailgrasso nel corso di una trasmissione diretta da @ementana: «La mafia – aveva detto – è l’essenza della Sicilia». Il primo fu subito fatto oggetto di commenti assai risentiti, e qualcuno arrivò agli insulti, che in breve piovvero anche sul secondo, per averglielo lasciato dire, e per aver preso le sue difese. Mentre @ferrarailgrasso prendeva a gongolare, @ementana lamentava: «Il numero di tizi che si esaltano a offendere su Twitter è in continua crescita». E aggiungeva: «Calmi, tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi». E così fu, perché nel rapido volgere di una mezz’ora decise di dare «un saluto finale a tutti», e qualche giorno dopo chiuse l’account. Una perdita che lasciò un vuoto enorme, ci sono follower che ancora non sanno darsi pace.
Non mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e @ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No, il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».

Il volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?». Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso, però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse, allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo, quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari». L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui, allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.

Ma un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera, 12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava. Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce riflessa dell’insultato”».

Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare  l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre davorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nientaltro che la legge uguale per tutti. 

martedì 11 giugno 2013

«Il mediocre d’eccellenza»


Normale che al centrodestra bruci il culo per l’elezione di Ignazio Marino a sindaco di Roma, normale che i direttori dei quotidiani d’area diano voce al bruciore, normale che lo stile sia diverso da culo a culo: «No Silvio, no party» (il Giornale), «Mortacci!» (Libero), «Chi litiga non piglia voti» (La Padania), «Il rifiuto del voto certifica l’implosione del sistema» (Il Secolo d’Italia)… Ma non tutti i giornali del centrodestra sono uguali. Ce n’è uno, dal culo sopraffino, che il bruciore ha cominciato a sentirlo in largo anticipo e che a scrutinio delle urne ultimato non ha che da riproporre il lamento, in un tweet.


Forse chiamarlo lamento, però, è improprio, perché con le sue 15.388 battute eravamo poco al di sotto della lunghezza di tutte e cinque le Lamentazioni del profeta Geremia, che superano di poco le 18.000.

Sia chiaro, era pienamente legittimo che Il Foglio non gradisse Marino come sindaco di Roma, anzi, siamo onesti, non c’era sindaco di Roma che potesse dargli maggior bruciore al culo: era il candidato dello schieramento opposto a quello sostenuto dalla linea politica del giornale, ma più di quello, e prima di quello, cerano le sue posizioni sul caso Englaro e sul testamento biologico, il suo essere un «cattolico adulto», la simpatia e la stima tributategli da personalità come il cardinal Martini, Scalfari, Veronesi, Mancuso, veri e propri mulini a vento per un giornale tanto orgogliosamente donchisciottesco... Insomma, la mente e il cuore avevano tutto il diritto di gridare: Marino al Campidoglio, / no, proprio non lo voglio.
Chissà se poi i due settenari in rima baciata avessero reso al meglio con un arrangiamento rap o sullaria di Nel duol che prova lalma della Didone abbandonata. Bah, questioni oziose, torniamo al culo che bruciava al solo pensiero che Marino potesse diventare sindaco di Roma.

Be, con tutto quel bel po’ di scientismo che Marino incarnava, e di laicismo, di relativismo, e dunque di nichilismo (e se ho dimenticato qualche -ismo, mettecelo voi), dove va a bacchettare, Il Foglio? «Quella faccia un po’ così, la guancia un po’ cascante, il capello corto che non aiuta a dissimulare la sessantina già all’orizzonte, l’occhialetto, più che da luminare, à la Gianfranco Fini», e poi quell’«aria del professorino saccente, del medico di base che ti mette a dieta anche se hai gli esami perfetti», per non parlar del titolo: «Il mediocre deccellenza». Tanto per usare un argomento che ai fan di Berlusconi sembra dacciaio inossidabile: mica era trattato così, Marino, prima di scendere in politica. Anzi, sarà che era un mezzo americano e si era laureato in una università cattolica, ma per la sua prima volta su Il Foglio (15 novembre 1996) sembrava suonassero le trombe.


Perfino quando fu chiaro che le sue idee non fossero del tutto in linea col cattolicesimo fogliante, la sua autorità in campo medico tornava ancora buona per opporlo a un Flamigni (17 novembre 2005)


o a un Viale (25 maggio 2006).


Da stella nel firmamento della medicina  «americano-italiana» (chissà perché, poi, non «italo-americana») a «mediocre deccellenza», vai a fidarti di chi ti lecca il culo. E non è tutto. Perché, anche se Il Foglio la racconta come vuole ricordarla, c’è un’altra questioncella che sempre per il culo gli era andata di traverso: «Alla fine del 2012 una sentenza ha condannato una serie di articoli successivi del Foglio, del Giornale e di Libero, per lo “stravolgimento” di quei fatti attraverso “un’interpretazione personale, fuorviante e fuorviata”, stabilendo che non fosse fondata la tesi del nesso tra l’allontanamento di Marino dall’ospedale di Pittsburgh e le irregolarità amministrative» (*). «Non fu mai detto che fu cacciato», è la versione de Il Foglio. A onor del vero, formalmente è versione che regge. Si disse (24 luglio 2009):


e capirete che tra cacciato e allontanato c’è più o meno la stessa differenza che c’è tra bruciore di culo e proctite. 

