[Allego in coda
a questo post quanto andrebbe bene qui in premessa, ma appesantirebbe troppo il testo: si tratta
della risposta che ho dato l’anno scorso a chi mi muoveva l’accusa di essere un
malpensante. Mi è stata mossa anche oggi, ma il tono era
piacevolmente ironico, per ciò che ho scritto nel post precedente a questo, col quale sollevavo
il sospetto che il ddl oggi annunciato dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del
finanziamento dei movimenti e partiti politici» – anche così com’è in bozza, anche senza gli immancabili
emendamenti che vi apporterà il Parlamento – sia una solenne presa per il culo. Riproporre oggi quel post ha il fine eminentemente pratico di risparmiarmi ogni risposta a chi volesse sollevare nella pagina dei commenti l’obiezione che la mia riflessione sia viziata da un pregiudizio ostile a questo governo, ai partiti che lo appoggiano, ecc. E dunque...]
Il ddl approvato
ieri dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del
finanziamento dei movimenti e partiti politici» è disonesto fin dal primo comma
del primo articolo: «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». In
realtà, almeno formalmente, il finanziamento pubblico dei partiti è già stato
abolito nel 1993, grazie a un referendum che raccolse il 90,3% dei consensi a
favore dell’abolizione. Referendum tradito pochi mesi dopo, con una legge che
disponeva un «contributo per le spese elettorali» (legge 515/1993). «Un rimborso di questo tipo –
disse uno dei suoi promotori (gli venisse un cancro in culo, se è ancora vivo) – ha
una sua autonoma ragion d’essere e non deve trasformarsi, né si trasformerà, in
una nuova forma di finanziamento dei partiti come tali». A chi avesse sollevato
il sospetto che fosse un modo per far rientrare dalla finestra ciò che era
stato appena cacciato dalla porta, si sarebbe detto: «Via, che malpensante».
E
dunque a quale «finanziamento pubblico dei partiti» fa riferimento, il ddl del
governo Letta? A un finanziamento che sostanzialmente non è mai stato abolito e
che anche stavolta si fa finta di cacciare dalla porta, provvedendo per tempo a
spalancargli la finestra, con la più che implicita ammissione che si tratta della replica di una truffa. Un sospetto da malpensante? La logica interna al sistema dei partiti, per come è strutturato in Italia, impone lo scetticismo come un dovere. E in questo caso –
vedremo – non mancano elementi per dargli legittimità di metodo, riavendone in cambio prove ampiamente argomentate: siamo dinanzi agli stessi luridi parassiti di vent’anni fa, sono solo cambiati i volti, e ci rifilano lo stesso trucco, ma gli hanno trovato un altro nome, stavolta è «contribuzione volontaria privata». Bugia enorme, tanto più sfacciata quanto più si procede nella lettura del ddl, che «assicura, in favore dei partiti e dei movimenti politici […] la
disponibilità, in almeno ciascun capoluogo di provincia, di idonei locali per
lo svolgimento delle attività politiche, nonché per la tenuta di riunioni,
assemblee e manifestazioni pubbliche» (art. 5), dando loro il
«diritto ad accedere, al di fuori dei periodi della campagna
elettorale […] a spazi televisivi messi a disposizione a titolo gratuito dalla
concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo» (art. 6). In pratica, logistica e comunicazione sono a carico dello Stato, con quanto si troverà modo di spremere facendo la cresta su queste voci e quelle che senza dubbio saranno aggiunte con gli immancabili emendamenti (energia elettrica, telefonia, posta, ecc.). Oltre al contributo del duexmille e a quello volontario dei privati, che potranno in buona misura detrarlo in sede di dichiarazione dei redditi, e quindi a ulteriore carico dello Stato, i partiti trovano modo di concedersi a gratis tutto ciò che prima pesava sui loro bilanci per almeno un terzo delle spese.
Poi, il punto più ambiguo, quello del duexmille: «Ciascun
contribuente può destinare il duexmille della propria imposta sul reddito a
favore di un partito o movimento politico» (art. 4, comma 1) e «le destinazioni
[…] sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede
di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda
recante l’elenco dei soggetti aventi diritto» (art. 4, comma 2), in barba alla
segretezza del voto o delle preferenze politiche, che pure viene promessa, ma
senza alcuna spiegazione su come la promessa possa essere mantenuta.
Si parla di un tetto massimo di 61 milioni di euro, ma stranamente il dato non è specificato nella bozza del ddl, che pure gronda di numeri con encomiabile spreco di virgole. Ma poi c’è
il bello: «In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili […] è
destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse» (art.
4, comma 3), e qui siamo a una variante bastarda di ciò che correntemente
avviene con l’ottoxmille.
Bastasse, ma non basta. Tutto, ammesso rimanesse come è sulla carta, entrerebbe a pieno regime fra tre o quattro anni, e nel frattempo il denaro pubblico ai partiti non diminuirebbe, anzi,
c’è l’opportunità che possa quasi raddoppiare. Insomma, anche volendo tener da parte il pregiudizio che ci istiga a tener presente che merde siano, questi boiardi della partitocrazia italiana mostrano una incredibile faccia tosta. Si stanno dividendo i compiti:
c’è chi lamenta che un centinaio di dipendenti e funzionari di partito potrebbero essere licenziati (e non si capisce perché dovrebbero muoverci a compassione più degli altri licenziati nel settore pubblico e in quello privato) e
c’è chi invece annuncia che il ddl sarà una rivoluzione. Non hanno paura di niente.
«Pensar male» e «pensar bene» (Malvino, 18.4.2012)
L’implicazione d’ordine
morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante»,
cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli
altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una
cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline
a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i
comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti,
non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso
fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il
«bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda
inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio
«pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene»)
si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto
regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente
buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio
«pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che
difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere
confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che
sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto
che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori
dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è
male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri
termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel
«malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono»
può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto.
(Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto
che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico
che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza
difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il
«benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un
involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure
interne.) Ciò
premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia
i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso,
adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito
morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente
buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di
qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico
applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o
esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico,
sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma
o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non
mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si
appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere,
sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette
ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie
argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che
pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è
solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del
«malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di
categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume
al «pensare».