lunedì 10 giugno 2013

Non bastasse la banalità, non bastasse l’insulsaggine


Si registra un brusco calo dell’affluenza alle urne: l’immagine più banale che usereste? Non vi scomodate, c’è il Pigi, che della banalità è il principe: è un «crollo». L’astensionismo? Un «mare di indifferenza». È che le istituzioni sono «costruzioni fredde», è che la politica «non affonda le radici nel vissuto». Non bastasse tanta banalità, c’è pure l’insulsaggine: «la fisiologia è sempre stata fisiologia, ma in queste dimensioni diventa patologia», e per partorire un tal mostriciattolo non basta il dizionario analogico. Non bastasse l’insulsaggine, c’è pure la faccia tosta: nell’orazione funebre dedicata a Giuliano Zincone, due pagine prima, che cosa mi bacchetta, il Pigi? L’«incontenibile lessico della banalità» del giornalismo nostrano. 

Auguri


Si ebbe chiara la certezza che Luigi De Magistris non avrebbe combinato un cazzo come sindaco di Napoli quando lo si vide con una bandana arancione in testa agitarsi come un ossesso sotto crepitanti fuochi d’artificio sul palco allestito in Piazza del Municipio per festeggiare la sua vittoria nel ballottaggio con Gianni Lettieri. La sobrietà di Ignazio Marino non consente ovviamente di esser sicuri che sarà un buon sindaco, tanto meno che riuscirà a risolvere i tanti problemi di Roma, però è un buon viatico. 

venerdì 7 giugno 2013

Eccheccazzo!

Non so a voi, ma a me Filippo Facci piace tanto, d’altronde mi pare di averlo già detto in due o tre occasioni. Innanzitutto, condivido sei volte su sette ciò che scrive. Poi, trovo che lo scriva in modo assai brillante. In più, cosa alla quale personalmente do enorme importanza, penso abbia la rara virtù di non cedere mai alla tentazione di fare il ruffiano col lettore, un vizio che è così comune in chi vive di ciò che scrive, ma che ritengo insopportabile. Per tutto questo, e per quell’id cui non so dare un nome, e che a torto o a ragione mi sembra di poter presumere, lo trovo assai simpatico anche sul piano umano.
Ciò detto, occorre dire che nessuno è perfetto, e anche a lui, volendo, si può trovare qualche difetto. Il peggiore, a mio parere, è la sua insana passione per Richard Wagner, ma qui siamo in tema di gusti, e i gusti sono gusti, e insomma si può chiudere un occhio. Volentieri lo chiudo anche sul fatto che talvolta si conceda pose da vanesio, perché in fondo, via, manco è un difetto: ci casca pure chi non può permetterselo. La cosa che più mi dà fastidio, invece, è che scriva su Libero, un giornalaccio che m’imbarazza tenere in mano anche per i due minuti che servono a leggere il suo Appunto quotidiano. Anche su questo, tuttavia, riesco a chiudere un occhio: quando sei fuori dal mainstream, difficilmente ti assumono a la Repubblica o al Corriere della Sera. D’altra parte, anche scrivendo per Libero, Filippo Facci non ha mai esitato a prendere posizioni che avrebbero fatto storcere il muso al lettore-tipo di quella testata, ed è infatti accaduto che qualche muso si sia storto, in passato, ma senza ch’egli abbia ceduto un millimetro, saldo nel pie’ come Siegmund quando palleggia la lancia.
Poi, certo, il pie’ è pur sempre pie’, e capita che possa pestare una merda.


Come si possa scrivere un corsivo sul presidenzialismo, sul rischio che il populismo lo possa trasformare in un serio pericolo per la democrazia, sull’immaturità degli italiani che ciclicamente si fanno abbindolare dal primo arruffapopolo che passa, come si possa citare Craxi, Di Pietro, Grillo, riuscendo a non nominare Berlusconi, né a sfiorarlo neppure in ellissi  beh, con tutta la stima, tutta l’ammirazione e tutta la simpatia, non si capisce, e onestamente fa girare le palle.
Perché si parla di presidenzialismo? Perché Berlusconi pensa di poter salvare il culo rifugiandosi al Quirinale. E tu, biondo eroe senza paura e senza macchia, riesci a tenerlo fuori dal tuo corsivo? Eccheccazzo!  

giovedì 6 giugno 2013

Appunti


È da tempo che mi chiedo cosa riesca a trattenere un paese dalla rivolta per accontentarsi del mugugno, tutt’al più dell’urlo. Non di un paese normale, dico, ma di un paese come il nostro, che ha sempre guardato con sospetto alla coerenza tra il dire e il fare. Sì, è vero, qualcuno spara, ma a cazzo di cane, e qualcun altro si dà fuoco, ma brilla giusto per due ore sulla homepage dei siti d’informazione, ripuliscono l’asfalto e la parola passa allo psichiatra. Poi, sì, ci sono cortei, si grida, si schiuma, parte qualche manganellata, qualche poliziotto riporta una contusione, ma insomma si tratta di robetta, tanto per scaricare un poco i nervi. Meglio così, ovviamente, perché la violenza è sempre brutta brutta brutta, lo dicono un po  tutti, e si sa come s’inizia e non si sa come si finisce. E poi autorizza alla repressione e alla restrizione delle libertà civili, e poi apre la via alle soluzioni autoritarie, cui finiscono per dare il maggior sostegno proprio quelli che hanno fatto più casino.
Perché tanti poveri e nessuna rivoluzione? Perché tanti arrabbiati e le pallottole viaggiano solo in busta? Ogni puntata di Piazza Pulita o di Servizio Pubblico o di Report sembra dover fare da innesco, e tuttal più si risolve in una figura di merda di Di Pietro o nella scoperta che la Santanché forse è lesbica. Perché gli straccioni insultano Franceschini che cena pacificamente e non devastano il ristorante?  
Scarto le ipotesi che mi paiono ridicole – quella di Grillo, per esempio, che continua a millantare: «Se non scoppia la violenza, è perché c’è il M5S» – e dando uno sguardo al passato, passando in rassegna i pochissimi episodi che nel corso dei secoli hanno visto le nostre piazze riempirsi di esasperati più o meno organizzati, quasi sempre nient’affatto organizzati, non riesco a trovare un’altra risposta: la rivolta non ci è congeniale e comunque non siamo esasperati al punto giusto. Probabilmente la violenza scoppierà se e quando alla maggioranza degli italiani che sono con un piede o entrambi nell’indigenza mancherà il denaro per ricaricare il cellulare o per tentare la botta di culo al Gratta&Vinci e al Superenalotto. Se e quando scoppierà, comunque, quasi certamente non avrà profilo insurrezionale: stingerà nel vandalismo, nel saccheggio, nella rabbia che s’accanirà sui simboli, cose e persone che delle cause potranno dirsi al massimo espressione. Non sono ancora nelle condizioni di poter meditare pubblicamente su quello che ci attende, tanto meno per guardare nelle viscere della carogna e trarne aruspici, mi prende una specie di pudicizia e mi limito a vergare appunti. 

mercoledì 5 giugno 2013

[...]


Ho smesso di seguire Pierluigi Battista su Twitter, ho cominciato ad evitare i suoi articoli, cambio canale quando è ospite di un talk show. Sennò divento grillino, e chi mi conosce sa cosa io pensi di Grillo. Non che fosse ’sto tabernacolo di intelligenza e simpatia, prima, ma da quando gli è morta la moglie, sarà mera coincidenza, sarà che il lutto gli ha tolto la scorza, pare si compiaccia a fare lo stronzo. L’impressione è che il suo referente sia il cinismo della residua classe media che non è stata ancora sensibilmente toccata dalla crisi economica e coltiva la certezza che possa farla franca appiattendosi sugli interessi di chi ne ha tratto vantaggio. Più lo guardo, più lo sento, più lo leggo, e più mi pare stia tra Roberto D’Agostino e Giuliano Ferrara, terza posizione tra due modi uguali e diversi di parassitare il marcio. Ovviamente è probabile chio sia in errore, e chissà che personcina deliziosa sia. Ma il fastidio che mi ha cominciato a dare è diventato enorme.  

domenica 2 giugno 2013

[...]


Per salvare Beatriz


Un quarto dei feti anencefali muore in utero o nel venire alla luce, altri due quarti muoiono entro le prime 6-24 ore dopo il parto e non si ha notizia, dalla notte dei tempi a oggi, di un anencefalo che sia vissuto più di una settimana. Parliamo di una malformazione data dall’assenza di gran parte della massa cerebrale, spesso perfino dei nuclei della base, talvolta addirittura del mesencefalo e del bulbo spinale, condizioni che realizzano, pur nella enorme differenza del substrato organico, un quadro clinico analogo, ma assai più grave, a quello che si osserva nella cosiddetta morte cerebrale, che da almeno una dozzina d’anni la Chiesa cattolica si è persuasa ad equiparare alla morte di fatto.
Ce n’è abbastanza per affermare che l’interruzione di gravidanza non è omicidio quando il feto è anencefalo? Anche recependo integralmente la logica sulla quale regge la dottrina cattolica, dove sarebbero gli estremi per poter parlare di persona, o di coscienza, nel caso di un feto anencefalo? È pur vero che, in caso di conflitto tra la vita della gravida e quella del feto, la morale cristiana fa fermo divieto di ogni discriminazione di valore, e tuttavia un’eccezione è contemplata proprio quando non vi sia alcuna possibilità di salvare la vita del feto e il protrarsi della gravidanza metta in serio pericolo la vita della gravida. Proprio come nel caso della gravidanza di Beatriz. 
Bene, non le hanno concesso di abortire. Hanno deciso di farle un taglio cesareo a 25 settimane, che nella stragrande maggioranza dei casi porta alla morte del feto estratto prematuramente, anche quando non sia malformato, anche quando la gravida goda di ottima salute. In pratica, si è trattato dell’aborto di un feto che non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivere, anche se fosse venuto alla luce al termine della gravidanza, ma a questo aborto si doveva dare la parvenza di un parto, per salvare il mero involucro formale della morale cattolica e forse, chissà, visto che il caso aveva già sollevato un bel polverone, per non trovarsi il cadavere di Beatriz sul groppone. È che aveva chiesto di poter abortire, non poteva tornare buona come santa. 


sabato 1 giugno 2013

Non hanno paura di niente


[Allego in coda a questo post quanto andrebbe bene qui in premessa, ma appesantirebbe troppo il testo: si tratta della risposta che ho dato l’anno scorso a chi mi muoveva l’accusa di essere un malpensante. Mi è stata mossa anche oggi, ma il tono era piacevolmente ironico, per ciò che ho scritto nel post precedente a questo, col quale sollevavo il sospetto che il ddl oggi annunciato dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» – anche così com’è in bozza, anche senza gli immancabili emendamenti che vi apporterà il Parlamento – sia una solenne presa per il culo. Riproporre oggi quel post ha il fine eminentemente pratico di risparmiarmi ogni risposta a chi volesse sollevare nella pagina dei commenti l’obiezione che la mia riflessione sia viziata da un pregiudizio ostile a questo governo, ai partiti che lo appoggiano, ecc. E dunque...] 



Il ddl approvato ieri dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» è disonesto fin dal primo comma del primo articolo: «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». In realtà, almeno formalmente, il finanziamento pubblico dei partiti è già stato abolito nel 1993, grazie a un referendum che raccolse il 90,3% dei consensi a favore dell’abolizione. Referendum tradito pochi mesi dopo, con una legge che disponeva un «contributo per le spese elettorali» (legge 515/1993). «Un rimborso di questo tipo – disse uno dei suoi promotori (gli venisse un cancro in culo, se è ancora vivo) – ha una sua autonoma ragion d’essere e non deve trasformarsi, né si trasformerà, in una nuova forma di finanziamento dei partiti come tali». A chi avesse sollevato il sospetto che fosse un modo per far rientrare dalla finestra ciò che era stato appena cacciato dalla porta, si sarebbe detto: «Via, che malpensante».
E dunque a quale «finanziamento pubblico dei partiti» fa riferimento, il ddl del governo Letta? A un finanziamento che sostanzialmente non è mai stato abolito e che anche stavolta si fa finta di cacciare dalla porta, provvedendo per tempo a spalancargli la finestra, con la più che implicita ammissione che si tratta della replica di una truffa. Un sospetto da malpensante? La logica interna al sistema dei partiti, per come è strutturato in Italia, impone lo scetticismo come un dovere. E in questo caso – vedremo – non mancano elementi per dargli legittimità di metodo, riavendone in cambio prove ampiamente argomentate: siamo dinanzi agli stessi luridi parassiti di ventanni fa, sono solo cambiati i volti, e ci rifilano lo stesso trucco, ma gli hanno trovato un altro nome, stavolta è «contribuzione volontaria privata». Bugia enorme, tanto più sfacciata quanto più si procede nella lettura del ddl, che «assicura, in favore dei partiti e dei movimenti politici […] la disponibilità, in almeno ciascun capoluogo di provincia, di idonei locali per lo svolgimento delle attività politiche, nonché per la tenuta di riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche» (art. 5), dando loro il «diritto ad accedere, al di fuori dei periodi della campagna elettorale […] a spazi televisivi messi a disposizione a titolo gratuito dalla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo» (art. 6). In pratica, logistica e comunicazione sono a carico dello Stato, con quanto si troverà modo di spremere facendo la cresta su queste voci e quelle che senza dubbio saranno aggiunte con gli immancabili emendamenti (energia elettrica, telefonia, posta, ecc.). Oltre al contributo del duexmille e a quello volontario dei privati, che potranno in buona misura detrarlo in sede di dichiarazione dei redditi, e quindi a ulteriore carico dello Stato, i partiti trovano modo di concedersi a gratis tutto ciò che prima pesava sui loro bilanci per almeno un terzo delle spese.
Poi, il punto più ambiguo, quello del duexmille: «Ciascun contribuente può destinare il duexmille della propria imposta sul reddito a favore di un partito o movimento politico» (art. 4, comma 1) e «le destinazioni […] sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda recante l’elenco dei soggetti aventi diritto» (art. 4, comma 2), in barba alla segretezza del voto o delle preferenze politiche, che pure viene promessa, ma senza alcuna spiegazione su come la promessa possa essere mantenuta.   Si parla di un tetto massimo di 61 milioni di euro, ma stranamente il dato non è specificato nella bozza del ddl, che pure gronda di numeri con encomiabile spreco di virgole. Ma poi c’è il bello: «In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili […] è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse» (art. 4, comma 3), e qui siamo a una variante bastarda di ciò che correntemente avviene con l’ottoxmille. 
Bastasse, ma non basta. Tutto, ammesso rimanesse come è sulla carta, entrerebbe a pieno regime fra tre o quattro anni, e nel frattempo il denaro pubblico ai partiti non diminuirebbe, anzi, c’è l’opportunità che possa quasi raddoppiare. Insomma, anche volendo tener da parte il pregiudizio che ci istiga a tener presente che merde siano, questi boiardi della partitocrazia italiana mostrano una incredibile faccia tosta. Si stanno dividendo i compiti: c’è chi lamenta che un centinaio di dipendenti e funzionari di partito potrebbero essere licenziati (e non si capisce perché dovrebbero muoverci a compassione più degli altri licenziati nel settore pubblico e in quello privato) e c’è chi invece annuncia che il ddl sarà una rivoluzione. Non hanno paura di niente. 
     



«Pensar male» e «pensar bene» (Malvino, 18.4.2012)

L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.) Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».

venerdì 31 maggio 2013

Ci staranno mica pigliando per il culo?


A quanto assomma la quota annuale dell’8xmille che per quasi l’80% va alla Chiesa cattolica, per poco più del 10% va allo Stato, e per il resto è destinato a Chiesa valdese, Unione delle comunità ebraiche, Chiesa evangelica luterana, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno e Assemblea di Dio? Circa un miliardo e 200 milioni di euro. Faccio male i conti o il 2xmille che il ddl del governo Letta destina al finanziamento dei partiti assommerebbe a circa 300 milioni? E attualmente a quanto assomma il denaro che viene destinato ai partiti con la formula del rimborso elettorale? Quest’anno al Pd andrebbero 45 milioni, al M5S ne andrebbero 42, al Pdl 38… Insomma, per farla breve, il totale sarebbe di circa 160 milioni di euro. Che ovviamente vengono dalle tasche dei contribuenti. Ed è dalle tasche dei contribuenti che verrebbero i 300 milioni destinati ai partiti con la formula del 2xmille: 140 milioni in più di come è stato fino ad ora. 
Sicuramente avrò sbagliato a fare i conti, altrimenti non si capisce in cosa consisterebbe l’annunciata stretta di cinghia: ci staranno mica – per l’ennesima volta – pigliando per il culo?

giovedì 30 maggio 2013

Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo

Nel corso dell’intervista concessa a Gianluigi Nuzzi, e andata in onda ieri (La7, 29.5.2013), Luigi Bisignani ha detto: «Sa chi mi presentò Mauro Moretti? Lorenzo Necci». Non è la prima volta che lo dice: «Moretti mi fu presentato da Necci» (la Repubblica, 21.6.2011). Moretti ne ha dato conferma, collocando temporalmente quel primo incontro al periodo in cui Necci era a capo delle Ferrovie dello Stato (1989-1996): «Ho conosciuto Bisignani all’epoca di Necci» (La Stampa, 21.6.2011). Dove avvenne l’incontro sarebbe questione irrilevante, se non fosse che diciassette anni fa, intervistato da Giuseppe D’Avanzo, Giuliano Ferrara diede Bisignani come «presenza fissa in casa Necci» (la Repubblica, 18.9.1996), mentre già da mesi rilanciava «il sussurro che personaggi quali Antonio Maccanico, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Lorenzo Necci, Enrico Cuccia siano affratellati dalla squadra e dal compasso» (Il Foglio, 6.2.1996). Particolarmente stizzita fu la reazione di Bisignani all’insinuazione che a casa Necci fosse operativa una centrale massonica e che egli ne fosse membro.

«Frequentatore né fisso né saltuario di casa Necci». «Meno ancora ho frequentato sedi e società delle Ferrovie dello Stato». E allora dove avvenne quell’incontro? Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo.   
 

Misteri dei potenti


La mania di Alfano per gli oroscopi, monsignor Fisichella che ospita complotti a casa sua, Statera e Moretti due stronzi ingrati, sì, sì, tutto molto, molto interessante. Ma erano gocce di sudore o di saliva, quelle che imperlavano il mento di Bisignani intervistato da Nuzzi, ieri sera? È la cosa che mi ha più colpito dell’intervista, e ancor più mi ha colpito che pareva non gli dessero fastidio, stavano lì, quasi ne grondava e non se ne tergeva, come una bavetta cui sembrava abituato. Misteri dei potenti, così uguali alle meravigliose stranezze della fauna esotica. Così umane, quasi troppo umane, invece, le cicatrici di Nuzzi.  

mercoledì 29 maggio 2013

Da mucca assassina a pecorella smarrita


Tre o quattro secoli fa l’Europa vedeva scorrere un fiume di sangue nella contesa tra cattolici e protestanti sul tema della Grazia. Difficile fare un conto di quanti si sgozzarono a vicenda nel questionare, su un ramo di quel fiume, se per essere degni d’essere in comunione con Cristo fosse necessaria o meno l’assoluzione, previa la confessione dei propri peccati a un ministro del culto.
Bene, tornando ai funerali di don Gallo, vedendo Vladimir Luxuria esser presa da un prepotente quanto estemporaneo bisogno di eucaristia, estemporaneo il tanto da escludere si fosse confessata prima, vedendo il cardinal Angelo Bagnasco soddisfare prontamente quellurgenza, senza porsi alcun problema se la figliuola fosse in regola con quanto prescrive il Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 1385 (che riprende fedelmente quanto prescritto al punto 630 del Catechismo Maggiore di Pio X), possiamo dire che tutto quel sangue è scorso inutilmente: confessione e assoluzione sono ormai superflue, comunque non indispensabili per accostarsi all’eucaristia. E di ciò possiamo essere praticamente sicuri, perché non hanno avuto da ridire nemmeno i più zelanti tra i cattolici tradizionalisti, che solitamente gridano allo scandalo pure se la cotta dell’officiante è troppo lunga o è troppo corta, o se i grani d’incenso nel turibolo non crepitano come si deve, o un bemolle del canto gregoriano è troppo molle. 
Ne avevamo già avuto il sospetto quando vedemmo Silvio Berlusconi, a bocca aperta e ad occhi chiusi, papparsi l’ostia ai funerali di Bettino Craxi, prima, e a quelli di Raimondo Vianello, poi, però commettemmo l’ingenuità di credere che si fosse chiuso un occhio per i favori che aveva concesso al Vaticano, d’altronde erano i tempi in cui gli si scusavano anche i «porcoddio». Con l’eucaristia concessa a Vladimir Luxuria, però, occorre rettificare: alla persona che gode di notorietà, anche se pubblico peccatore, soprattutto se pubblico peccatore, una cialda di frumento non si nega mai. D’altra parte non costa che pochi centesimi, ma il ritorno d’immagine misericordiosa presso il pubblico che simpatizza per il beneficato è immenso.
Ieri c’era Ratzinger, e tornava comodo mostrarsi benevoli col puttaniere in odor di mafia che si offriva come defensor fidei. Oggi c’è Bergoglio, e torna comodo lisciare il pelo alla transgender comunista che d’un tratto pare aver scoperto la dimensione mistica. Da mucca assassina a pecorella smarrita, un apologo edificante, no? In modo diverso, certo, e in tempi diversi, ma tornano utili entrambi se in posa da resipiscenti, e allora non è il caso di star lì a sottilizzare, in fondo la dottrina è roba da ragazzini che preparano il corso per la prima comunione. Poi, diciamocela tutta, chi se ne fotte dei peccati di Berlusconi e di Luxuria? Sono più eccitanti i peccati dei ragazzini, via, è a loro che bisogna insegnare che non ci si può accostare al corpo e al sangue di Gesù senza essere passati prima per il confessionale.  

martedì 28 maggio 2013

Il dramma della sodomia nella Diocesi di Roma

Quello che terremoto, maremoto e disastro nucleare in Giappone erano punizioni divine. Che Adamo ed Eva sono davvero esistiti, e pure il paradiso terrestre, naturalmente. Quello che le teorie di Darwin sono tutte stronzate. E che la morte cerebrale è ancora vita. Che il crollo dell’Impero Romano è tutta colpa dei froci. Sì, insomma, il professor Roberto De Mattei. Bene, occorre esprimergli solidarietà, perché è stato fatto oggetto di censura: il Tribunale Ordinario di Roma ha oscurato una pagina del suo sito. Non quella in cui c’è scritto che Giordano Bruno «fu giustamente arrestato, processato e condannato», né quella in cui c’è scritto che «l’evoluzionismo è privo di ogni connotazione scientifica», e nemmeno quella in cui si legge che il riconoscimento della parità di diritti per i gay è espressione di una «deriva anti-umana». No, gli hanno oscurato una pagina dalla quale si levava alto il lamento per «il dramma della sodomia nella diocesi di Roma». È che faceva nomi e cognomi, qualcuno si sarà sentito diffamato o si sarà sentito bruciare la coda di paglia. Boh, va’ a capire, in fondo il professore ha scelto per il suo sito un nome che è tutto un programma: Corrispondenza romana, lo stesso che dava il titolo all’agenzia del famigerato monsignor Umberto Benigni, quello cui Pio X diede mandato di stanare i subdoli modernisti che come zecche infestavano il ventre molle del Vaticano, giusto un secolo fa. Nobile intenzione, dunque, quella della denuncia della lobby gay che devasta - pardon, devasterebbe - la Curia romana, ma senza avere prove sarebbe stato meglio evitare di far nomi e cognomi. Ecco perché, oscurando quelli, ho deciso di pubblicare qui quell’articolo, che ritengo estremamente divertente. Se contenga fatti veri, a questo punto, è questione del tutto irrilevante. L’importante è il divertimento.    



IL DRAMMA DELLA SODOMIA NELLA DIOCESI DI ROMA

Uno dei problemi che Papa Francesco dovrà affrontare è quello dell’immoralità dilagante del clero che dalla periferia della cristianità giunge al cuore della Curia romana. La stampa laicista mette l’accento sul fenomeno della pedofilia, fingendo di ignorare che questo male affonda le sue radici nella piaga ben più vasta e ramificata della sodomia.
Due sacerdoti, l’italiano don XXXX XXXXXXX XXXX XX XXXXXX, che nel dicembre 2011 ha dato alle stampe la sua opera X XXXXXX XX XXXX XXXXX, e il polacco don XXXXXX XXX, docente della XXXXXXXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXX XX di XXXXXXX, che nell’estate del 2012 ha pubblicato XXX XX XXXX XXXXX XX XXXXXXXX, hanno recentemente sollevato il dibattito sull’esistenza di una vera e propria lobby omosessuale che esercita, in maniera sempre più coercitiva, una forte influenza dentro la Chiesa, anche ai livelli più alti delle responsabilità ecclesiastiche. La piaga di quella che è stata definita omoeresia, omomafia, omosessualizzazione della Chiesa, è ormai nota e il problema comincia ad essere affrontato da diversi siti cattolici e da studiosi come lo psicologo XXXXXXX XXXXXXXXXX nella sua opera XXXXXXXXXXXXX X XXXXXXXXX XXXXX XXXXXX, in cui l’articolo di don XXX è riportato integralmente in appendice.
Lo scenario è nauseante, fatto di potenti intrecci che coinvolgono prelati e sacerdoti di dubbi costumi, seminari, abbazie, monasteri, dove è pacificamente praticata una vita sessuale tendente all’effeminatezza. In queste istituzioni, talvolta storiche, gli elementi sani rischiano di esser stritolati.
In questa situazione di drammatico degrado ecclesiale arrivano sempre più numerose le segnalazioni di seminari e case di formazioni dove si diffondono pratiche sessuali in grave e aperto conflitto con l’etica cattolica, tollerate se non favorite o perfino talora sollecitate dai superiori. Una fotografia della generale corruzione del clero ce la dà la diocesi di Roma, se è vero essa è immagine della Chiesa nella sua universalità. Il XXXXXXX XXXXXXXX XX XXX XXXXXXX sembra voler dare di sé l’immagine di persona inflessibile su certi fenomeni, ma di fatto poi, stando a quanto narrano e documentano numerosi sacerdoti e seminaristi, le punizioni esemplari ricadano solo sui deboli, mentre i potenti godono di una impunità ai più alti livelli. In un suo editoriale del 14 gennaio 2013, il direttore della XXXXX XXXXXXX XXXXXXXXXX, XXXXXXXX XXXXXXX, solleva un quesito rimasto senza risposta: «Tutti ricordiamo anche l’inchiesta del settimanale Panorama nel luglio 2010 sulle notti brave di alcuni preti gay a Roma. Fu un’inchiesta che generò giustamente scandalo e il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX, il cardinale XXXXXXXX XXXXXXX fece affermazioni durissime contro questi sacerdoti, invitandoli a uscire allo scoperto e abbandonare il sacerdozio: eppure non se ne è saputo più niente, non ci sono state sanzioni di alcun genere sebbene alcuni dei responsabili fossero identificabili».
XXXX XX XXXXXX nel suo libro, che a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione non è stato mai smentito, ricorda, da parte sua, una denuncia, da lui presentata contro la palese immoralità del parroco di una importante basilica romana. Il  XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX reagì dichiarando XXXX XX XXXXXX persona non gradita nell’ambito pastorale romano e lasciando che il prete immorale rimanesse al suo posto. Episodio che il sacerdote ha nuovamente riferito di recente in un’intervista in cui dichiara, tra l’altro, che «nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista».
Anche il sacerdote polacco XXXXXXX XXX è dello stesso avviso del confratello italiano ed a conferma di certe dinamiche scrive nel suo articolo: «Quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all’ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose». Se questi fatti, diversi dei quali resi pubblici e ancora in attesa di smentita fossero veri, la situazione ecclesiastica di Roma e delle diocesi italiane è a dir poco spaventosa.
Quel che più impressiona è che tutti, pur sapendo, tacciono, persino dinanzi a una denuncia, giungendo all’aberrazione di punire l’innocente proteggendo il colpevole. Ma se Roma è paradigma della Chiesa universale, a Roma una realtà è più di ogni altra cartina di tornasole, l’XXXX XXXXXXXX XXXXXXXXX, conosciuto per essere il più antico e prestigioso Istituto di formazione sacerdotale dell’Urbe e dell’orbe, l’unico dipendente direttamente dalla Santa Sede che provvede alla nomina del suo rettore. Già negli anni ‘70 il periodico XX XXXXXXXX pubblicò un dossier sulla generale immoralità regnante in questo Istituto; dossier che costò la testa dell’allora rettore fatto vescovo. Sostituito il rettore e placate sul momento le acque, tutto tornò però presto tale e quale a prima.
L’ultimo tentativo di moralizzazione fu fatto nei primi anni 2000 con il rettorato di uno spigoloso sacerdote marchigiano, ora in servizio presso la Santa Sede, che cercò di portare un po’ d’ordine e decenza. Si dimise dopo meno di due anni, su pressione di certi ambienti curiali che non tolleravano il suo desiderio di far pulizia. La situazione, ad oggi, non sembra cambiata.
Questo Istituto è un paradigma perfetto: una facciata di aulica nobiltà fatta di secolari tradizioni e un dietro le quinte fatto di notti brave dei seminaristi che, una volta liberi e dismesso il clergyman d’ordinanza, possono entrare e uscire a tutte le ore del giorno e della notte. Quindi incontri particolari tra seminaristi, ma anche tra prelati più o meno potenti in cerca di compagnia. Amicizie molto intime tra alunni, sia seminaristi che sacerdoti, sono all’ordine del giorno fino alla costituzione di vere e proprie coppiette omosex, il tutto senza troppo bisogno di nascondere. All’interno di questo blasonatissimo seminario basta avere un po’ di confidenza con qualche seminarista per sapere chi è “fidanzato” con chi e quali siano i nomignoli al femminile con cui è chiamato questo o quel seminarista, questo o quel sacerdote.
Per giustificare questo stato di depravazione, chi governa questo microcosmo seminariale invoca il principio dell’autoformazione della Pastores dabo vobis (n. 69) e del Direttorio su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, stravolti però in senso tutto quanto liberal. Il documento Orientamenti e norme per i seminari (n. 73) riconosce sì come necessaria al processo formativo la capacità all’autoformazione del candidato al sacerdozio, ma non declinata secondo una prassi libertaria che finisce col farsi poi de facto libertina.
Se poi si considera che questo ambíto istituto è una vera e propria “fabbrica” di vescovi, nunzi apostolici e cardinali, come non rabbrividire?  Si dirà: è un caso isolato dovuto a particolarissime condizioni. In realtà è molto di più: è un paradigma. Si tratta infatti del più antico e titolato istituto, direttamente dipendente dalla Santa Sede, preposto alla formazione sacerdotale. Non vogliamo generalizzare, ma viene da chiedersi: se tanta è la sporcizia nel collegio la cui direzione dipende immediatamente dalla Prima Sede, cosa accadrà negli altri dipendenti dalle sedi secondarie? Quella sporcizia denunciata dal cardinale Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 sommerge la Roma dei seminari e dei collegi, a partire proprio dal più prestigioso ed esclusivo. Preghiamo dunque perché il nuovo Papa trovi la forza di iniziare la pulizia morale che tutti invocano dalla diocesi di cui, fin dal giorno della sua elezione, si è proclamato con fierezza vescovo.


Anche depurato, sono certo che l’articolo non perda efficacia. Se anche così meriti di essere oscurato, sono ansioso di sapere il perché.    

[...]


Non so se rammentate la scena del giorno in cui il dottor Guido Tersilli prende servizio da volontario in ospedale (Il medico della mutua – Luigi Zampa, 1969). Trova colleghi che hanno intuizione, e presto avranno prova, del suo cinismo e della sua spregiudicatezza. Non sono troppo diversi da lui, ma fiutano il pericolo di un concorrente dalle qualità superiori, e il loro disprezzo sostanzialmente è invidia.


lunedì 27 maggio 2013

La lectio magistralis della perpetua


La signora Liliana Zaccarelli meriterebbe il titolo di Dottore della Chiesa, perché con poche parole è stata in grado di illustrare la dottrina dei carismi assai meglio di Isidoro di Siviglia, che nel commentare 1 Cor 12, 7 («A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune») scriveva: «Questo avviene affinché venga favorita l’umiltà e ogni membro del corpo svolga il suo compito ammirando i doni dell’altro. In tal modo tutti i doni diventano comuni e le membra sono l’uno necessario per l’altro» (Sententiarum libri tres, II), che – mi auguro converrete – è un modo assai legnoso per dire che nella Chiesa ciascuno è chiamato a una funzione, secondando la propria indole e le proprie capacità, e tutte sono necessarie, e tutte vengono premiate, tutte sfruttate a pieno anche quando in apparenza sembrano sacrificate.
Tutti i cretini che hanno contestato il cardinal Bagnasco – non meno cretini di quanti hanno tirato fuori dai loro cassetti i coccodrilli più critici – si son mai chiesti perché don Gallo non abbia mai subìto una sanzione ecclesiastica per le sue sparate? Era necessario. Era necessario proprio a quella Chiesa che non piaceva affatto a quanti don Gallo piaceva tanto. E lo sapeva, per questo esagerava.
Sapeva  che il suo cappellaccio da anarchico bilanciava il camauro foderato in zibellino. Che i suoi drogati e le sue puttane, il suo sigaro e il suo Bella ciao, i Moni Ovadia, gli Shel Shapiro, i Vladimir Luxuria e i Gino Paoli – tutto il cast chiamato a recitare nel film della sua vita, vip e comparse altro non era che il controcanto dei pedofili coperti per decenni e decenni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dei mafiosi che fino a ieri usavano lo Ior per riciclare i proventi del loro narcotraffico, dei finanzieri e degli immobiliaristi che non hanno mai smesso di fare affari con la Propaganda Fide, della nobiltà nera romana che ogni domenica mattina assiste alla messa in latino. Tutti, simpatizzanti ed antipatizzanti quando era in vita, non hanno mai capito un cazzo di don Gallo: recitava la sua parte, era la spalla del cardinal Siri, che a sua volta gli faceva da spalla. E a loro, non a caso subito zittiti, la signora  Liliana Zaccarelli ha impartito una lectio magistralis da rimeditare. 

sabato 25 maggio 2013

Soldi, trasparenza e carisma


Si sa ancora poco della riforma del finanziamento pubblico ai partiti che il governo Letta intende promuovere, ma quel poco non piace a Grillo e a Pannella. Si tratterebbe – pare – di consentire il finanziamento da parte dei privati cittadini con un meccanismo analogo a quello del 5xmille, limitando l’intervento dello Stato all’assistenza in termini di strutture e servizi (spazi tv e radio, affissioni, costi di spedizione, ecc.), il tutto in regime di estrema trasparenza dei rendiconto e di controllo dei meccanismi interni ai partiti, per evitare ogni gestione padronale delle risorse. Boh, chissà se sarà possibile, e come, poi non dimentichiamo che in Italia ogni riforma nasce zoppa e col verme dentro, però lo stesso non si capisce il no di Grillo e di Pannella. Cioè si capisce bene solo se si conviene sul dato, peraltro di pacifica evidenza, che la leadership carismatica non regge senza il controllo pieno ed autocratico delle risorse finanziarie. La trasparenza sulle entrate e sulle uscite va bene come slogan contro la partitocrazia, ma di fatto un movimento politico a guida carismatica senza gestione proprietaria della cassa è una contraddizione in termini, sia che il denaro pubblico sia rifiutato di fatto, com’è nel caso di Grillo, sia che lo sia solo a chiacchiere, com’è nel caso di Pannella. Ecco perché li troviamo insieme a dire no, sebbene il primo, col 25% dei consensi elettorali, intaschi meno – praticamente niente – rispetto al secondo, che ne raccoglie solo lo 0,2%. Ma ne riparleremo, perché in questione è la natura dello statuto di un partito.